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Cibo libero

Dall’incontro di filiere alimentari e istituti penitenziari può nascere il seme del riscatto. Partendo da un progetto curato in prima persona, Elisia Menduni fa una panoramica dei casi italiani più interessanti

cibo libero

QUANDO ENTRAI in un carcere la prima volta, qualche anno fa, la cosa che mi colpì di più fu il silenzio. Sebbene fosse immerso in una città trafficata e rumorosa, oltre le mura alte con il filo spinato sembrava che ogni suono fosse annullato, sospeso. Capii che era il primo strano segnale di un ingresso in una dimensione parallela, altra, a tratti surreale e davvero difficile. Il luogo che banalmente avevo associato da sempre alla sofferenza, alle grida e alla punizione, adesso mi accoglieva invece con il silenzio quasi sacrale di un monastero avvolto dal nulla.

Quel primo giorno a Rebibbia, i bracci del blocco femminile mi parvero addirittura belli, quasi pacifici, vista la calma. Coinvolta da Adelaide, una cara amica di famiglia, volontaria dentro la Casa circondariale da oltre 60 anni, ero approdata dentro uno dei penitenziari più grandi d’Italia, cercando di costruire attività formative e ludiche per le detenute. Adelaide conosceva il mio lavoro come giornalista gastronomica e mi aveva chiesto di pensare con il VIC (Volontari in Carcere) dei progetti legati al cibo e alla cucina per la popolazione femminile del penitenziario. Senza esitare accettai e per mesi, anzi anni, ho collaborato (mai abbastanza) con lei.

Iniziai proponendo corsi di cucina, formazione e cene. Organizzammo diversi corsi di panificazione con Gabriele Bonci, gare “ai fornelli” e piccoli eventi. Quel poco che facemmo rappresentava per tutte le donne di Rebibbia una giornata diversa dal silenzio delle sbarre. In carcere le leggi, le gerarchie, le dinamiche, i fatti sono molto diversi dall’esterno. Sembra banale, ma è il primo punto su cui mi trovai a riflettere una volta dentro la Casa circondariale. Ciò che a me sembrava semplice diventava complicato e sempre difficile. Per i corsi di pane ci fu intimato di prestare molta attenzione a lievito e zucchero. Il rischio era che le detenute li rubassero per poi farli fermentare (con l’acqua) e ottenere alcool. Tutti i coltelli per ogni attività erano contati. Le pietanze si preparavano su un fornelletto elettrico e a disposizione avevamo quella poca attrezzatura che il gruppo di volontarie si era portato da casa.

Osservai con attenzione quel cucinare così preciso e meticoloso delle carcerate e trasfusi tutta la mia energia al progetto. Cucinando si parlava e ci si scambiavano aneddoti: interpretavamo a nostro modo l’articolo 27 della Costituzione italiana in cui si afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ci inventammo, a nostro modo, una “rieducazione” gastronomica e nacquero nuove amicizie nella “pena” della reclusione. Mi furono raccontati i pasti in cella, l’assenza della mensa e di una sala comune dove stare insieme.

Il cibo dietro le sbarre è un carrello che passa tre volte al giorno lungo i corridoi della Casa circondariale. La qualità dei piatti è ospedaliera e molte carcerate ritengono che anche le porzioni siano insufficienti. Esiste uno spaccio dentro la Casa circondariale e se la carcerata ha soldi propri o lavora dentro la struttura (dedicandosi, per esempio, alla cucina o facendo le pulizie) può permettersi anche l’acquisto di altri generi alimentari (tra quelli consentiti); mancando frigo, forno e strumenti vari, cucinare in cella prevede l’ideazione di ingegnose soluzioni alternative, l’uso dei contenitori del cibo (pacchi di patatine o di pasta) in vece del pentolame, l’impiego di acqua corrente calda per cucinare e una generale ottimizzazione degli spazi. Cucinare quando si ha tutto a disposizione è facile, cucinare quando non si ha niente si può fare. Con coraggio e inventiva. Tra le molte cose che questa esperienza mi ha insegnato c’è anche questa consapevolezza.

Dopo qualche mese dentro la Casa circondariale, avendo avuto modo di visitare il carcere, mi venne in mente di creare un progetto. Rebibbia è proprio una città nella città: 27 ettari circondati da una cortina di mura e filo spinato, un’azienda agricola al suo interno, un allevamento con macello e gabbie di polli, tacchini e conigli, una stalla, l’orto e la porcilaia. Molti di questi spazi quando li visitai erano abbandonati o usati solo parzialmente. Un tempo un gregge pascolava all’interno di Rebibbia e vi si produceva il formaggio, mi raccontò un giorno una guardia penitenziaria: considerati gli ampi prati intorno ai blocchi edificati mi parve fosse più che possibile. Del resto, il progetto architettonico della Casa circondariale (inaugurata nel 1972), di cui fu autore Sergio Lenci, voleva essere una vera e propria “cittadella penitenziaria ideale”, con ampie aree verdi, in cui coltivare la terra, allevare animali, con numerosi laboratori dove fare artigianato e studio.

Pensai che sarebbe stato bello formare le carcerate sulla produzione di formaggio e creare un laboratorio di caseificazione all’interno di Rebibbia utilizzando alcuni degli spazi allora abbandonati. Chiamammo il progetto “Cibo Libero” e lo affidammo alla gestione di un imprenditore affinatore di formaggi che costruì il caseificio, formò le detenute e per diversi anni si dedicò alla produzione dentro le alte mura del penitenziario. Purtroppo dopo qualche anno il progetto del caseificio si arenò, insieme a quello del forno di panificazione che nel mentre aveva preso vita all’interno del blocco maschile. Non sempre le storie hanno un lieto fine. Gli eventi dentro il carcere, il turnover ai vertici, le difficili riforme della legge penitenziaria nazionale hanno reso le attività “dentro” molto difficili.

Per fortuna altre storie di carcere e cucina, invece, hanno avuto più possibilità e stanno crescendo, nonostante l’indubbia difficoltà degli iter interni. Sapori Reclusi, uno dei progetti più belli, nato nel 2005 con il libro “Il Gambero Nero. Ricette dal carcere” di Davide Dutto e Michele Marziani (Ed. Derive/ Approdi), ha portato all’interno delle case circondariali piemontesi grandi nomi della gastronomia italiana, ha raccolto fondi con cene ed eventi, e ha prodotto mostre fotografiche oltre a un laboratorio permanente di foto-gastronomia.

Sempre al 2005 risale l’inizio di una serie di bellissime cene dentro al carcere di Volterra, le Cene Galeotte. Grazie all’interazione dell’Istituto Alberghiero di Volterra, i detenuti negli anni hanno seguito corsi e assorbito un’intensa formazione di cucina che li ha portati in molti casi a poter lavorare anche esternamente alla struttura. A Bollate, grazie a una sezione carceraria dell’Istituto Alberghiero nella II Casa di Reclusione milanese, è nato In Galera, un vero e proprio ristorante in cui lavorano carcerati, sia in cucina sia in sala, con energia e professionalità. All’interno della struttura Due Palazzi di Padova, la pasticceria Giotto ha creato un grande laboratorio di produzione di pandori e panettoni. Dal 2005 il laboratorio è attivo grazie al lavoro dei carcerati, sfornando lievitati, torte e biscotti davvero buoni.

I detenuti del carcere di Capanne a Perugia recuperano serre e costruiscono orti biologici (l’hanno fatto anche a Monza, con il programma Metti un Orto in Carcere). A Milano giovani detenuti dell’istituto penale minorile Beccaria e della casa circondariale di San Vittore hanno dato vita al progetto Buoni Dentro, una linea di prodotti da forno con una panetteria in città (in Piazza Bettini). Anche a Torino i detenuti della Casa circondariale Lorusso e Cutugno avevano aperto un forno, Farina nel Sacco (ora chiuso), così come nella Casa di reclusione di Alessandria è attiva da diversi anni una panetteria con ottimi pani da farine biologiche e lievito madre.

Grazie alla collaborazione con Slow Food sempre a Torino è stato creato un laboratorio di torrefazione all’interno del carcere delle Vallette dove cru di caffè selezionati vengono lentamente tostati a legna producendo interessanti miscele. Dalla collaborazione tra Cascina Morosina e gli istituti di San Vittore, Opera e Bollate è nato il progetto della Birra Agricola Malnatt, mentre a Gorgona, insieme ai detenuti della colonia penale all’aperto ospitata dalla piccola isola toscana, Frescobaldi ha avviato da qualche anno una produzione di vini.

Tanti sono i progetti e interessanti i loro risvolti sociali. Ogni occasione per insegnare ruoli e professioni, per costruire progetti di lavoro sociale e per rendere la pena costruttiva è benvenuta. Con il cibo, con la cultura o anche solo con la propria energia. Il rapporto dell’Associazione Antigone sulle carceri italiane e i dati che emergono dalle relazioni dei Radicali non sono affatto confortanti: suicidi, sovraffollamento, violenza restano i temi al centro delle problematiche carcerarie. La cucina può aiutare a sognare – e in alcuni casi a realizzare – una vita diversa.

Durante la produzione di questo articolo è stata consumata una confezione di Scappatelle, biscotti all’olio, vino Primitivo e zucchero di canna prodotti da un laboratorio che è parte della bellissima rete di Luciana Delle Donne, Made in Carcere. Sotto il nome dei biscotti c’è scritto: “Fatti per una nuova vita”.

foto di Elisia Menduni