Azotea

Bar e cucina pairing d’autore

Da Torino alla provincia di Salerno, i migliori locali che miscelano cibo e cocktail, tra nuove aperture e format consolidati.

Facile dirlo adesso, ma chi l’avrebbe mai anche solo immaginato negli anni Ottanta? Sicuramente Dale DeGroff. Il famoso bartender e autore americano, ribattezzato non a caso “The King Cocktail”, sosteneva infatti che l’evoluzione della mixology si sarebbe sviluppata proprio nella direzione della cucina, attraversandola, in parte trasformandola e diventando alla fine un tutt’uno con essa. Che eresia, all’epoca.

A posteriori, è andata esattamente così, visto che il ruolo del cocktail bar è progressivamente cambiato in modo radicale. È mutato, in primis, il peso del bere miscelato nella nostra quotidianità: quel momento a tratti effimero che prima veniva relegato all’aperitivo o al dopocena come rito sociale, o peggio allo sballo in discoteca, oggi è parte integrante della nostra vita. Detto altrimenti: oggi si va a bere sia accompagnando con del cibo sia senza, e a qualsiasi ora. E questa evoluzione si riflette non solo nell’offerta spesso più elaborata e creativa di bar e ristoranti, ma anche nel modo in cui il drink stesso viene spesso presentato in versione “piatto liquido”: così, mentre i fornelli prestano tecniche, formule e ingredienti al bancone, quest’ultimo ringrazia e ricambia a modo suo con una bella ventata di apertura mentale. Il risultato è che, dal fine dining fino ai tanto attuali tapas bar – prima negli Stati Uniti e a Londra, poi pure in Italia –, si registra un boom di nuove aperture in cui il cocktail bar è divenuto l’estensione più naturale del ristorante.

Altro che funzione accessoria: se il consumatore ora è più curioso, più audace e meno tradizionalista, il merito è in parte del “metaverso” di opportunità offerto dal bar. Quanto – ma anche come, e perché – può essere virtuosa questa contaminazione?

L’apertura sulla bocca di tutti

Un progetto di riqualificazione urbana in un luogo multifunzionale a pochi passi da Porta Romana, Fondazione Prada e Fondazione ICA a Milano: questo e molto altro è Lubna, accompagnato dallo spazio eventi Magma e dalla galleria d’arte Scaramouche. Se l’apertura sulla bocca di tutti in Italia è il nuovo progetto dell’imprenditore Lorenzo Querci con i tre soci Alberto Querci, Francesco Sicilia e Natascia Mila significa che la nostra tesi ha certamente delle basi solide. Come nel caso di Moebius (altro locale milanese della stessa proprietà, entrato al 38° posto della lista The World’s 50 Best Bars nel 2024), la forza di Lubna sta infatti proprio nella fusione tra gastronomia e miscelazione di alta qualità: la proposta firmata dallo chef Enrico Croatti e dal bar manager Giovanni Allario affonda le sue radici nella cucina italiana e tutte le elaborazioni sono realizzate attraverso le fiamme, il fumo, la brace e la cenere.

Enrico Croatti, chef di Lubna e Moebius a Milano, e Giovanni Allario, bar manager di entrambi i locali (ph. Julie Couder)

«Il menu dei drink ruota intorno alla rappresentazione del concept del locale, con le categorie Highball e Twist on classic, ma è interessante la sezione dedicata al fuoco, in cui ogni cocktail si sviluppa a partire da un prodotto fresco in relazione alla griglia», spiega Allario. Si comincia dal dolce Peanut and Rosemary, a base di vodka, arachidi, lemongrass e rosmarino bruciati, o dall’avvolgente Roasted Pumpkin con gin, genziana, bergamotto, Champagne e zucca arrosto. Si prosegue con il complesso Yogurt Toreador, preparato con tequila, acquavite di albicocca, triple sec, lime, yogurt, olio e carbone. E si chiude in bellezza con il Banana Punch: bourbon, sherry Amontillado, grano saraceno, banana tostata e latte chiarificato, i suoi ingredienti.

Gli stessi principi guidano inevitabilmente anche la parte “Brace” del menu food: dai Passatelli in brodo grigliato e porcini essiccati ai Maltagliati grigliati ai fagioli di Lamon, passando per la Barbabietola sottoterra al taleggio e nocciole, fino alla classica Grigliata mista di maiale, agnello e bovino. A miscelare gli spazi ci ha pensato invece lo studio fiorentino Q-BIC dei fratelli Luca (architetto) e Marco Baldini (designer). «La miscelazione tra cocktail bar e ristorante, da intendersi come luoghi, è qualcosa di piuttosto recente, che però si è rivelato fin da subito un connubio felice e fortunato», chiariscono.

«Nei ristoranti non si era mai dato spazio al bere dal punto di vista degli allestimenti. La crescita del cocktail come prodotto ha fatto sì, però, che questo sia divenuto un elemento centrale. Pensate a Moebius, dove proprio il banco rappresenta il primo punto di scambio e accoglienza con gli ospiti. Da Lubna abbiamo optato per un bancone molto più lungo con due zone diverse: un primo spazio riservato alla consumazione dei cocktail e poi un altro per il cibo. Questa vicinanza fisica porta una contaminazione intrinseca tra cocktail e preparazioni di cucina, dato che gli uni assorbono senza sosta profumi, note, sapori e ingredienti delle altre».

Il bancone di Lubna a Milano, progettato dallo studio q-bic (ph. Julie Couder)

Il food&cocktail pairing in Italia

Ma facciamo un passo indietro. Come e quando è partita questa contaminazione virtuosa nel nostro Paese? Il bar è diventato più elaborato, partiamo da qui. L’arte del bartending negli ultimi anni ha cominciato infatti a essere esplorata e riconosciuta come una disciplina a se stante, e pionieri del settore hanno importato dall’estero il concetto di food & cocktail pairing, ovvero l’arte di combinare drink e piatti con la stessa cura e attenzione riservata al consueto abbinamento vino-cibo. Tra coloro che più hanno contribuito a dimostrare che la comfort zone a tavola è molte volte una questione di mero tabù mentale c’è l’imprenditore lucano Domenico “Dom” Carella.

«L’apertura di Carico a Milano, ormai cinque anni fa, nasce dall’esigenza di voler diversificare una tipologia di servizio, portando il concetto di abbinamento ben oltre i limiti del vino. Non si parla solo di qualcosa che sta bene con qualcos’altro, come la classica ostrica col Martini Cocktail, ma di un lavoro che unisce dei gusti, dei profumi, delle consistenze diverse per esaltare il drink e il piatto, insieme», racconta Carella, consulente f&b di Arkana Consulting.

«Carico è stato il primo cocktail bistrò del suo genere, il primo a disegnare un’esperienza basata interamente sul pairing, con un menu degustazione sia per la cucina sia per la miscelazione, oltre a una speciale Negroni Room che prevede una simbiosi tra piatti rimodellati sui drink e twist sul Negroni ricalibrati proprio sul piatto».

Un twist sull’Americano di Carico a Milano

Da Milano alla provincia di Salerno, il trend è lo stesso

Cibo e cocktail oggi possono viaggiare sullo stesso binario davvero in ogni angolo del nostro Paese. La capillarità di questo nuova tendenza si spiega bene con il concept di Cinquanta – Spirito Italiano (Emanuele Primavera è stato eletto Best Bartender Under 35 ai Food&Wine Italia Awards 2023), cocktail bar e ristorante in stile anni Cinquanta che nel 2020 ha portato una ventata di aria fresca nella provincia di Salerno, a Pagani, e di conseguenza su tutto il palcoscenico nazionale.

«Volevamo fortemente che l’offerta gastronomica del nostro locale fosse di servizio alla bevuta, in linea con i trend dei bar snack europei. Siamo infatti convinti che il pairing tra cibo e cocktail sia molto più completo e merceologicamente performante rispetto a quello col vino», afferma il co-proprietario Alfonso Califano.

«Anche il più allenato tra i palati può riconoscere soltanto poche sfumature della palette gustativa di un vino. Al contrario, i piatti della cucina possono essere integrati con le note più ampie di cocktail sapidi, amari, acidi, erbacei o dolci», prosegue. E cita a titolo di esempio uno dei più apprezzati abbinamenti di Cinquanta, il signature drink Agave e Primizie – un twist sul Gimlet con misticanza e piselli – con l’ostrica in tempura.

Ma il pubblico di periferia vuole davvero pasteggiare a cocktail? Risponde il socio Natale Palmieri: «Fin dall’apertura il nostro team di sala è stato spinto a consigliare abbinamenti per abituare i nostri ospiti a questo modo di pasteggiare». Insomma, anche lo storytelling fa la sua parte.

il team di Cinquanta – Spirito Italiano a Pagani (SA) (ph. Serena Pepe)

Il bar… Prestato alla cucina

Cosa succede quando il bar viene prestato alla cucina? L’esempio migliore in questo caso arriva da Firenze, e più precisamente dal Locale per eccellenza del capoluogo toscano. Qui le ricette rock ’n’ roll dello chef Simone Caponnetto  trovano infatti nella miscelazione del bar manager Fabio Fanni e dell’head bartender Alessandro Mengoni la loro anima gemella, ma anche una continua fonte di ispirazione.

«Negli ultimi anni ci siamo appassionati alla profondità di gusto che ingredienti come il koji, l’amazake, il miso di ceci toscani e diversi tipi di kombucha possono offrire, soprattutto se accostati a sapori più tradizionali. Un esempio è stata la nostra reinterpretazione della Piña Colada, a base di melone fresco, foglie di fico, grappa e Franciacorta, con una spolverata di kimchi di cavolo nero per bilanciare la dolcezza del frutto. Un altro accostamento riuscito è stato poi un analcolico con miso di ceci, caffè e acqua tonica, perfetto in abbinamento al piatto a base di cervo del nostro menu degustazione», dichiara Fabio Fanni.

«Nei nostri drink utilizziamo un’ampia gamma di tecniche, dalle più complesse fermentazioni all’estrazione fresca e non denaturalizzata di frutta e verdura di stagione, che considero uno dei modi più futuristici per valorizzare il prodotto naturale. Parallelamente, esploriamo metodi più elaborati per creare sapori inaspettati, lontani dal repertorio comune in Italia».

Coffee & Miso, uno dei drink realizzati da Fabio Fanni, bar manager di Locale a Firenze (ph. Lorenzo Dei)

La cucina… Prestata al bar

E se la cucina entra dentro il bar? Rieccoci a Milano, dove lo speakeasy con più hype d’Italia – il 1930 – insieme al cambio di location, nello spazio sotterraneo di Mag La Pusterla (altra insegna del Farmily Group), ha recentemente rivoluzionato anche la sua proposta drink. La principale novità sta nel “1930 À la carte”, un cocktail menu interamente ispirato alla cultura gastronomica, diviso in cinque categorie. Le prime quattro riprendono fedelmente la suddivisione di un tipico menu da ristorante: Antipasti, Primi, Secondi e Dessert. Tra gli antipasti troviamo Hummus, con distillato di paprika affumicata, orzata di ceci e sesamo tostato e Irish whiskey, mentre tra i primi è impossibile non citare i Tortellini in Brodo, dei veri e propri tortellini serviti in brodo di gallina caldo con bourbon whisky alla noce moscata. La pasta è precedentemente cotta in un cocktail Milano-Torino (bitter Fusetti e vermouth), così da assorbire gli aromi di erbe, le spezie e le note amare di vermouth e bitter. Un brodo leggero fornisce poi il giusto livello di sapidità e, appena prima di servirlo, il cocktail viene scaldato e finito con whisky infuso alla noce moscata. La quinta e ultima sezione del menu, invece, è dedicata a una selezione di classici definiti “Unforgettables from the kitchen”, ovvero varianti di drink di facile lettura con l’aggiunta di un tocco gastronomico.

Tortellini in brodo, cocktail di 1930 a Milano, servito in una mini zuppiera con cucchiaio (ph BBQ Creative Agency)

«L’idea di “À la carte” nasce proprio dalla volontà di oltrepassare quella barriera che ha sempre diviso la cucina dal bar, con il desiderio di far vivere agli ospiti del 1930 un momento di pura convivialità, attraverso la sperimentazione di nuove consistenze e il ricordo di sapori legati a momenti familiari, a viaggi esotici ed esperienze culinarie memorabili»: parola del bar manager Benjamin Cavagna.

Qualcosa di simile lo abbiamo già visto al Depero, il cocktail bar di Rieti dove lavora il talentuoso Luca Bruni, premiato come miglior giovane bartender ai Food&Wine Italia Awards 2024. Fin dai suoi esordi, l’insegna di Antonio Tittoni ha intrinsecamente legato il suo “menu liquido” al cibo: si è parlato a lungo, non a caso, della sua Sicilian Salad, reinterpretazione del Gimlet in chiave low-ABV condita come la più classica delle insalate siciliane. Un’idea di bevuta “salutare” diversa dal solito, che ha come protagonista Vulcanica Vodka, distillata da grani antichi alle pendici dell’Etna, oltre a cordiale di finocchio e arancia, salamoia di olive, clorofilla e aceto di sidro di mele Aroma. Alla parte solida, in questo caso, ci pensa Chiara D’Orazio tra panini di carattere, crostoni appetitosi e un focus particolare sulle pizze.

il Pornstar Negroni di Depero a Rieti (ph. Jean-Philippe Vaquier)

E la pizza? Anche il più amato comfort food italiano ha trovato nei cocktail un nuovo partner. Dry Milano, in tal senso, è stato il primo locale a portare sulla scena gastronomica italiana una combinazione fino ad allora impensabile: pizza e cocktail, un connubio che abbina la tradizione nostrana a una proposta beverage a quel tempo (era il lontano 2013) prettamente internazionale.

«Dry Milano è partito dalla volontà di elaborare un’offerta gastronomica che risultasse conviviale, divertente e poco formale. Ed ecco che proprio la pizza ha trovato il giusto complemento nel cocktail, agevolando un tipo di esperienza adatta alla condivisione al bancone», racconta il managing director e pizza chef Lorenzo Sirabella.

Ma quanto può durare il trend “impasti e spirits” e, più in generale, l’abbinamento dei drink ai cibi? «Essere ancora qui dopo 12 anni è la conferma che quella tra pizza e cocktail fosse una combinazione necessaria con un pubblico costante, ma anche con molti stranieri che qui respirano un’atmosfera cosmopolita e accogliente, all’insegna dello stare insieme». Qualche esempio di abbinamento: la focaccia con vitello tonnato abbinata al French 75, oppure la pizza Margherita Provola e Pepe, una variazione della semplice Margherita con provola di bufala affumicata e pepe nero di Sarawak, da gustarsi sorseggiando l’Hibiscus Margarita del bar manager Edris Al Malat.

Puglia on the road, pizza di Lorenzo Sirabella in carta da Dry a Milano, abbinata a Star Light, drink realizzato da Edris Al Malat

Il primo, ma non l’unico

Dry Milano è stato il primo, ma non certo l’unico a puntare sulla combo tonda-tumbler in Italia. Se andiamo a Roma, troviamo infatti il pizza cocktail club SLAP: uno “schiaffo in faccia” – letteralmente – al concetto di pizza, di drink e di club, nato da un’idea dell’insegna già affermata Freni e Frizioni, che spazia tra il menu tipico di una pizzeria romana, qualche twist moderno e una lista di cocktail classici alla spina. Se invece guardiamo verso la Toscana, prima a Barberino del Mugello e in seguito anche a Prato, troviamo un case study altrettanto interessante.

È qui, a non troppa distanza dal circuito della MotoGP, che nel 2019 un gruppo di giovani imprenditori ha dato vita a Elementi Cocktail & Pizza. Sin dall’inizio la visione dei sei soci Tommaso Sarti, Domenico Varone, Lorenzo Gironi, Benedetta Berti, Fabio Buccino e Francesco Giuntini non è stata quella di una pizzeria standard, bensì un laboratorio di sapori dove ogni piatto raccontasse una storia e ogni cocktail in abbinamento ne amplificasse le emozioni. La semplicità della Margherita viene così cullata da un fresco Vodka Sour, mentre la sapidità della Napoli con alici di Cetara si esalta con il Desnudo, signature cocktail a base di tequila, mezcal, liquore alla castagna e kombucha alla barbabietola. L’assist, in ogni caso, arriva già dal menu, visto che i drink consigliati sono elencati direttamente sotto gli ingredienti delle pizze, e per ogni proposta alcolica esiste una controparte analcolica altrettanto valida.

Blood sauce, uno dei cocktail di Elementi a Prato (ph. Marco Cellai)

Nuovi orizzonti anche per le altre cucine del mondo

Il movimento che unisce la cucina al bar riguarda ovviamente anche i ristoranti con proposte legate ad altre culture gastronomiche. «Era il 2017 quando abbiamo iniziato a proporre il cocktail pairing», esordisce Matteo Fornaro, co-proprietario e bar manager del cocktail-restaurant nikkei Azotea a Torino. «È stato un lungo percorso per noi, così come per i clienti. Ora il pubblico trova interessante l’abbinamento e, spesso, lo ritiene parte integrante dell’esperienza, al pari della cucina. Facciamo un grande lavoro sulla materia prima, puntando al contempo sulla bassa alcolicità: abbiamo ridotto la gradazione della bevuta, per consentire alle persone di non arrivare appesantite al termine della cena».

Da Azotea la vendita di vino è arrivata al 6-7% sul totale e ci sono stati dei sabati sera in cui non è stata ordinata neanche una bottiglia, nonostante la radicata cultura vinicola del Piemonte. E a chi ancora non fosse convinto, Fornaro risponde così: «Credo che questa strada darà sempre più soddisfazioni a noi bartender. Questo perché ci inseriamo in un filone che ha già riscosso interesse, come l’alta cucina, e intercettiamo un pubblico gourmand, interessato alla cultura che c’è dietro al cibo e, in un cocktail-restaurant come Azotea, anche al miscelato. A differenza del vino, il drink è una tela bianca, che si può colorare e modellare a nostro piacimento».

Matteo Fornaro, bar manager e co-owner di Azotea a Torino (ph. Chiara Schiaratura)

Lo sanno bene anche a La Punta Expendio de Agave, il locale di Roberto Artusio e Cristian Bugiada che a Roma ha tracciato ormai da anni un viaggio gastronomico in Messico, dove i sapori pungenti dei distillati d’agave si sposano con le spezie della cucina. Mentre a Milano l’instagrammatissimo Iter di Flavio Angiolillo cambia periodicamente il menu ispirandosi a un Paese del mondo che lo staff ha appena visitato di persona. Perché alla fine il cocktail stesso non è solo una bevanda, ma un viaggio che arricchisce ogni piatto, coinvolgendo tutti i sensi in maniera nuova, più completa. Un’esperienza che divide e dividerà sempre, ed è forse proprio questo il principale segreto del suo successo.

Maggiori informazioni

In apertura: cocktail pairing di Azotea a Torino con Mama Cocha, piatto ispirato alla ciambella con miele alle foglie di fico della costa peruviana (ph. Chiara Schiaratura)

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