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La nuova sala: meno formalità, più relazioni

Al BOB Fest 2025 in Calabria, quattro professionisti dell'accoglienza raccontano come sta cambiando il lavoro. E perché oggi l’accoglienza è il vero cuore dell’esperienza gastronomica.

C’era un tempo in cui fare sala significava accogliere l’ospite con un sorriso, un tovagliolo piegato perfettamente, una bottiglia stappata con grazia. Bastava che i piatti arrivassero caldi, i bicchieri fossero pieni, il servizio preciso. Poi, come spesso accade, le definizioni hanno iniziato a stare strette. Non è più solo una questione di competenza tecnica, di etichette (maître, sommelier, cameriere). Fare sala oggi è un lavoro di relazione. È teatro, presenza, ascolto. È empatia.

Al BOB Fest 2025, uno dei più grandi appuntamenti di settore dedicato alla ristorazione organizzato in Calabria (qui l’intervista a Roberto Davanzo uno dei Band of Brothers), ne abbiamo parlato con chi la sala la vive ogni giorno. Noi di Food&Wine Italia, media partner dell’evento (e che al tema dedichiamo un premio con Best Maître & Sommelier Under 35), abbiamo avuto l’occasione di portare sul palco quattro voci autorevoli e diverse tra loro che raccontano un’idea di accoglienza ibrida e profondamente personale.

Le definizioni stanno strette

L’idea è nata mentre ci interrogavamo su che cosa significhi davvero “fare sala” nel 2025. Il punto di partenza era semplice: oggi l’ospite chiede qualcosa di più. Vuole essere accolto, sì, ma anche ascoltato. Vuole riconoscersi ed essere sorpreso.

Al BOB Fest 2025, il confronto è stato aperto da Anna Rotella, direttrice di sala e anima di Bob Alchimia a Spicchi a Montepaone, quarta miglior pizzeria al mondo nella classifica 2025 dei The Best Pizza Awards. «Siamo partiti nel 2016 da una pizzeria d’asporto, con i tavolini costruiti da mio padre. Oggi serviamo pizze che raccontano la Calabria e invitiamo gli ospiti a mangiarle con le mani. È parte della nostra identità», ha raccontato dal palco. «L’accoglienza parte da lì: da come ti senti quando entri in un posto. E da chi ci lavora. Alcuni dei nostri ragazzi sono con noi dal primo giorno. E i clienti tornano anche per loro».

Un sommelier, un narratore

Alla stessa idea di accoglienza sartoriale lavora anche Andrea Gionchetti, sommelier del ristorante Qafiz dello chef Nino Rossi a Santa Cristina d’Aspromonte. In un contesto ispirato all’omakase giapponese, dove la cena è un viaggio a tempo senza menu, il suo lavoro è più simile a quello di un regista di scena che a un classico sommelier. «Non ho una ricetta per il servizio perfetto. Ma so che l’ingrediente fondamentale è uno solo: l’empatia. Lavoriamo con le persone, non con bicchieri e bottiglie». ha detto. E ha ricordato un principio fondamentale: «La perfezione tecnica non basta. Ho visto cene perfette da manuale, ma fredde. E altre piene di intoppi, ma chiuse con un sorriso e una stretta di mano, perché c’era calore, c’era dialogo».

Non tutti cercano “casa”

Lo stesso tema – la centralità della relazione – è emerso con forza nel racconto di Aya Yamamoto, che con la madre guida Gastronomia Yamamoto, ristorante casalingo giapponese a Milano. «Molti dicono che da noi si sentono a casa. Ma non per tutti “casa” è sinonimo di benessere. Alcuni vogliono scappare dalla propria giornata. Altri vorrebbero scappare a casa. E noi li accogliamo entrambi», ha spiegato Aya. «Una sera è arrivato un cliente trafelato, tutto sudato. Non aveva prenotato. Gli abbiamo dato un libro di ricette della nonna e lo abbiamo lasciato lì, in pace. Quello era il suo bisogno in quel momento».

Questo approccio ha un nome nella cultura giapponese: omotenashi. Significa accogliere in modo sincero, disinteressato, intuendo i desideri dell’altro senza invadere. Un’accoglienza che parte dal silenzio, dalla discrezione e dall’ascolto.

Fare cocktail è (anche) fare compagnia

Ultima, ma solo per ordine di scaletta, Giuliana Giancano ha raccontato la sua visione dalla sala del Pout Pourri di Torino, locale fondato con la sorella Giorgia circa 16 anni fa. Giuliana è bartender, sì – ma anche cuoca, padrona di casa, cameriera, idraulica all’occorrenza. «Stare in sala significa osservare. Capire chi hai davanti, se ha bisogno di parlare o di silenzio. I clienti mi ispirano sempre. È da loro che nascono i miei cocktail. E anche quando stanno zitti, ti stanno raccontando qualcosa».

Nel suo locale, il tè si affianca al miscelato, il giardino estivo convive con l’intimità invernale, e la parola “accoglienza” prende mille forme diverse. «Il nostro lavoro è far schiacciare il tasto off alle persone. Regalare un momento di stacco. Anche questo è cura».

Il centro: la relazione

Quello che ci hanno restituito queste voci è un messaggio preciso: oggi la sala è il luogo dove si gioca la credibilità di un locale. Non basta che un piatto sia buono o un vino interessante, se chi lo serve non è capace di leggere il contesto, il momento, la persona. Accogliere non è un gesto generico, ma un’azione mirata, che cambia a seconda di chi hai davanti. È intuire se un cliente vuole parlare o restare in silenzio, se ha bisogno di sentirsi a casa o di dimenticarsi di casa.

In questo senso, “fare sala” non è più solo un mestiere tecnico. È un lavoro relazionale, culturale, emotivo. E chi lo fa bene, oggi, contribuisce in modo decisivo a costruire l’identità di un ristorante.

Maggiori informazioni

Foto di Lorenzo Smirne

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