Gli appassionati di sport lo ricorderanno bene. Nel 2013 Suan Selenati è decollato dal monte Zoncolan in deltaplano per un’impresa senza precedenti: raggiungere il Monte Olimpo in Grecia, attraversando nove Paesi e 1.500 chilometri, affidandosi solo alla forza del vento e alla propria tecnica. Un viaggio leggendario che prendeva il via dalle Alpi Carniche, proprio dal punto dove oggi sorge il Rifugio Tamai, a circa 1.730 metri di altitudine.
Non poteva che partire da questa cima friulana il progetto di vita di Suan e della sua compagna Futura Selenati (da queste parti i cognomi si rincorrono, e anche il mio, Di Lena, appartiene a questa vallata, nda): una baita d’alta quota pensata per raccontare – anche attraverso il cibo – un territorio ancora poco battuto, ma profondamente affascinante.

Al Rifugio Tamai non si serve solo un pasto caldo: ogni piatto è il risultato di un impegno preciso nel valorizzare le materie prime locali, le erbe spontanee, le verdure di stagione coltivate nel rispetto dell’ambiente e le tecniche tradizionali di conservazione. Qui, la cucina è un racconto concreto e sincero, che intreccia la storia agricola della zona con un approccio contemporaneo e consapevole alla gastronomia.
Un rifugio tra le nuvole e le radici
Entrambi cresciuti in famiglie contadine nella Valle del But (una delle otto in Carnia), Suan e Futura hanno scelto di restare e investire in questo luogo, costruito letteralmente con le proprie mani: tronchi abbandonati recuperati per realizzare sedie, tavoli e persino l’altalena gigante dove dondolare con vista sul lembo più settentrionale del Friuli-Venezia Giulia.
In sintonia con la montagna, non solo per la posizione – siamo nel cuore dello Zoncolan, noto d’inverno per lo sci, in primavera per essere tra le tappe più faticose del Giro d’Italia e d’estate per i suoi pascoli – ma anche per l’impostazione stessa del progetto.

Nel tempo, il rifugio si è dotato di un piccolo laboratorio di trasformazione agricola: dalle verdure coltivate in loco alle erbe spontanee raccolte e mappate con l’aiuto di un agronomo, fino ai fermentati, alle conserve, e persino a una piccola linea di prodotti con etichettatura narrativa. Si tratta di Incólti, il progetto dedicato al foraging montano promosso dalla stessa giovane coppia di imprenditori. Ogni settimana, il team condivide una ricetta attraverso la newsletter, nata dalle passeggiate tra boschi e pascoli alla scoperta di ingredienti spontanei locali. Ogni vasetto racconta non solo cosa contiene, ma anche perché quell’ingrediente è stato scelto, con grande attenzione alle varietà autoctone e al loro valore culturale.
La cucina non è pensata per l’alta ristorazione, né per il turismo mordi e fuggi. Qui non si pranza su prenotazione, e l’idea stessa del rifugio è quella di accogliere chi arriva salutando con un caloroso mandi, il “ciao” friulano. Lasciando la macchina nell’area parcheggio più vicina, basta percorrere circa 400 metri per arrivare al Tamai: lungo il cammino ci si accorge di piccole casette in legno con tetti appuntiti che ospitano gli alpaca quando non scorrazzano liberi nei dintorni.

Il primo bivio è tra il chiosco e il ristorante. Il primo propone una formula più snella, basata su ingredienti provenienti entro 10 chilometri: piatti identitari e coerenti con il manifesto del rifugio. Qualche esempio? La poke montana con grano saraceno, trota affumicata, cipolle rosse, sottaceti, erbe aromatiche, oppure il panino con la salsiccia, formaggio e cipolle rosse agrodolci autoprodotte.
Il ristorante, invece, ha una proposta più articolata. L’inizio consigliato è con burro montato della malga Meleit (raggiungibile in circa 4 chilometri a piedi) arricchito con gemme di abete, accompagnato da grissini alla canapa e kale fermentato, un superfood simile per sapore al cavolo nero e presente tra le referenze di Incòlti.
L’aperitivo si completa con un tagliere (generoso e dalla misura standard) di affettati e formaggi: prosciutto cotto e affumicato di Sauris, salame e crudo di Matteo Nodale, giovane macellaio di Sutrio (La Vecje Becjarie), e tre formaggi: due stagionature (2 e 18 mesi) del Caseificio Sociale Alto But e una ricotta affumicata, anch’essa proveniente da malga Meleit. Cosa bere? Una IPA del birrificio locale Bondai, uno dei drink in carta (come lo Spritz Futura, a base di lamponi locali) o una delle etichette di vino regionale che spaziano dal Collio al Carso.

Tra le portate principali, per sentirsi veri local, si possono scegliere i cjarsons: ravioli della tradizione carnica con ripieno di erbe spontanee, aromi e note dolci, serviti con burro nocciola e ricotta affumicata. Immancabile anche l’accoppiata frico e polenta, classico senza tempo quando si viene da queste parti.
Ogni anno il team si aggiorna con consulenze esterne, soprattutto su cucina e miscelazione, anche se la cuoca e insegnante di cucina Alessia Beltrame resta un punto di riferimento in ogni cambio menu, in cui si presta attenzione alle esigenze moderne (vegani, intolleranze, allergeni), senza mai sacrificare l’identità del luogo. Anche qui l’approccio è artigianale: volume sì, ma senza compromessi sulla qualità.
Il rifugio è aperto anche alle famiglie, con proposte dedicate ai bambini: laboratori educativi e giochi all’aria aperta, per imparare a osservare, prima ancora che a consumare, e “Passeggiate facili in montagna”, ovvero itinerari pensati e testati direttamente da Suan e Futura – anche nella segnaletica – per essere davvero accessibili a tutti.

Una Carnia che non urla, ma resiste
Nel loro racconto non c’è retorica né autocelebrazione. Solo la consapevolezza che vivere e lavorare qui è, semplicemente, sfidante. «In Carnia spesso si pensa che per fare impresa servano grandi opere. Noi crediamo che si possa fare molto con poco, se si è radicati e contemporanei allo stesso tempo», dicono i due imprenditori quarantenni.
Non c’è nostalgia nel loro rifugio. C’è resilienza. E un’idea forte a guidarla: non trasformare la montagna in qualcosa che non è, ma renderla leggibile a chi vuole davvero capirla. Forse è proprio questa la vera impresa. Più audace ancora di un volo fino all’Olimpo.