A un anno di distanza, la scommessa è stata vinta. Quello che doveva essere soltanto un pop-up si è trasformato in un piccolo caso di studio regionale: la prova che le masserie, oltre a essere recuperate o restaurate per diventare destinazioni turistiche di prestigio, possono accogliere il seme fertile della gioventù, del coraggio e della visione, trasformandosi in incubatrici di nuove imprese.
Giulio Di Donfrancesco, Esmeralda Prete, Leonardo D’Ingeo e Paolo Scialpi: questi i nomi del manipolo di impavidi che ha creduto da subito nella contaminazione come unica strada possibile per lo svecchiamento del concetto di ospitalità nelle masserie. In contrasto con la struttura possente del suo impianto architettonico, denuncia palese della sua originaria natura difensiva, a Masseria Francescani – questo il nome della struttura sipario del loro progetto – il tema è l’apertura: a nuove idee, formule, pensieri e pratiche.
Le contaminazioni, anima della Masseria Francescani
Giulio Di Donfrancesco, figlio di imprenditori nel mondo della pasticceria e del catering, è il lato razionale del giovane entourage: piedi per terra, visione analitica, occhio attento ai conti e ai ritorni. Di poche ma efficaci parole, ammantate di sorrisi. Esmeralda Prete, creativa pura e prolifica, è colei che dialoga col passato e lo reinventa quotidianamente attraverso il design, la fotografia e la comunicazione.
Leonardo D’Ingeo, lo chef – Leo per tutti –, formazione di rango tra Italia e Francia e un indimenticato passaggio da Carico a Milano alle spalle, ha il non semplice compito di conciliare la contemporaneità della sua cucina con il territorio, la ricerca con le radici, l’impulsività giovanile con la lentezza endemica della sua terra. Paolo Scialpi, infine, esordi a Ostuni e tre anni intensi a Londra, al prestigioso The Connaught, sovrintende con grande professionalità al beverage e alla sala senza colpo ferire, muovendosi leggiadro e sicuro dalla cappella barocca della masseria trasformata in fascinoso cocktail bar alle “chianche” del Floor, come vengono chiamate le antiche stalle trasformate in ristorante.
Tutti pugliesi, tutti solidalmente uniti in un progetto audace e condiviso: gettare le fondamenta per una Puglia nuova, internazionale, disinibita e spregiudicata, la stessa che dà il nome al menù degustazione proposto quest’estate in maniera programmatica e che qui, a Masseria Francescani, trova la sua più completa e concreta espressione.
Tra ospitalità – nove confortevoli camere arredate con gusto e coerenza –, eventi, ristorazione e miscelazione non c’è soluzione di continuità. Come l’acqua che scorre alla maniera dei qanat dei giardini arabi in mezzo alla corte su cui si affaccia la Masseria, piatti, calici, gesti, suoni, sogni e sonni s’intersecano docili senza gerarchie: l’obiettivo è offrire, a chi ne varca la soglia, un’altra Puglia, lontana dal pittoresco, dalla retorica e da quell’esotismo che tanto piace alle cronache estive ma che a fine stagione si dissolve senza lasciare tracce significative sul territorio.
Trait d’union tra le varie anime della Masseria è senza dubbio la cucina del Fràn, quella cucina in cui lo chef Leonardo D’Ingeo sta sperimentando un nuovo linguaggio a partire dal meglio dei prodotti locali, dall’orto contiguo coltivato secondo i dettami del metodo Fukuoka ai frutti del lavoro dei migliori agricoltori, allevatori, pescatori e trasformatori pugliesi, dalla scoperta o riscoperta di frutti e verdure dimenticate alla loro singolare interpretazione.
Cosa si mangia da Fràn
Se lo scorso anno, quello dell’esordio di Masseria Francescani, i piatti di Leonardo D’Ingeo risentivano ancora della “spinta” avanguardista dell’esperienza al Carico di Milano, questa nuova stagione sembra aver portato maturità e consapevolezza nei menù che si stanno avvicendando a cadenza mensile dalla riapertura. È una sorta di manifesto programmatico di una cucina portatrice e promotrice di valori, infatti, il menu degustazione da sette portate intitolato Puglia Nuova, a partire dal benvenuto dedicato all’oliva Cellina, una delle cultivar più emblematiche del Salento, utilizzata da secoli per la preparazione di un pane tipico e ricca di polifenoli. Proposta in un trittico che ne valorizza le parti – foglia, polpa, seme – diventa un invito al viaggio nella cultura locale, accentuato da un shot di Susumaniello rosato in chiusura.
A seguire, la nota chiller del brodo di estratto di finocchio e fiori di carota selvatica che accompagna lo sgombro locale, introduce a timbri più decisi di sapori e consistenze. Quelli, per esempio, dell’insalata di pecora servita su crêpes di mais e accompagnata da cicoria gratinata e skyr. O quella dei bottoni, ombrina, riccio di mare e dashi alle foglie di limone, dove a colpire non è tanto la nota iodata e anche un po’ scontata del riccio quanto l’insolita e piacevole tenacia della pasta ripiena. O, ancora, quelli degli spaghetti Verrigni al ragù freddo di anatra e susine, rifocillante mix di temperature, texture e acidità.
Il transito al dolce è un tandem di secondi mare – terra che più classici non si può, ma che nelle mani e nei pensieri veloci di Leonardo assumono note e consistenze inedite: una corba rossa (di solito un pesce bianco secondo pescato) cotta al forno e accompagnata da una maionese “marittima” e un’insalata stressata (esito di più marinature e fermentazioni) e il piccione – passato in salamoia, frollato e cotto alla brace – servito con una rigenerante zuppa fredda di kale, una brassicacea superfood. Si chiude con l’accattivante semifreddo al pralinato di mandorla, meringa, gel all’Amaro Lucano e polvere di rosmarino, ma la serata continua al cocktail bar nell’atmosfera raccolta, rilassata e senza tempo della corte della Masseria. L’invito migliore a concedersi un Sweet Dreams, uno dei cocktail signature più richiesti. Vodka, Borsci San Marzano – un elisir local fortemente identitario – e Mr. Black Coffee, un liquore a base di caffè cold brew. Altro che il solito espresso.