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Miro Osteria del Cinema

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C’era una volta

Dalla stalla che conquista la stella a un ex magazzino tessile: chef e ristoranti ridanno vita a luoghi del passato.

Ceci n’est pas un restaurant. O invece sì. Potrebbe essere questa la locandina di una delle proiezioni fuori all’Anteo, uno dei simboli della cinematografia d’essai milanese che ha puntato su un modello unico in Italia: il ristorante dentro un cinema. Si chiama Miro l’osteria aperta laddove un tempo c’era il backstage del teatro che negli anni 30 intratteneva la Casa del Fascio: qui il menu è servito in una nostalgica custodia DVD ma ci sono parecchi VHS che conducono a un altro cimelio della comunicazione per la generazione Z, ovvero una piccola televisione a tubo catodico, quella che il titolare Andrea Vignali aveva nella sua cameretta, non più di vent’anni fa, considerata la sua giovane età (trent’anni). Sono poi le travi di una graticcia originale usata per le scenografie, un proiettore a pellicola che accoglie i clienti prima di varcare la tenda rossa e un mosaico gigante (una sorta di bignami del cinema realizzato senza internet), gli elementi che incorniciano il set perfetto in cui passato e presente convivono, tra il prologo (antipasto) e l’epilogo (dessert), per citare la scansione delle portate.

Alla seconda metà dell’Ottocento risale invece la casa rosa pallido sulla sponda del Naviglio Pavese che, mentre una volta sorvegliava le chiuse del canale assicurando il viavai tra Milano e Pavia, oggi governa le stagioni della tavola. Di questo posto si sono innamorati Alessandra Straccamore e Matteo Mazza, che nel 2019 gli hanno dato una seconda vita con Motelombroso: “un’ospitalità a ore” per gli avventori, una casa invece per la coppia che ha scelto di abitarlo. È stata una memoria storica del quartiere, che si è rivelata essere il nipote del penultimo custode della casa cantoniera, a ricordare quanto questo immobile fosse già stato legato, in qualche modo, al cibo durante la Seconda guerra mondiale, quando nel bunker – oggi diventato parte della dispensa – si allevavano pesci d’acqua dolce nelle vasche per sfamare i vicini, mentre il prato, dove volendo si può mangiare, era un pollaio. Cibo, vino e otium tengono le fila di uno spazio contemporaneo che, nonostante l’ultimo decennio di oblio, si è (ri)scoperto un luogo d’altri tempi, o che il tempo l’ha fermato, come quando capita di grattare sui muri e ritrovare affreschi del XIX secolo e disegni del periodo dei bombardamenti.

Di riqualificazione urbana parla anche la storia di Moebius, un magazzino tessile degli anni 50 in stato di abbandono, non distante dalla stazione di Milano Centrale (per intenderci, siamo a pochi passi da Pavè, Gelsomina e Il Mannarino), da cui è stato ricavato uno dei locali più belli in città. Se avete mai messo piede in un edificio vuoto di oltre 700 metri quadrati per 12 metri di altezza, probabilmente vi sarà venuta la curiosità di misurare l’eco della vostra voce. Almeno così è stato per Lorenzo Querci, giovanissimo imprenditore di origine senese, che quando si ritrovò davanti a questa decadente fabbrica (senza neanche il numero civico) restò impressionato dalla maestosa costruzione terra-cielo che la città inspiegabilmente non vedeva. Oggi invece tutti conoscono Moebius, tanto è difficile prenotare. Così mentre Lorenzo cercava un posto per aprire il suo ristorante “sperimentale” è stato questo stesso spazio a ispirarlo: la libertà è sì bella ma bisogna saperla gestire. Se lui ha usato un’immaginazione fervida al punto da piantarci un ulivo andaluso che si arrampica fino al tetto, lo studio Q-bic di Firenze di Luca e Marco Baldini ha renderizzato la sua sfida, mantenendo il fascino dal sapore postindustriale, tra i mattoni e l’impianto di condizionamento a vista, e qualche contenuto “emozionale”: nasce così, ad esempio, il negozio di vinili. L’angolo musicale dialoga con il cocktail bar, il tapa bistrot tutt’intorno a un sinuoso tavolo sociale e il fine dining letteralmente sospeso all’interno di un cubo di vetro. Un format poliedrico, insomma, a cui i fratelli Baldini non sono nuovi.

A Firenze è loro la mano (e la mente) dietro la prima ristrutturazione (per quella più recente la famiglia Manfredi ha incaricato Claudio Nardi) de La Ménagère, eclettico locale che in origine era un negozio di casalinghi (ménagère infatti significa casalinga) e che i fiorentini già nell’Ottocento così chiamavano. Questa amata destinazione dall’anima glocal in via de’ Ginori 8/r ha conservato la sua allure di storico emporio dove si scrivevano liste di nozze (e non di rado accade ancora oggi), intercettando però nuovi ambienti, come la parete dove sbocciano i fiori, il bancone (originale) che fa bella mostra di sé con oggetti di design, collezioni firmate da piccoli artigiani e libri, senza trascurare la raffinata (e instagrammabilissima) offerta gastronomica all-day-long, raccontata tanto dal bar quanto dalla lunga tavolata che inneggia allo stare insieme. Pensato come un inno alla convivialità è anche uno degli ultimi locali di Ditta Artigianale di Francesco Sanapo nel capoluogo toscano, quello aperto a luglio 2021 nell’ex convento di Sant’Ambrogio, sempre a firma di Q-bic (con questo progetto vinsero il premio di Miglior Interior Design ai nostri Awards nel 2021). Se la primissima sede a via dei Neri, ormai 8 anni fa, quella che coincise anche l’apertura del primo specialty coffee in città, fu volutamente ispirata a un’estetica nordeuropea, è stato il terzo capitolo (dopo il Ditta a due passi da Ponte Vecchio e piazza Pitti e prima di Riva d’Arno) a scrollarsi di dosso ristrutturazioni infelici che hanno a lungo nascosto il suo passato di refettorio e dove oggi ha sede la “Scuola del Caffè”.

Spostandoci nel Chianti senese, una frazione di cinquanta anime compare per ben due volte sulla Guida Michelin, quella più recente cinque anni fa, quando L’Asinello (aperto nel 2011) ottenne la prima stella. È una vecchia stalla ad accogliere la sala di Senio Venturi ed Elisa Bianchini, anticamente adibita a stazione di posta per gli asini che nel frantoio adiacente facevano girare le macine (la corrente qui arrivò nel 1924). Lo testimoniano i conci di pietra per legare gli animali alle pareti, eredità che la coppia di ristoratori ha volutamente lasciato visibile tra i tavoli, facendola propria anche nell’intimità di coppia con la scelta di dimorare al piano di sopra del ristorante, in quella che fu l’abitazione del fattore. Fuori hanno piantato un albero di ciliegio che fa ombra ai coperti che con la bella stagione raddoppiano sull’erba, paradiso bucolico che continua la sua vocazione rurale tra le piante aromatiche coltivate da Senio, con dragoncello, rosmarino, timo, erba pepe e maggiorana a crescere rigogliose sulle note di Mannarino in filodiffusione. La scatolina portaconto a forma di macina foggiata da Luisa e Paolo di Terrami e un fiscolo in miniatura modellato dalla ceramista Elisa Laise per il piattino del pane svelano invece di più del passato di Une, insegna in provincia di Perugia nata nel mulino che alimentava il frantoio ancora presente all’interno di una delle sale e che veniva azionato grazie alle acque del torrente Roveggiano. Del resto, siamo a Capodacqua e, se non bastasse, nell’antica lingua umbra, Une significa proprio acqua, fonte di vita e di lavoro per Giulio Gigli, tanto per le conserve quanto per il percorso degustazione “Acquedotto”. Lo chef globetrotter ha qui ritrovato il suo ombelico del mondo e con altrettanta sensibilità ha recuperato viti di mezzo secolo fa che sta facendo analizzare dalla regione con l’idea di ripristinarle a breve grazie a un innesto su piede americano. Ha scelto di calarsi all’interno di una grotta Vitantonio Lombardo per aprire il suo omonimo ristorante che nel giro di pochi mesi dall’apertura (era il 2018) divenne l’unico stellato in Basilicata, e così è stato fino al 2021. Nei tenebrosi sassi che Togliatti denunciò come “vergogna nazionale”, lo chef lucano ritrovò nel tufo i fossili di quando Matera era sommersa dalle acque, ma la vera impresa fu indagare l’oscurità di una platonica caverna abitata fino al suo arrivo da ragnatele, pipistrelli e in scarse condizioni igieniche. A parlare di storia sono pure i suoi piatti, come il Passannante: cervello di agnello servito in un finto teschio e dedicato al cuoco e anarchico che nel 1878 tentò di uccidere Umberto I di Savoia.

Esistono poi luoghi che sono rimasti a lungo invisibili agli occhi, magari nascosti tra le canne al vento, come a non volersi far trovare. Così Stazione Vucciria a Finale di Pollina, in Sicilia, rischiava di restare un qualsiasi deposito di attrezzature di Ferrovie dello Stato, come di fatto fu fino ai primi del Novecento, se Franco Virga non fosse passato per quella strada statale alla ricerca del suo pop up estivo che, dopo la parentesi con Kobe Desramaults, dal prossimo maggio avrà come nuovo chef Yoji Tokuyoshi (ve ne abbiamo parlato qui). È Franco il deus ex machina della rinascita gastronomica e culturale di Palermo, come ha dimostrato portando il brasiliano Mauricio Zillo, e con lui la stella Michelin, nella bottega d’artista del più grande scultore del Rinascimento siciliano: Antonello Gagini. Una fucina di idee, rivestita dalle opere del contemporaneo Per Barclay, che ha stimolato in Zillo un inedito Mediterraneo, e non c’è piatto in cui non menzioni almeno un prodotto isolano: dal fresco bergamotto di Messina nel suo carciofo di Menfi con tartare di gamberi al dolcissimo mango di Sant’Agata di Militello, che batte orgogliosamente bandiera siciliana. In fondo, anche i cuochi, come gli artisti, si sentono figli del mondo. No?

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Foto di apertura: Miro – Osteria del Cinema (ph. Jacopo Salvi)

 

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