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Oltre le quote rosa

Cosa dovrebbe cambiare per far crescere la presenza delle donne in cucina? Sara Porro svela contraddizioni e meccanismi di un sistema ancora discriminatorio

Quando nel febbraio scorso la guida Michelin ha assegnato 57 nuove stelle in Francia, solo due sono andate a chef donne, portando il New York Times a chiosare ironicamente “più fraternité che égalité”: insomma più fratellanza – tra uomini – che uguaglianza di genere. In Francia ci sono 16 cuoche tra i 621 ristoranti con stelle Michelin: meno del 3%. Dei 195 ristoranti con stelle Michelin in Spagna, solo 19 hanno chef di sesso femminile, e sono solo 20 le chef nei 166 ristoranti stellati negli Stati Uniti. In Italia va meglio: 41 su 367, circa il 12%. Un buon segno? Solo parzialmente: «nel nostro paese – come ricorda Viviana Varese, chef del ristorante Alice di Milano – la ristorazione è legata a un modello di imprenditoria familiare, e così spesso la donna chef è figlia d’arte o lavora con il marito». Ma se lamentare la carenza di donne nella ristorazione sembra ormai diventato un sottogenere letterario a sé, identificare le cause non è facile. Di certo la sproporzione di genere comincia a monte, nella formazione: all’istituto alberghiero Olmo di Cornaredo sull’intera popolazione scolastica di 195 studenti, 73 – cioè il 38% – sono ragazze, ma solo due delle alunne del terzo anno hanno scelto il percorso di cucina: le altre vogliono avviarsi al lavoro di sala e di pasticceria. 

Ancora più bassi i numeri della Food Genius Academy di Milano, scuola di cucina dove l’età media degli iscritti è un po’ più alta, intorno ai 25 anni, che in cinque anni ha portato la percentuale di iscritte dal 10% fino al 15% del 2018 grazie a una campagna di recruiting mirata voluta dalla direttrice Desirée Nardone. Questi numeri già ridotti, però, diminuiscono ulteriormente nel passaggio dalla formazione al lavoro. Eppure, come confermano da La Scuola Internazionale di Cucina Italiana ALMA di Parma, sono spesso le ragazze a risultare in assoluto i migliori studenti del proprio corso. Perché allora sono in poche a fare carriera? Spesso la responsabilità viene attribuita al clima della cucina: alle donne mancherebbero l’assertività, l’aggressività, le capacità di comando e la forza d’animo necessarie per il lavoro nelle cucine professionali dove sopravvive ancora una mentalità militaresca, tramandata dal modello francese di brigata. C’è quindi un aspetto simbolico: «L’organizzazione del lavoro in cucina – spiega il sociologo del lavoro Alberto Vergani – è storicamente impregnata di categorie, simboli e modalità molto maschili: è difficile per una donna entrare professionalmente in un mondo così fortemente connotato». Ma non si tratta solo di cultura: il confine tra il rispetto della gerarchia, necessaria perché un ristorante funzioni, e un ambiente abusivo è sottile. 

È vero però che la situazione sta migliorando: «I ristoranti – commenta Nardone – somigliano sempre più ad aziende, e lo chef non ha più mano libera come un tempo». Varese concorda: la cucina «machista e maschilista, dove nonnismo, violenza verbale e fisica sono comuni» dovrà necessariamente andare in pensione perché il mestiere avrà bisogno di rendersi più attraente: «Con l’eccezione dei ristoranti dove lo chef è una celebrità, a livello strutturale c’è una grave carenza di personale». C’è poi la difficoltà di conciliare la vita personale con quella lavorativa: gli chef lavorano sei giorni alla settimana, e 12-14 ore al giorno sono la norma. Se è vero che la mancanza di tempo per le relazioni e per la famiglia vale per uomini e donne in eguale misura, qui interviene però l’aspetto culturale, soprattutto se una donna ha figli: gli asili non sono certo aperti negli orari in cui gli chef sono al lavoro. Poiché la responsabilità dei bambini tende ancora oggi a ricadere di più sulle madri, conciliare le due cose può essere molto difficile. Così, molte donne dopo la formazione depongono l’ideale di lavorare in cucina a favore di attività di catering, oppure in istituti culinari, dove i ritmi sono più compatibili con la vita familiare. Anche la popolarità della pasticceria nei percorsi di studio si spiega in questo modo. In alternativa, diventa indispensabile una motivazione di ferro, come nel caso di Caterina Ceraudo, giovane chef di Dattilo, una stella Michelin in Calabria: «Di questo lavoro io mi sono innamorata senza pensare alle difficoltà: gli innamorati sono incoscienti.

 La vita personale non si scinde da quella lavorativa: bisognerebbe prima realizzarsi come donne e poi successivamente pensarsi madri o mogli. Invertire il percorso mi pare un errore». Ritmi di lavoro, cultura maschilista in cucina, difficoltà di conciliare lavoro e famiglia: fin qui i problemi. Cosa dovrebbe cambiare perché ci siano più donne in cucina? Certamente servirebbero orari di lavoro più flessibili, che però – sottolinea ancora Varese, che nella sua cucina impiega dal 40% al 60% di donne – «sono ormai un’ambizione molto diffusa non solo tra le donne». Altrettanto importante è che le giovani che vogliono fare questo lavoro non si sentano isolate, e che possano avere dei modelli di riferimento. Varese racconta come a lei arrivino molti curriculum di donne perché «una donna non vuole inserirsi in una cucina in cui è la sola cuoca». Vergani evidenzia come «negli istituti alberghieri a insegnare cucina sono molto spesso uomini, eppure nel mondo dell’insegnamento ci sono molte più donne. Questo si affianca a un altro paradosso, quello per cui tradizionalmente le donne stanno ai fornelli dentro casa, mentre cucinare fuori è stato storicamente appannaggio degli uomini: singolare perché in altri comparti molto maschili c’è maggiore conformità tra vita pubblica e privata.

 Per fare un esempio, ci sono più meccanici uomini così come sono più uomini gli appassionati di motori». Con la cucina il meccanismo si ribalta, aggiunge Vergani, che vede un’altra complicazione: «La recente popolarità della figura dello chef e la sua spettacolarizzazione, anche televisiva, potrebbe contribuire a riprodurre simbolicamente questa supremazia maschile e, in questo senso, rallentare il ritmo del cambiamento». Allora far emergere i nomi delle donne chef e celebrare il talento femminile è un altro tassello importante, su cui si stanno concentrando anche alcune aziende: su tutte Veuve Clicquot, la celebre casa produttrice di Champagne resa grande da Barbe-Nicole Ponsardin, vedova (“veuve” appunto) Clicquot, che a soli 27 anni prese le redini dell’azienda del marito. La maison ha creato l’Atelier des Grandes Dames nello sforzo di sostenere i talenti femminili nel settore creando il primo network di donne dell’alta ristorazione. Tra i piani per il futuro, anche attività di mentoring per far crescere le giovani cuoche grazie al sostegno delle colleghe. Finalmente, la fraternità in cucina non sarà declinata solo al maschile.