C’è una parola che torna spesso nel racconto della cuoca Vania Ghedini: mescolare. Che si tratti di spezie marocchine, di tecniche italiane o di esperienze di vita, la sua cucina è frutto di un equilibrio costante tra contaminazione e radici, tra memoria e sperimentazione, tra rigore e accoglienza.
Formatasi ad ALMA (dove ha anche insegnato a distanza di anni), con esperienze in alcune delle cucine più influenti d’Italia – da Marchesi ad Alajmo – oggi guida la proposta gastronomica di Oro Restaurant, una stella Michelin all’interno dell’iconico Cipriani, A Belmond Hotel, sull’isola veneziana della Giudecca. Un luogo simbolo dell’hôtellerie italiana, in cui ogni gesto deve confrontarsi con una storia imponente, dove innovare richiede misura e la tradizione resta quasi intoccabile.
Lo dimostra anche il Bellini, nato proprio qui e ancora oggi preparato secondo la ricetta originale, con pesche fresche di stagione: un esempio emblematico di come anche un semplice cocktail possa diventare patrimonio e rituale. Per oltre quarant’anni a miscelarlo è stato Walter Bolzanella, storico bar manager ora in pensione.

Alta cucina tra identità personale e rispetto della tradizione
«Questo è il tempio del carpaccio. È un piatto che non si tocca. Quello che posso fare io è offrire la mia versione, che gli dia valore, ma senza metterlo in discussione», commenta Ghedini. Così nasce uno dei suoi piatti simbolo ispirato a un’opera di Carpaccio, che omaggia sia il pittore veneziano sia la ricetta. Il taglio non cambia, ma si gioca sulla composizione estetica: maionese alle foglie di fico, fondo di carne, un velo decorato come fosse tela che riproduce il ritratto dell’artista quattrocentesco. «Ho lavorato sul pensiero, non solo sul prodotto», racconta. La sua è quindi una cucina visiva, che parla di cultura e identità, prima ancora che di tecnica.
Una visione che ha preso forma anche durante la cena a quattro mani con Antonio Guida, chef di Seta al Mandarin Oriental a Milano, ospitata lo scorso 24 luglio al ristorante Oro, in collaborazione con Bellavista. Una serata costruita come un dialogo tra due cucine apparentemente distanti, che ha permesso a Ghedini di approfondire il suo linguaggio attraverso l’incontro, senza mai perdere di vista l’equilibrio tra rigore e intuizione. «Non si è trattato solo di mettere insieme dei piatti, ma di trovare un ritmo comune, una narrazione condivisa», racconta.
Questa attenzione alla narrazione e all’etica è qualcosa che Bottura le ha trasmesso con energia: «Mi ha detto: racconta te stessa, il tuo Marocco, la tua storia. Portala qui». E lei lo fa, ogni giorno, attraverso una cucina libera ma precisa, che non cerca mai la sorpresa fine a se stessa. Le spezie sono la sua grammatica personale: curry – che ritorna anche al mattino, tra le proposte di uova à la carte – cumino, zafferano, acqua di fiori d’arancio. L’esempio perfetto è una spalla d’agnello ispirata al forno sotterraneo marocchino: cottura lenta, crosta croccante, aromi intensi. Il risultato è una proposta intensa, generosa, contemporanea.

Persino uno dei dolci di Oro, nato per caso, racconta questo approccio. «Dovevo fare un tiramisù, ma il ristorante era ancora chiuso e mi sono appoggiata alla cucina del Cip’s (il club con una classica proposta della Laguna, ndr) mancavano alcune attrezzature. Ho dovuto inventare un’alternativa. Ed è venuto meglio di quello che avevo in mente» Ne è nata una versione croccante, destrutturata, fatta di contrasti e nuove consistenze.
Dal Delta del Po al carcere di Venezia: un racconto di sostenibilità reale
Il rispetto per la materia prima è un’altra costante, ereditata da Massimiliano Alajmo. «Lui mi ha insegnato a lavorare la materia, ad ascoltarla. Ha una creatività sconfinata e una filosofia profonda. Ti trasmette emozione anche solo con la sua presenza». In questo mosaico di ingredienti e storie, trova spazio anche l’ostrica del Delta del Po – un prodotto che Ghedini ama utilizzare per la sua espressività e coerenza territoriale. «È un’ostrica elegante, rosa, dolce e carnosa, che racconta la nostra acqua dolce e salmastra. Viene servita fritta con una salsa di uova, il guanciale, il pepe e una salsa al nero». La sua presenza in carta è essenziale, quasi rituale, e sottolinea quanto la sostenibilità passi anche dalla valorizzazione di prodotti locali.
Ma sostenibilità e ricerca non restano solo in cucina: prendono corpo anche in un progetto sociale concreto. Grazie a una collaborazione con la Casa Reclusione Femminile Venezia “Giudecca”, la brigata riceve verdure da un orto coltivato da donne detenute. «Non è solo un orto. È un progetto che restituisce dignità. Le ragazze coltivano, raccolgono, rivendono. Hanno un obiettivo comune, un contatto con il mondo esterno. E noi beneficiamo di un prodotto fresco e significativo».
A tutto questo si aggiunge una visione chiara sul ruolo delle donne nella ristorazione: «La cucina italiana è fatta da donne, da madri. Oggi finalmente ci stiamo ritagliando il nostro spazio anche nei ristoranti. La parola “cheffe” (usata anche nella comunicazione dei menu, ndr) deve essere anche un sostegno, un’apertura verso una nuova generazione femminile». Con intelligenza, misura e profonda consapevolezza del proprio percorso, Ghedini ha costruito una cucina che accoglie, avvolge e racconta. Senza mai dimenticare le proprie origini: un paesino in provincia di Ferrara, dove il nonno gestiva una panetteria che lei frequentava sin da bambina, mettendo le mani in pasta dopo una tappa alla vicina edicola, da cui usciva con nuove riviste di cucina da studiare e collezionare.