Cerca
Close this search box.
Sabrina Falconi nel dehors di Serendepico, Capannori (LU)

La sala che verrà

Camerieri in fuga? Parola ai maître e sommelier che amano questo mestiere e stanno reinventando le "regole" dell'accoglienza.

Forse avete visto un cartello passando davanti a un ristorante. Forse ve ne siete accorti dal post Facebook di uno chef. Forse conoscete qualcuno — un amico, un parente — che lavora nella ristorazione. Ed è così che siete venuti a conoscenza di un problema che, nel 2022, sembra caratterizzare le attività ristorative di qualsiasi tipo e in qualsiasi posizione geografica. Non c’è abbastanza personale in sala. Sembra diventato sempre più difficile trovare qualcuno disposto a dedicare le sue ore lavorative a questo mestiere, che sia come cameriere, maître o sommelier. C’è chi riconduce il problema a ragioni meramente economiche o di condizioni lavorative. Ma forse è anche la perdita di identità di un lavoro la cui importanza, a volte messa poco in luce nella narrazione dei ristoranti, è cruciale nella creazione di una memorabile (o comunque godibile) esperienza a tavola. E allora abbiamo pensato di parlare con chi a quel mestiere prova a ridare valore tutti i giorni.

Le donne della sala siciliana

Siamo partiti da Palermo, più precisamente dal Gagini, fresco di stella Michelin nel 2021. «Ho cominciato da piccolina a lavorare in un negozio di abbigliamento, ma non mi sentivo per niente soddisfatta — racconta la maître Laura Carollo, 29 anni —. Cercavo qualcosa che mi desse più stimolo e ho deciso di intraprendere la strada della sala. Adoro stare in mezzo alla gente e sono sempre stata attratta dai ristoranti». Dopo qualche esperienza in giro per la Sicilia ha iniziato a lavorare per l’azienda Virga & Milano che a Palermo gestisce il cocktail bar e ristorante Bocum, la trattoria di mare Aja Mola e appunto Gagini. Ha cominciato come commis di sala e poi, nel maggio 2021, è diventata restaurant manager. Al suo fianco, ma in cucina, lo chef brasiliano Mauricio Zillo. «Non mi era mai capitato di avere un rapporto così di sintonia con un cuoco. Anzi, non mi era mai capitato di incontrarne uno che non volesse a tutti i costi essere protagonista e soprattutto non fosse autoritario». Al Gagini la cucina è a vista e questo contribuisce a limitare una divisione netta, quanto piuttosto a creare un continuum sfumato, dove si respira un’atmosfera di accoglienza calorosa. «Per me è importante che tutto parli la stessa lingua: musica, cibo, atmosfera — racconta Laura —. Non voglio una sala impersonale. Vorrei che durante il servizio ognuno dei ragazzi portasse il suo sorriso, il suo sguardo, la sua esperienza». Secondo la Carollo, dopo questi ultimi due anni di pandemia Palermo sta vivendo una «speciale rifioritura. Di solito la stagione parte a giugno inoltrato, invece sembra che quest’anno non abbiano aspettato l’estate. Noto che gli ospiti sono più interessati a dire qualche parola in più, c’è molta voglia di discutere e di confrontarsi. Anche togliere la mascherina ha fatto la differenza: crea un feeling a cui ci eravamo disabituati. Ci permette di conoscere meglio le persone e instaurare il rapporto che vogliamo: che vada al di là di tecnicismi inutili, di formalismi eleganti. Operando in sincrono con la cucina, che punta soprattutto a riportare alla luce prodotti e tecniche dimenticate della nostra regione, dal sommacco alla pala di fico d’india».

Al Gagini ha lavorato otto anni anche la trentaduenne Michela Vitale, che a marzo 2022 è arrivata al Duomo di Ciccio Sultano a Ragusa Ibla, dove coadiuva il direttore Riccardo Andreoli. «Il nostro obiettivo — dice — è di far sentire gli ospiti a casa, sia per il fatto che il locale ha più stanze, che per il tipo di accoglienza. Cerchiamo di conoscere il più possibile del cliente in modo che, aprendogli la porta, si instauri un’attenzione diretta e cordiale. Qualcosa che viene subito percepito e che si trasforma, nella maggioranza assoluta dei casi, in una quasi confidenza che mi sorprende sempre». Uno degli aggettivi che emerge più spesso, parlando della cucina di Ciccio Sultano, è “sicilianitudine”. Lei nota un’impronta così diretta del territorio anche sulla sala? «Siamo in Sicilia e questo è un ristorante due volte stellato, che accoglie quotidianamente ospiti di tutto il mondo. Quindi, se per spirito siciliano si intende una naturale vocazione internazionale, derivata da una grande civiltà e da una grandissima cucina, rispondo di sì. Più banalmente, direi che il sorriso è di casa e che l’empatia fa spesso la differenza». Secondo Vitale questo mestiere è vittima di una conoscenza piuttosto superficiale: «Lavorare in sala non è solo portare dei piatti. Servono una consapevolezza e competenza che puoi acquisire solo col tempo e l’applicazione. È un impegno che dà grandissime soddisfazioni, ma che richiede anche un apprendimento costante. Secondo me manca la
voglia di studiare e imparare».

[ngg src=”galleries” ids=”43″ display=”basic_slideshow”]

Sparigliare le carte in tavola

Enrico Gori ha 28 anni. Ne aveva 22 quando ha aperto il suo primo ristorante a Rimini e ora, sei anni più tardi, di ristoranti ne ha due e guida un team quasi interamente under 30. Tutto è cominciato, racconta, nell’hotel dei suoi genitori a Igea Marina: «Ho sempre lavorato lì dentro e fatto un po’ di tutto. Sala, bar, reception. È così che mi sono avvicinato al mondo della miscelazione. Giravo l’Italia per bar e facevo corsi per diventare barman. Poi ho avuto una richiesta da Disney World a Orlando, in Florida. Sono partito e negli Stati Uniti ho scoperto un mondo della ristorazione completamente diverso da quello italiano: fila fuori dai ristoranti, grandi investimenti. Da lì mi sono spostato a Melbourne, dove ho lavorato alla caffetteria Brunetti approfondendo il mondo degli specialty coffee». Fin qui il suo sembrerebbe il curriculum tipico dell’expat italiano: gli USA, poi l’Australia. Ma Gori interrompe in fretta i suoi giri intorno al mondo per tornare in Romagna e aprire il Necessaire Bistrot, che descrive in poche parole come «la culla di quello che ho visto nei miei due anni all’estero. Si mangiano tapas, si bevono cocktail — 8 signature a rotazione, oltre ai classici — e vini naturali, in un’atmosfera molto casual
da bistrot». Conosce Roberto Magnani e lo chef Jacopo Ticchi e insieme fondano il gruppo Cuori Ebbri, per aprire poco dopo la Trattoria Da Lucio. Se allora era solo un piccolo ristorante in centro a Rimini, un’avventura diversissima dai locali turistici del territorio, oggi è un indirizzo molto conosciuto ai frequentatori della Riviera Romagnola, che segue il modello della “trattoria contemporanea”. Racconta Gori: «Crediamo in un servizio giovane e libero, senza la pesantezza del ristorante classico. Non c’è la tradizionale divisione in portate — antipasto, primo, secondo — e il menu è diviso secondo altri criteri, come crudo o brace. È un
lavoro che richiede tanti sacrifici e porta molti momenti di scoramento, ma quando poi sei in sala, senti che si respira l’energia a cui puntavi, che la squadra è in sintonia, e che arrivano i risultati, provi una soddisfazione unica. E poi ti permette di creare connessioni con persone simili a te da ogni parte del mondo».

Un altro ristorante che sicuramente ha abbandonato gli stilemi più tradizionali del servizio è Condividere a Torino. La maître Sara Repetto, classe 1991, è lì dall’apertura nel 2018: «Sono arrivata da Condividere dopo aver conosciuto Federico Zanasi una sera a cena nel ristorante in cui lavoravo a New York. Stava per aprire nella mia città natale e pensai che una coincidenza così non potevo di sicuro lasciarmela scappare. L’idea era anche perfettamente in linea con quello che cercavo e desideravo per me: freschezza e semplicità in superficie, ma cura di ogni dettaglio alla base. E così ho impostato il mio servizio di sala: spontaneo e solare, ma con dietro tanta preparazione e studio. Un’accoglienza grazie alla quale il cliente possa davvero sentirsi a casa e ogni membro del team libero di esprimere se stesso nel migliore dei modi. Se poi condividi anche tante ore di lavoro, ti rendi conto che per dare i migliori risultati le persone devono prima di tutto essere felici e soddisfatte di quello che fanno. È secondo questo principio che ho sempre cercato di gestire una sala, la mia sala». Secondo lei il problema della mancanza di personale è «la perdita di fascino della divisa da cameriere rispetto a quella da cuoco. Non sempre si riesce a dare la giusta importanza a quel sorriso caldo e accogliente che ti apre la porta all’arrivo in un locale, ti consiglia, ti accompagna e ti ringrazia a fine serata. Credo che proprio a causa del grande impegno che richiede, e purtroppo a volte con scarsi ritorni, i giovani preferiscano non provarci neanche».

[ngg src=”galleries” ids=”44″ display=”basic_slideshow”]

Un nuovo racconto del vino

Anche se non siete mai stati alla Bentoteca, bistrot giapponese di Milano, forse vi sarà capitato di vedere il sommelier Oliviero Lucchetti, 27 anni, sulla loro pagina Instagram. È lì che da qualche tempo crea pillole video, brevi e simpatiche, in cui racconta un po’ di dietro le quinte del mondo dell’enologia o di qualche vino in particolare. La sua passione va parecchio indietro: «Quando avevo 17 anni mio nonno mi ha lasciato una collezione di vecchie bottiglie e io le ho ordinate con un file Excel. Quello è stato l’inizio, anche se ero ancora
nella fase in cui bevevo gin tonic e birre industriali. Ho conseguito una triennale in gastronomia e management e poi ho fatto diverse esperienze, come al Relæ di Copenaghen, in cui il mio interesse per il vino si è spostato da una base classica a quella cosiddetta artigianale. Sicuramente ho ancora tanti mattoni da mettere. A fine anno mi trasferirò negli USA, ma nel frattempo, da marzo scorso, lavoro alla Bentoteca insieme allo chef Yoji Tokuyoshi». Qui, complice il bancone dove si fanno molte preparazioni a vista, Lucchetti racconta di come hanno abbattuto «la barriera tra cucina e sala. Certo, io non mi metterò a cuocere un petto d’anatra,
né lo chef a servire Romanée-Conti. Ma stiamo formando il personale affinché tutti sappiano tutto. Ormai anche i nostri camerieri vendono bottiglie importanti». Instagram gli è parso lo strumento più adeguato per trasmettere alcuni concetti chiave dell’enologia, in modo semplice e conciso: «Tanto, a buona parte dei clienti, interessa solo se il vino è buono o no, com’è giusto che sia. E noi dobbiamo ricordarci che non stiamo salvando il mondo. La chiave è non dilungarsi troppo: trasmettere pochi concetti chiave e creare un po’ di — per così dire — intrigo. Funziona. Alcuni ospiti chiedono un certo vino perché l’hanno visto su Instagram».

Il tema dell’approcciabilità torna anche parlando con Carla Scarsella. Ha 28 anni e lavora come sommelier al ristorante Sintesi di Ariccia (ai Castelli Romani) con la sorella Sara, in cucina insieme a Matteo Compagnucci. «Abbiamo creato una carta vini piccola e “avvicinabile”. Ci sono carte che sono tomi, che possono spaventare chi non ha una certa preparazione. Vogliamo che la nostra lista sia gestibile da tutti e venga sfogliata senza ansie. E poi mi piace cambiarla con frequenza. Per renderla ulteriormente accessibile abbiamo aggiunto una parte di kombucha e succhi, così, se qualcuno mi chiede un wine pairing analcolico, posso offrirglielo». I suoi studi, in realtà, stavano prendendo la direzione di una carriera da maestra, «poi però ho fatto un corso da sommelier, e la passione c’era. Quando mia sorella ha pensato di aprire il ristorante a marzo 2020 mi sono detta “buttati, ora o mai più”». Come ha fatto, senza esperienze pregresse, a costruire un servizio a sua misura? «Andavo a mangiare fuori, studiavo e riportavo quello che avevo imparato. La cosa bella di questo lavoro, infatti, è che c’è sempre qualcosa da imparare. Prima di cominciare pensavo che avrei dovuto limitarmi a portare i piatti. Non sapevo quanto mi sbagliavo. È divertentissimo».

[ngg src=”galleries” ids=”45″ display=”basic_slideshow”]

Un lavoro di squadra

Luis Diaz ha 31 anni, è nato in Colombia ed è arrivato in Italia quando ne aveva 10. Come molti nel mondo della sala, ha cominciato pensando di diventare cuoco, ma dopo un breve periodo alla scuola alberghiera ha capito che la sua strada era un’altra. È passato per
Trussardi alla Scala, Villa Crespi e Seta al Mandarin Oriental, poi è diventato il restaurant manager del Cavallino, aperto l’anno scorso a Maranello. Negli ambienti affollati di memorabilia del mondo Ferrari si respira la socialità della trattoria emiliana, dinamica e divertente. Come ci sono riusciti? «Abbiamo completamente abbandonato le impostazioni un po’ meccaniche proprie della ristorazione — diciamo così — francesizzata. Non vogliamo il cameriere che ti chiede continuamente “come va?”, che sposta la sedia per farti sedere. Noi, ad esempio, portiamo la bottiglia dell’acqua e quella del vino e lasciamo che gli ospiti si servano da soli. Da noi il protagonista deve essere solo lo storytelling del piatto». Al suo fianco, dall’apertura, c’è la sommelier Silvia Campolucci, 29 anni, esperienze in giro per il mondo e la consapevolezza di non immaginarsi a fare un altro mestiere che non sia questo. Racconta: «Nel servizio del vino per me vale la regola di non stare troppo al tavolo. Vogliamo che il tutto sia il meno rigido possibile, in un’atmosfera in un certo senso amichevole. La cosa fondamentale è sempre leggere il cliente. Da dove viene, cosa fa di lavoro, cosa gli piace bere, quali sono le sue conoscenze sul vino. Per me è un esercizio di psicologia».

Sabrina Falconi ha 36 anni ed è socia insieme a Masaki Kuroda di Serendepico e Nida. Il primo si trova all’interno di un bel resort nelle campagne lucchesi e propone una cucina ibrida tra Giappone e Italia, mentre Nida, aperto nel 2021 nel centro di Lucca, ha un’impostazione più tradizionale, da izakaya nipponico. Lui in cucina, lei in sala: un sodalizio tra due mondi che si contaminano nei piatti e nel servizio. «Ci siamo incontrati nel 2012, quando lo chef del Serendepico era Damiano Donati — racconta Falconi —. Nel 2016 siamo diventati soci. Lavorare con lui mi ha fatto capire che tra Giappone e Italia ci sono più similitudini che differenze, e infatti la fusion nippo-italiana è una delle più azzeccate. Io sono sempre stata una stacanovista, ordinata e precisa, e in quello ci troviamo. Alla creatività dei suoi piatti aggiungo la mia parlantina in sala, cercando sempre di non essere pressante con gli ospiti e lasciando loro il giusto spazio». Dopo tanti anni trascorsi a lavorare insieme si sentono «quasi fratelli. È vero, spesso nei ristoranti c’è un divario tra una sala e una cucina che non comunicano, ma noi ci sentiamo molto vicini». La difficoltà nel trovare personale ha colpito anche loro: «Ci sta affliggendo tutti. Quest’anno cercavamo collaboratori, ma non stiamo trovando nessuno. Oggi ho lavato i piatti, ho fatto la contabilità, tra poco mi metto la divisa e comincio il servizio».

[ngg src=”galleries” ids=”47″ display=”basic_slideshow”]

Una storia di famiglia

Al Cjasal si trova a San Michele al Tagliamento, al confine tra la provincia di Venezia e il Friuli Venezia Giulia, e basta aprire la carta per capirne la peculiarità. Non ci sono menu degustazione e quasi ogni piatto è disponibile in diverse porzioni: intera, mezza, cicchetto. Un’impostazione che richiede un enorme coordinamento tra sala e cucina. Che loro gestiscono in famiglia: ai fornelli ci sono i fratelli Stefano e Mattia Manias, 35 e 32 anni, e in sala a coordinare lo staff il padre Enzo, addetto ai vini, e la madre Rossella. Dice Stefano Manias: «Mio padre lavorava in cucina, ma dentro di sé è sempre stato un grande oste. Per lui la convivialità era all’ordine del giorno. Chi non ha mai visto il nostro menu spesso fa fatica a capirlo. Si trovano in imbarazzo, devono fare molte domande… e allora bisogna farli sentire a proprio agio. E trasformarsi appunto in osti». Per Enzo Manias, 65 anni, la chiave della sala è tutta qui, nel fattore umano: «Quando è arrivato il momento di far subentrare i miei figli in cucina mi son levato la giacchetta e sono passato in sala. D’altronde, ho sempre pensato di avere il carattere giusto — ride —. Ai tavoli ci vuole qualcuno predisposto a fare, a comunicare, a stare in mezzo alla gente. E almeno per il 70% simpatico. Bisogna capire come approcciarsi a ognuno, quando essere più protagonista, quando meno. Secondo me quello che piace del nostro ristorante è che ormai in società si tende a essere molto distaccati, mentre da noi ti accorgi di entrare in una casa di campagna. Si respira aria di famiglia».

[ngg src=”galleries” ids=”48″ display=”basic_slideshow”]

Gironi: «Serve trovare la formula per far diventare quello di sala un mestiere pop»

Abbiamo parlato della crisi della sala con Giacomo Gironi, consulente, formatore ed ex maître. «Prima di tutto va fatta una specifica: non c’è la stessa mancanza di personale di sala dovunque. Agli alti livelli della ristorazione — o comunque in imprese con dietro organizzazioni solide, non per forza stellati — di gente che vuole lavorare se ne trova. Forse è il ristorante a conduzione familiare quello che fa più fatica. Secondo me, un primo problema è che non si riesce a trovare la formula per fare diventare quello di sala un mestiere pop. È difficile: noi pratichiamo una sorta di scienza dell’invisibile. Buona parte del nostro lavoro è studiare il cliente e farlo sentire a proprio agio: come fai a misurare una cosa così? Non è un risultato tangibile. E poi c’è la questione orari. Il Covid-19 è stato una campana d’allarme che ci ha fatto pensare “Ehi, questa è la mia vita. Forse potrei farne altro che lavorare 6 giorni su 7, pranzo e cena!”. Io stesso non faccio più il cameriere. E quindi si scelgono lavori meno stimolanti, ma che ti permettono di avere del tempo libero. Come risolvere il problema? Da una parte l’imprenditore dovrebbe avere meno pressione fiscale; dall’altra potrebbe appaltare in esterna alcuni servizi, tipo le pulizie, per far lavorare il personale meno ore. Infine, penso che manchi la cultura. Fare il cameriere è ancora legato allo spauracchio “se non studi finisci così”. Invece bisognerebbe riuscire a raccontare questo mestiere così antico. La società si aggrega intorno al fuoco: l’uomo di cucina ci mette sopra la carne da cucinare, ma chi lo doma, quel fuoco, è un uomo di sala. Forse farci sopra un programma tv, un “Master Maître”, potrebbe aiutare a dare un’allure di contemporaneità alla professione di cameriere».

Maggiori informazioni

Foto di copertina: Carla Scarsella, sommelier di Sintesi ad Ariccia (RM) ph. Andrea Di Lorenzo

Gagini
Via dei Cassari 35, 90133 Palermo
gaginirestaurant.com

Duomo Ristorante
Via Capitano Bocchieri 31, 97100 Ragusa
cicciosultano.it

Trattoria Da Lucio
Viale Amerigo Vespucci 71, 47921 Rimini (RN)
trattoriadalucio.cuoriebbri.com

Condividere
Via Bologna 20, 10152 Torino

Bentoteca
Via S. Calocero 3, 20123 Milano
bentoteca.com

Sintesi Ristorante
Viale dei Castani 17, 00072 Ariccia (RM)
ristorantesintesi.it

Ristorante Cavallino
Via Abetone Inferiore, 1, 41053 Maranello (MO)
ferrari.com

Serendepico
Via della Chiesa di Gragnano 36, 55012 Capannori (LU)
serendepico.com

Al Cajsal
Via Nazionale 30, 30028 San Michele al Tagliamento (VE)
alcjasal.com

Condividi

Facebook
Twitter
LinkedIn
Articoli
correlati