Il kebab, a lungo considerato in Italia un pasto veloce e a basso costo, soprattutto nelle ore notturne, sta vivendo oggi una nuova stagione di popolarità. A trainare questo cambiamento contribuiscono da un lato i contenuti virali che ne raccontano le infinite varianti, dall’altro l’impegno di imprenditori che ne stanno ridefinendo l’immagine e le modalità di consumo.
I video che hanno ridefinito la percezione del kebab
Questa è stata la stagione di un kebabbaro di San Donato Milanese, un comune dell’hinterland del capoluogo lombardo, diventato famosissimo: Habibi. Non solo serve una versione particolarmente studiata, preparata con cura e con ingredienti pregiati ma il suo titolare, il libanese Abbas Ahmad, ha creato un vero e proprio format sul suo profilo TikTok e Instagram: «Habibi, yalla», ovvero Amore, andiamo, in cui recensisce gli altri colleghi che fanno questo prodotto. Diventato famoso grazie a una puntata di Foodish, il programma televisivo di Sky condotto da Joe Bastianich, ha usato la spinta della trasmissione per aumentare a dismisura la sua esposizione sui social così da nobilitare la cucina del Medio Oriente e cambiare il modo in cui il kebab viene percepito in Italia.
Ahmad sta girando tutte le più grandi città per vedere come il kebab viene interpretato nel Bel Paese e lo fa con un atteggiamento molto duro e giudicante. È perentorio nei giudizi e questo funziona nei suoi video. Le clip hanno accumulato milioni di visualizzazioni, creando un seguito che va oltre la clientela tradizionale e contribuendo a spostare l’immaginario del kebab da cibo di strada a prodotto raccontabile e condivisibile. Nei suoi contenuti Ahmad alterna recensioni dirette a spiegazioni sulle differenze tra shawarma, döner e kebab, valorizzando origini e tradizioni diverse.
Questo uso dei social s’inserisce in un fenomeno più ampio: la ristorazione sempre più spesso si affida a narrazioni visive e dirette per costruire autorevolezza e attrattiva, con un impatto misurabile non solo in termini di engagement ma anche di frequentazione dei locali. Questo è il nocciolo della comunicazione gastronomica in fin dei conti: le pagine non devono essere belle, per essere belle; devono essere ben fatte per portare gente al ristorante e aumentare il fatturato dell’azienda.
La risposta dei consumatori
Il pubblico italiano ha dimostrato di accogliere con interesse queste nuove interpretazioni. L’associazione storica del kebab con il prezzo basso e la fruizione notturna si sta gradualmente attenuando, sostituita da una maggiore attenzione agli ingredienti e alla presentazione. Lo dimostrano i casi di successo delle catene: Kebhouze, fondata nel 2021, ha aperto decine di sedi puntando su comunicazione massiccia, design delle confezioni e introduzione di opzioni vegane o a base di carne bovina. La collaborazione con Habibi attivata nei mesi scorsi, con l’inserimento di shawarma, falafel e salse tipiche, ha ulteriormente rafforzato l’immagine di prodotto trasversale, adatto a un pubblico più ampio.
Anche The Döner Club, nato nel 2022 a Milano, ha scelto di lavorare sulla qualità percepita: un format incentrato solo sul döner turco, con locali dall’impostazione moderna e packaging curato. Entrambe le realtà intercettano la domanda di una clientela urbana che ricerca praticità senza rinunciare alla standardizzazione qualitativa. Discorso simile anche per Miao Miao Kebab a Roma: «Quella del kebab è in realtà una ricetta che conosce tante anime lungo tutto l’arco mediorientale. Noi abbiamo preferito raccontare la variante turca con i suoi ingredienti e speziature, sumac in primis, riprendendo la tradizione della zona di Adan della cottura sulla “spada” orizzontale, che pare nasca dalle usanze dei soldati dell’impero ottomano, invece dello spiedo verticale che è un’invenzione moderna per facilitare la cottura», ci spiegarono i due dopo aver ricevuto il premio per il miglior panino dell’anno. Il risultato è un kebab che è insieme autentico e originale, popolare e da intenditori, buonissimo e godurioso.
L’Italia non è un caso isolato. In Germania, dove vive una vasta comunità di origine turca ed è la patria putativa di questa preparazione, catene di kebab strutturate sono attive da tempo, come Kebap with Attitude. A Londra, ristoranti come Le Bab e BabaBoom propongono versioni contemporanee del piatto, in locali dal design ricercato. In Francia, realtà come Grillé hanno portato il kebab in ambienti simili a bistrot, “francesizzandone” le ricette anche se l’avventura non è andata bene alla fine.
Il confronto mette in luce un processo comune: un piatto di origine popolare, nato come cibo da strada, si adatta a un nuovo contesto gastronomico e sociale, diventando parte di un’offerta urbana diversificata e più vicina alle esigenze di un pubblico attento all’immagine e alla tracciabilità.
Che succede ora con il kebab in Italia?
La “nobilitazione” del kebab in Italia sembra destinata a proseguire, ma le direzioni possibili restano diverse. Da un lato, le grandi catene puntano a standardizzare l’offerta, avvicinandosi ai modelli del fast food internazionale e sfruttando economie di scala. Dall’altro, i piccoli ristoratori e i format indipendenti potrebbero continuare a sperimentare varianti regionali, contaminazioni culturali e filiere più corte, con l’obiettivo di distinguersi e consolidare un’identità specifica.
Resta da capire se questa trasformazione porterà a una vera integrazione del kebab nel panorama della ristorazione italiana, al pari di altre cucine straniere ormai consolidate come quella cinese, oppure se il rischio di omologazione ridurrà la varietà e la ricchezza di interpretazioni locali. Quel che appare certo è che la combinazione di comunicazione digitale, packaging curato e proposta gastronomica più strutturata ha già modificato in modo significativo la percezione del kebab, trasformandolo da piatto marginale a prodotto in evoluzione costante.