Cinghiale e vignarola

La caccia può rappresentare il futuro sostenibile della carne?

Le carni da selvaggina hanno bisogno di una filiera riconosciuta e sostenuta dalle istituzioni. Così la Fondazione UNA accende le luci sull’attività venatoria informata e responsabile.

Negli ultimi decenni, il dibattito sul consumo di carne e sul suo impatto ambientale ha assunto una rilevanza globale. Mentre crescono le preoccupazioni per il cambiamento climatico, la deforestazione, l’uso massiccio di acqua e la perdita di biodiversità, la caccia viene costantemente percepita come una pratica poco etica. Un sistema morale obiettivamente incoerente, se lo si raffronta con l’attività venatoria marina, percepita come molto meno invasiva e “sbagliata” in sé ponendo l’accento sui metodi. C’è allora da porsi più di una domanda su cosa nel tempo ci ha portato a devastare e sconvolgere i fondali e gli ecosistemi marini, mortificando invece il potenziale dei boschi.

Prima di continuare è necessario chiarire un aspetto: in questo articolo non stiamo parlando di un concetto di sostenibilità universale, ma di sostenibilità umana, ossia di un modello che prevede l’essere umano al centro delle sue necessità rispetto all’ambiente. Chiarito questo, va da sé che la caccia debba essere considerata anche come uno strumento fondamentale per la gestione delle popolazioni animali, in spazi controllati dalle comunità, svolgendo quindi un ruolo chiave nel mantenimento dell’equilibrio agro-silvo-pastorale. L’unica ovvia condizione perentoria è che sia praticata secondo il rigido rispetto delle regole e delle leggi alle quali è sottoposta.

Restituire un ruolo al cacciatore, in una filiera istituzionale

Sapete chi sono i “Cacciatori Informati”? Esistono e, anche se non sono legalmente riconosciuti, sono persone eticamente formate e aggiornate che basano la loro attività sul rispetto di un ruolo ben preciso, quello di guardiani di aree naturali da governare. Grazie a loro, la caccia dovrebbe avere il diritto di rappresentare anche un anello importante nella filiera della carne nazionale. Così sostiene la Fondazione UNA (Uomo, Natura, Ambiente), l’organismo più autorevole in Italia quando si parla di carni selvatiche. «Nasciamo nel 2015 per mettere insieme mondi diversi su progetti comuni. Il mondo ambientalista, agricolo e venatorio, e il mondo accademico e della ricerca, si uniscono per la salvaguardia della biodiversità e la gestione condivisa del territorio, con lo scopo di creare una nuova filiera che abbia all’interno anche la caccia come componente attiva e propositiva»: queste le parole di Pietro Pietrafesa, Segretario Generale di Fondazione UNA, incontrato in una tavola rotonda sull’argomento tenutasi a Borgo Santa Cecilia in Umbria.

Secondo Fondazione UNA la natura è un bene da gestire in maniera oculata. Per questo dalla sua nascita a oggi ha lavorato in partnership con le Montagne della FAO, diventando anche membro dell’UCN, ovvero dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, che è l’associazione ambientalista più importante a livello globale. «Nel 2017 abbiamo iniziato a lavorare su un progetto di filiera riconosciuta, tracciata e sostenibile per le carni da selvaggina, nelle valli del bergamasco», continua Pietrafesa. «L’obiettivo era quello di portare economia e lavoro nelle aree rurali, restituendo al cacciatore un ruolo di produttore primario. Ci siamo avvalsi di partner come l’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo, l’Università Statale di Milano e la Società di Medicina Veterinaria Preventiva, per costruire dei percorsi formativi che vanno dall’abbattimento della selvaggina fino al consumo alimentare».

Quello che oggi molto spesso si ignora, essendo ingannati dal luogo comune che vuole la cacciagione un prodotto genuino ma anche “primordiale”, è che l’attività venatoria ha necessità di rispettare un processo di filiera molto rigido che va dall’abbattimento per capi selezionati, fino a una catena del freddo che prevede conservazione, controllo sanitario, macellazione, trasformazione e consumo. Mentre la carne selvatica regalata dall’amico cacciatore che ignora la filiera, oltre che illegale, può essere veramente pericolosa per l’uomo. «Con il supporto proprio di Slow Food e di Pollenzo, a Bergamo abbiamo creato un manifesto che ogni ristoratore doveva rispettare per far arrivare la selvaggina a tavola, ed è stato un successo. Dopo due anni, la Regione Lombardia ci ha chiesto di siglare un protocollo d’intesa che aggiungesse un ulteriore step al progetto, ovvero il coinvolgimento della distribuzione alimentare. Così, nel 2021 abbiamo messo insieme Metro Italia Spa e Coldiretti per far trovare sugli scaffali di Metro in Lombardia carne selvatica controllata. Questo è il sistema che va replicato in altre Regioni». Le parole di Pietrafesa spingono alla necessaria valorizzazione di un settore che non solo può rappresentare una nuova economia di scala, ma che mette in evidenza i benefici che le carni selvatiche apportano in termini di salute e sostenibilità.

Carni selvatiche, l’impatto nella filiera ambientale e alimentare

La carne di selvaggina si distingue nettamente da quella da allevamento industriale per il suo impatto ambientale praticamente nullo. Gli animali selvatici vivono in libertà, si nutrono di ciò che offre la natura e non richiedono interventi umani per la loro crescita. Questo significa che non vengono utilizzati antibiotici, ormoni o altri farmaci, e che non c’è consumo aggiuntivo di terreno o acqua rispetto a ciò che già esiste in natura.

Dal punto di vista nutrizionale, la carne di selvaggina è una delle più salutari disponibili: è povera di calorie e di colesterolo, contiene meno del 3% di grassi e più del 22% di proteine. Non solo, perché la selvaggina è anche ricca di ferro, zinco, vitamina B12, vitamina E, vitamina K e antiossidanti. Gli acidi grassi polinsaturi, tra cui l’acido linoleico coniugato (CLA), sono presenti in quantità elevate grazie all’alimentazione naturale degli animali, che si nutrono di erbe spontanee, ghiande e foraggi verdi. Di tutto questo si parla poco; e una delle cause sulla carente diffusione di notizie sul cibo selvaggio è certamente lo scarso consumo alimentare, derivante sua volta dalla esigua reperibilità.

Borgo Santa Cecilia, un hub di formazione e cultura venatoria

«Dovremmo inquadrare la caccia sostenibile non solo come una questione ambientale o nutrizionale, ma anche come volano economico e sociale per i territori rurali. Progetti come Selvatici e Buoni, promosso da Slow Food, o come Cibo Selvaggio, lanciato dal Caccia Village (la fiera umbra dedicata agli appassionati di caccia, Nda) in collaborazione con università e associazioni, dimostrano che la caccia può essere un modello virtuoso di sviluppo e di cultura».

A chiudere l’incontro le parole di Giuseppe Onorato, proprietario di Borgo Santa Cecilia e cacciatore informato: proprio lui è promotore, insieme allo chef Alessio Pierini, di un nuovo hub di formazione per cuochi e appassionati presso il resort agricolo immerso in una riserva faunistico-venatoria tra i boschi nei dintorni di Gubbio. Qui, si può fruire di un percorso formativo che aiuti nell’identificazione di una buona materia prima, trattata secondo le giuste regole sanitarie e faunistiche, per poi imparare le tecniche di conservazione, di stagionatura e di cottura su diverse tipologie di carne.

«Noi cacciatori siamo i primi a volere regole rigide nel rispetto della natura che abbiamo il compito di preservare, ma abbiamo anche bisogno di sostegno per dare valore al nostro ruolo e alla produzione di carni che hanno un potenziale enorme in un mercato sostenibile». Se Onorato è un esempio umbro di virtuosa volontà nell’educare alla consapevolezza sulle carni selvatiche, Pierini è una delle migliori espressioni di cucina selvaggia e vegetale della regione. Per incentivare un mercato che possa essere competitivo e antagonista tanto alla caccia di frodo che agli allevamenti intensivi, serve più informazione, servono più centri di raccolta e conservazione per i cacciatori e servono più centri di controllo sanitario per sostenere e amplificare una filiera in armonia con la conservazione ambientale.

Maggiori informazioni

Nella foto: Cighiale e vignarola di Alessio Pierini

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