Nel cuore della campagna senese, di fronte al borgo di Casole d’Elsa e immerso nell’antico villaggio etrusco, lo chef Daniele Sera guida un progetto gastronomico che sfugge tanto alla cartolina della “Toscana tipica” quanto ai codici dell’alta ristorazione internazionale. Siamo al Castello di Casole by Belmond, luogo di ospitalità certificato da Astronomitaly tra i cieli più belli d’Italia, dove anche la cucina diventa espressione viva del territorio. Qui la tradizione non viene replicata, ma trasformata in un linguaggio contemporaneo, fondato su tecnica, memoria domestica e sostenibilità reale.
«Ho imparato dai gesti di casa, da una cucina in cui nulla veniva buttato – racconta Sera –. Adesso faccio la stessa cosa, ma con gli strumenti della professione: la tradizione non va replicata, va capita, e poi riscritta con precisione tecnica». È la linea guida che attraversa ogni aspetto del suo lavoro: dal ristorante gourmet Tosca al bistrot e pizzeria Emporio del Castello, fino agli outlet estivi – il Castello Grill e il Pool Bar – dove la cucina si fa incontro informale con il paesaggio. La stessa visione anima anche gli appuntamenti tematici che punteggiano l’anno, come La Domenica del Villaggio o le cene sotto le stelle, e si estende al progetto di mixology botanica del bar, che traduce in cocktail l’anima verde del territorio.
«Il primo modello di gestione della cucina l’ho avuto in casa», racconta Sera ricordando la madre Margherita – per tutti Rita – Dadà. «Era una cuoca straordinaria e lavorava al servizio di famiglie nobili fiorentine: una cucina domestica, ma condotta con rigore professionale. Lì ho imparato che la qualità non dipende dal costo della materia prima, ma dall’uso intelligente delle risorse. È una lezione che condivido ancora con la mia brigata: niente sprechi, controllo metodico degli ingredienti, valorizzazione totale del prodotto».
Dal frigo al piatto: il coniglio “freddo” come manifesto

La sintesi di questa visione è un piatto che, all’apparenza, è il più semplice di tutti: il coniglio alla cacciatora servito a temperatura ambiente. Una scelta che non nasce da un’idea creativa, ma da un ricordo: «Da bambino lo mangiavo il giorno dopo, quando non era più caldo. Quel gusto mi è rimasto dentro, e oggi lo ripropongo, ma con una struttura gustativa e tecnica contemporanea. Quando lo assaggerete, sarà tiepido. Cambia tutto».
È il passaggio che Sera descrive come il vero salto tra la cucina della nonna e quella di un grande ristorante: non il cambiare la ricetta, ma saperla rendere attuale senza tradirla. Sebbene Tosca – così come l’intera struttura – chiuderà il 30 novembre per la consueta pausa invernale, lo chef ha già in mente un piatto da inserire in menu alla riapertura. «Si tratta di un tortello che farcirò con le erbe spontanee raccolte qui nei dintorni, mi viene in mente il tarassaco. Mia mamma faceva così: purtroppo io non ho avuto la lungimiranza di affiancarla nelle sue uscite di foraging, avrei tanto voluto rubare con gli occhi. Sostenibilità non è una parola di marketing: è capacità professionale ma anche una sensibilità naturale. Sapere gestire ciò che si ha, senza sprechi, con qualità costante. Oppure andarselo a scegliere sul campo», dice lo chef.
Il bar botanico dedicato al regista Visconti
Il lavoro gastronomico a Casole non si ferma ai piatti. Nel cocktail bar Visconti, dedicato al noto regista Luchino Visconti, che frequentava assiduamente il Castello di Casole durante le estati, Sera ha collaborato alla creazione di una drink list abbastanza singolare: una carta divisa in tre sezioni – Fiori e Impollinatori, Ortaggi, Coltivazioni consociate – che interpreta il territorio prima come ecosistema, poi come gusto. Il menu è stampato su supporto composto al 50% da carta riciclata e al 50% da scarti alimentari (in particolare fondi di caffè): coerenza totale.
Il concept trasferisce nel bicchiere la stessa logica del farm-to-table, diventando farm-to-bar: ogni ingrediente proviene dal territorio della tenuta e la carta non è mai definitiva. Viene aggiornata ogni anno secondo un principio di naturale selezione: i cocktail che funzionano restano, gli altri vengono sostituiti. «Il prossimo sarà il Volume Due: alcuni drink diventeranno classici, altri usciranno di scena. La carta deve restare viva», spiegano dal bar.
Fra le anticipazioni, una ricetta prevista per il 2026: Dolce-Vite, a base di Vermut, spumante analcolico e succo d’uva fresco.
Proprio il succo d’uva rappresenta una delle novità dei prossimi mesi: verrà prodotto in tenuta con uve Sangiovese, le stesse utilizzate per la nuova etichetta di rosso della casa, Ulpaia. Sarà un prodotto analcolico destinato a più utilizzi: ingrediente da miscelazione, pairing gastronomico e proposta premium per i minibar delle 39 camere e suite. Andrà ad affiancare il gin del Castello, già presente in bottiglia.
Qui la gastronomia non è un servizio accessorio, ma un’estensione del luogo

Il contesto agricolo e paesaggistico fa parte del racconto culinario tanto quanto i piatti: oltre cento varietà di rose lungo il viale d’ingresso, orti produttivi, oliveti da cui nasce l’olio extravergine della casa, vigne, arnie per il miele millefiori, boschi e sentieri – come quello che conduce al piccolo borgo di Mensano – inframezzati da ville storiche restaurate.
«Non siamo un ristorante in un hotel. Siamo una cucina che rappresenta un territorio intero. La differenza è enorme», afferma Daniele Sera. È anche per questo che il Castello di Casole ha aderito al circuito internazionale Garden Gastronomy promosso da Veuve Clicquot, un progetto dedicato alla connessione diretta tra orto, prodotto e cucina d’autore. L’idea è semplice ma radicale: ingredienti stagionali, provenienza locale, interpretazione contemporanea senza forzature in abbinamento a diverse annate de La Grande Dame.
Nella stessa direzione s’inserisce la recente cena a quattro mani con Norbert Niederkofler, tre stelle Michelin con Atelier Moessmer a Brunico e fondatore del movimento Cook the Mountain. Non un evento di immagine, ma un confronto di metodo: entrambi gli chef lavorano su una cucina che valorizza ciò che il territorio offre, riduce lo spreco e considera il piatto come espressione culturale, non solo tecnica. L’incontro non mirava a importare un modello esterno, ma a mettere in dialogo due approcci nati in contesti diversi – le Dolomiti e la campagna senese – che condividono lo stesso principio: cucinare significa prendersi cura di un insieme di relazioni tra territorio, prodotti e persone, non solo costruire un menu.
Perché andarci ora – o segnare la data

La stagione 2025 si chiude a fine mese. Alla riapertura, nella primavera 2026, chi tornerà non troverà un semplice menu nuovo, ma un’identità più radicale: meno piatti “internazionali”, più Toscana interpretata, non esibita.
La direzione è chiara: una cucina colta, ma non artificiosa; essenziale, ma non povera; legata alla memoria, ma non nostalgica.
Il risultato è una forma di fine dining rurale che non imita nessuno, e che forse proprio per questo merita attenzione.