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Lido84-329 H

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Classici senza tempo

Viaggio tra i piatti della memoria e le tavole delle feste

Il ricordo non è nostalgia. Non se interpretiamo la linea del tempo con una fluidità che avvicina passato, presente e futuro, utilizzando la nostra memoria familiare e collettiva come bussola per non smarrire l’orientamento. Quante cucine d’autore italiane, oggi, si fanno carico di esplorare e valorizzare questo immaginario, prolungando la vita di piatti diventati iconici senza timore di veder sminuita la propria personalità? Ne abbiamo parlato con Riccardo Camanini, Angelo Sabatelli, Giovanni Milana, Gianni Dezio, Davide Palluda, Eugenio Roncoroni, Isa Mazzocchi e Tony Lo Coco. Intraprendendo un viaggio lungo la Penisola, in alcuni dei migliori ristoranti d’Italia, alla riscoperta di gestualità rituali, lavorazioni certosine, pazienza e intelligenza gastronomica.

Nell’ex rimessaggio di barche protetto dalla darsena di Gardone Riviera, la luce mutevole che si riflette nelle acque del lago scandisce il ritmo del lavoro. Una danza luminosa che sa rivelare e nascondere, farsi materica nell’incontro con i velluti dei tendaggi, catalizzare l’attenzione su porcellane e superfici specchianti, rinvigorire i colori pieni e sfrontati delle pareti, il raffinato verde ottanio di memoria d’annunziana (il Vittoriale dista solo qualche chilometro) a contrasto con il rosso pompeiano che riempie gli occhi dei commensali nella sala centrale. Di sera, quando tutto intorno è buio, l’atmosfera cambia di nuovo, e il servizio si veste di una teatralità ancora diversa, stavolta con il sostegno dell’illuminazione artificiale, indirizzata con sapienza scenografica. All’alba, invece, le prime scoperte hanno il gusto del risveglio sollecitato da fasci radenti che accendono la curiosità: lo sguardo si insinua tra le fenditure di un séparé che non nega l’accesso, poi rimbalza attratto dalla macchina da scrivere di Stefano Bombardieri, l’artista bresciano che qui può vantare anche un piatto a lui dedicato. In cucina, Federica è già al lavoro per stendere i grissini e impastare il pane. Un’ora più tardi arriverà la brigata al completo, 22 ragazzi che sono il motore di Lido 84, sotto le direttive dei fratelli Camanini.

La mattinata trascorre in preparazione del servizio del pranzo: ognuno sa cosa fare e lo chef interviene solo per sistemare gli accenti. Il brief delle 12.20 serra i ranghi. Quando il sole è alto nel cielo, poco prima dell’arrivo degli ospiti, la sala è inondata di luce. A misurarla con cura, quando la mise en place è ultimata, è Riccardo. Una certa maniacalità per il dettaglio, al pari di un gusto per il racconto che trova espressione nell’estetica raffinata del luogo ancor prima che nell’esperienza a tavola, lo accomuna a suo fratello Giancarlo, fautore del recupero di questo spazio riportato a nuova vita a partire dal 2013, un tassello dopo l’altro, dalla ricerca di pezzi di modernariato alla scelta delle maioliche di Gio Ponti, all’innamoramento per un set di bicchieri anni Cinquanta scovati in un mercato di antiquariato. Summa di questo lavoro di cesello è la stanza sospesa sull’acqua, nell’ex torretta dei pescatori che oggi è un condensato di eccellenza del design made in Italy, come del resto l’intero progetto di ristorazione orchestrato dai fratelli Camanini, inno all’artigianalità (persino la carta dei menu arriva da una storica cartiera della zona) e al saper fare che ha reso straordinaria la storia del nostro Paese.

«Mi guardo intorno, e dove trovo bellezza e piacere li prendo, per nutrire lo spirito e il mio mestiere», ammette candidamente uno dei cuochi più celebrati della scena gastronomica internazionale odierna (quindicesimo, e primo tra gli italiani, nell’edizione 2021 della The World’s 50 Best Restaurants). Una rivelazione che, di nuovo, chiama alla memoria d’Annunzio e la sua poetica dell’edonismo. Non fosse che Riccardo – uomo e professionista rigoroso, incline all’esercizio costante e alla disciplina – ha trovato il modo per esprimere questa sua sensibilità con una concretezza e lucidità d’intenti che lo allontana dalla ricerca del piacere fine a se stesso. È facile accorgersene mentre racconta della meraviglia per le piccole scoperte quotidiane, che alimentano l’ispirazione in cucina al pari dell’indagine nella storia del gusto, animata da una curiosità mai paga di letture e ricerche erudite (mai sentito parlare della Cacio e pepe in vescica diventata un classico della casa, conosciuto in tutto il mondo? Tutto è iniziato con la riscoperta di Apicio e del suo De Re Coquinaria). È questa emotività a ricondurre il lavoro di Riccardo nell’alveo della nostra ricognizione di una cucina senza tempo, excursus tra le ricette diventate patrimonio culturale collettivo, con particolare riferimento ai piatti delle ricorrenze in famiglia e del ricordo. Un punto di vista che si presta anche a esplorare preparazioni che sanno fare tesoro di gestualità rituali, lavorazioni certosine, pazienza. Quante cucine d’autore italiane, oggi, si fanno carico di esplorare e valorizzare questo immaginario, prolungando la vita di piatti diventati iconici senza timore di veder sminuita la propria personalità?

Il ricordo non è nostalgia. Non necessariamente. Anzi, può diventare motivo di gioia e pieno godimento nel presente. Difficile pensarla diversamente quando sulla tavola di Lido 84 si materializza la Torta di rose con zabaione al Vov ai limoni del Garda. «La cucina è un piacere profondo – conferma lo chef – perché ne puoi godere con tutti i sensi: quando la fai per l’ospite è come se la mangiassi tu. Il mio istinto è quello di ricercare e donare questa sensazione di benessere, e la strada più diretta per farlo è ancorarmi alla memoria, che ci riporta in una dimensione confortevole. Dobbiamo pensare che il gusto, nelle sue molteplici sfumature, può essere anche un’evoluzione del sociale. Ho iniziato a cimentarmi con la Torta di rose che ero ancora a Villa Fiordaliso, nel ‘98. L’avevo assaggiata in una pasticceria sul lago, era considerata un dolce da laboratorio, da condividere in famiglia, in occasioni speciali. Ho avuto la visione di ripensarla come dessert al piatto. Chiunque ha memoria del profumo di qualcosa appena sfornato, io ho anche abitato sopra alcune panetterie e sono il tipo di persona che resta incantato davanti alla vetrina di una boulangerie passeggiando per le strade di Parigi. Fare cucina d’autore è cercare di reinterpretare se stessi all’interno di un piatto, dunque è una sintesi del gusto che ci caratterizza. Il lavoro fatto sulla torta di rose è stato innanzitutto un piacere: ho cercato di esprimere al massimo quel profumo da forno. Tutto contribuisce a farne l’evocazione di un momento intimo e confortevole: lo zucchero a velo, la leggerezza dell’impasto, il giallo acceso dello zabaione (dietro ci sono due giorni di lavoro, una ricetta perfezionata nel tempo, un rituale ripetuto con cura sin dalle prime ore del mattino dalla giovane pastry chef Miriam, ndr)».

Non a caso, da Lido 84, l’arrivo del dessert invita a una “dolce condivisione”, che si completa prima del commiato degli ospiti con l’introduzione a una piccola pasticceria ugualmente centrata sulla sollecitazione del ricordo, stimolato da un preciso rituale di servizio: «Quello del dolce è un momento distensivo, che chiudiamo evocando i dolciumi delle sagre di paese, raccontati al tavolo dai nostri stagisti. È importante che in squadra tutti diventino attori protagonisti della nostra filosofia, che sappiano parlare di gastronomia con curiosità». La capacità di calcare con consapevolezza il “palcoscenico” della cucina è del resto il tratto distintivo di una maturità professionale che Riccardo sembra emanare a beneficio dell’intero gruppo di lavoro: «Vivere il servizio in rapporto dinamico con quel che succede davanti ai nostri occhi è uno dei gradi di piacevolezza di questo mestiere: la metrica e la maniacalità mi derivano dal passato con Ducasse e Marchesi, però la spontaneità è una dote essenziale per presidiare ciò che rende unico ogni pasto. Credo nel valore dell’artigiano, che deve scendere in profondità per tendere a migliorarsi sempre. Studiare e osservare, comprendere le ricette, analizzare l’interazione tra ingredienti e cotture; ogni volta è una partita diversa». E cimentarsi con una ricetta che molti associano alla dimensione familiare impone di perfezionare la tattica: «Nella torta di rose c’è una magia non chiaramente espressa, legata alla mano che impasta, all’umidità e alla ricerca della temperatura più giusta, è una sfida infinita. La sua unicità deriva da una sensibilità applicata per anni nel cercare di ripeterla. La nostra versione non è biondina con gli occhi azzurri, non cerchiamo la perfezione, ma l’emozione».

 

L’attrazione della memoria o della crosticina dei cannelloni

La stessa emozione che, diverse centinaia di chilometri più a sud, giù fino al Tacco d’Italia, si prefigge di trasmettere ai suoi ospiti Angelo Sabatelli. Il cuoco pugliese, nato e cresciuto a Monopoli, da qualche anno ha trovato casa nel centro di Putignano, dove nel ristorante che porta il suo nome esprime la sua idea di territorialità con la forza che gli deriva dall’aver trascorso molti anni in viaggio (ne ricordiamo la formazione romana al Convivio Troiani e il lungo passaggio in Oriente, tra la Cina e il Sud Est asiatico): «Il mio lavoro oggi si fonda sulla valorizzazione della memoria gustativa, che oltre a essere fonte d’ispirazione è motivo di promozione del territorio. È anche un esercizio che contraddice la voglia di scrivere cose nuove a tutti i costi; i cuochi che lavorano sul ricordo dovrebbero godere di una considerazione maggiore. Ormai si cucina di tutto tranne i piatti tradizionali, io invece voglio provarci». La strada dunque è ben tracciata, e trova modo di esprimersi al meglio proprio nel contesto di una tavola d’ambizione: «Più in generale, il mio è un progetto sulla potenza gustativa, che diventa evocativa. E non c’è bisogno di ricorrere a espedienti forzati: oggi, per esempio, si rincorrono l’amaro e l’acido, noi li abbiamo in natura, e in Puglia ci siamo legati per tradizione, ecco perché mi dà soddisfazione lavorare su un classico come fave e cicoria».

Con le Orecchiette al ragù + 30, ormai diventato un classico che non può mancare in carta, l’esercizio è particolarmente riuscito: «L’idea è nata in una domenica d’autunno, ero affacciato a guardare il tempo uggioso, ho pensato a quanto mi avrebbe fatto bene un piatto di orecchiette col ragù. All’epoca stavo studiando le cotture prolungate, per comprendere la reazione degli ingredienti oltre le 24 ore: pensai di unire gli spunti». Per un calcolo errato, però, l’esperimento si prolungò per 32 ore. Il risultato? «Un ragù privo di grassi, che si separavano naturalmente per effetto della tecnica di cottura; e una persistenza di gusto e profumi incredibile, che amplificava il mio ricordo del ragù di famiglia». La ricetta, insomma, è proprio quella della mamma di Angelo, però “migliorata” nell’esperienza gustativa, come si conviene a una cucina di ricerca: «Il formaggio grattuggiato si attacca al palato, diventa dominante. Abbiamo deciso di scioglierlo, per farne una fonduta e favorire l’amalgama col gusto del sugo: a ogni boccone assapori il piatto completo». E così le orecchiette di “casa” Sabatelli, piccoline (uso barese) per raccogliere più sugo possibile, sono diventate motivo di “pellegrinaggio”: «Un assaggio che vale il viaggio, come mi ripetono molti clienti».

Testimone di quanto un piatto della memoria possa diventare fonte d’attrazione è anche Giovanni Milana, custode di una tradizione familiare che ha saputo nobilitare per traghettare nel presente un’attività di ristorazione storica, che deve il suo successo non solo alla genuinità della proposta, ma soprattutto alla capacità di superare le etichette e non porsi limiti. Sora Maria e Arcangelo ha l’anima di una grande trattoria che non si nega la possibilità di orientare l’evoluzione gastronomica del territorio. Così Olevano Romano, nella campagna laziale, è diventata sosta privilegiata per cultori del gusto in arrivo da tutta Italia. «Tutto gira intorno alle mie idee, legate alla storia di famiglia e alla ricerca sul territorio. Ma questo sistema poggia anche su piatti imprescindibili, sempre presenti in menu». Come i mitici Cannelloni, serviti sfrigolanti nel coccio rovente, con l’avvertenza di non toccare il piatto, «perché scotta», ripete con pazienza chi li serve in tavola proprio come succederebbe al pranzo della domenica in famiglia. «Il cannellone è un esempio di archeologia gastronomica del Lazio, bistrattato dall’uso che se ne faceva nei banchetti degli anni Sessanta e Settanta. Per me rappresenta il legame con le origini del ristorante, quando i miei nonni (Maria e Arcangelo, ndr) iniziarono a Roma, al Pigneto. La ricetta è quella di un tempo, io ho lavorato sulla materia prima: il vitellone della Bottega del macellaio di Casalvieri per il ripieno, da animali allevati allo stato brado in Val di Comino, il fiordilatte a latte crudo del caseificio Ammano di Fiumicino, il pomodoro di piccole realtà dell’Agro Sarnese-Nocerino». Resta immutata, invece, la ritualità della preparazione: «A 85 anni, è ancora mia madre Rita a occuparsi dell’impasto, ogni giovedì. Deve riposare per un giorno. Chi viene a trovarci il venerdì a pranzo, infatti, la trova intenta ad arrotolare i cannelloni sulla sua sediolina, uno per uno: è un piatto fatto di gesti e tempistiche che si ripetono sempre uguali». Il segreto, però, sta nella cottura: «Qualche anno fa abbiamo provato a cambiare il forno, siamo dovuti tornare sui nostri passi. I cannelloni devono cuocere, appena prima di essere serviti, sopra i 300 gradi, in piatti in ceramica in grado di resistere alle alte temperature. Un po’ come succede con la pizza. Solo così si forma la crosticina che è la parte più golosa del piatto, il suo tratto distintivo».

 

La scure del campanilismo e la ricerca dell’identità

Ancora diversa, ma per molti versi affine, è la storia di Gianni Dezio. Negli ultimi sette anni, fino alla primavera scorsa, il cuoco italo-venezuelano ha concentrato la sua idea di cucina nel progetto Tosto, insegna che si è fatta notare sulla mappa dei giovani ristoranti capaci di mettere in luce, in modo personale e divertente, le potenzialità di un luogo – Atri – fuori dalle rotte più battute. Ora il progetto è temporaneamente in pausa: chiuso il locale, in attesa di trovare un nuovo spazio, l’attaccamento di Gianni alla sua terra si esprime nella gastronomia Più Tosto, sulla piazza principale della piccola cittadina abruzzese. Quando è rientrato dal Venezuela, dove è nato e cresciuto al seguito della sua famiglia – che in Sudamerica è emigrata molti anni fa e a Calabozo gestisce un ristorante italiano –, Dezio ha pensato di riappropriarsi delle proprie radici cogliendo con sensibilità le potenzialità del territorio, in un rapporto di reciproco scambio con i piccoli produttori locali. Scontrandosi anche con qualche difficoltà: «Mi sono sempre considerato un cuoco italiano. In famiglia, forse proprio perché dall’altra parte del mondo, ho compreso presto il valore della nostra cucina: ricordo le valigie di “contrabbando” per portare in Venezuela la pasta, la volontà di preservare certe usanze e farle conoscere anche laggiù. Qui in Abruzzo ho avuto accesso a una sorta di parco giochi del cibo. Ma all’inizio una parte della clientela locale cercava in me la diversità, si aspettava qualcosa di esotico; mentre io da subito mi sono concentrato sulla ricerca delle materie prime e sulla lettura della storia locale. La cucina teramana è la più ingombrante rispetto alle altre varianti regionali, poggia su piatti molto conosciuti. È un vantaggio confrontarsi con la tradizione, mai un limite, ma bisogna stare attenti a contestualizzare quello che fai, lì si vede la bravura del cuoco».

Cimentarsi con le Virtù Teramane ha alzato la posta in gioco: «Si tratta di una preparazione molto complicata, quasi anacronistica, legata alla Festa dei Lavoratori; annovera una cinquantina di ingredienti, e guai a cambiare le carte in tavola! Io non l’ho mai amata, forse perché conservavo il ricordo di un piatto mal fatto: bilanciare tutte le componenti è difficile». La sua ricerca ha coinvolto la memoria storica del luogo, consultando le signore del paese e ricettari antichi: «Ho voluto rispettare l’originale, però applicando un approccio più moderno, per esempio separando le cotture dei singoli ingredienti e assemblandoli solo alla fine. E aggiungendo un tocco personale, gli anellini di semola di Elice, che per la loro consistenza gommosa conferiscono un divertimento in più. Poi completiamo con polpettine di carne piccolissime e foglie di cicoria fritte. È un piatto che richiede giorni di preparazione, eppure chi lo assaggia da noi nota una certa freschezza di composizione». Questo non ha risparmiato all’esperimento la scure del campanilismo: «Basti pensare che a Teramo c’è ancora chi si ritiene unico depositario della ricetta originale, come se tutti gli altri non avessero diritto di riproporla».

«Ricercare cibi della memoria è qualcosa che accomuna tutto il mondo, a fasi alterne; fa parte della dialettica tra contemporaneo e passato – spiega a riguardo l’antropologo abruzzese Ernesto Di Renzo, docente di Antropologia del gusto all’università romana di Tor Vergata – Nella Penisola, però, più che in altri Paesi, questa memoria collettiva è molto frammentata, localizzata, soggetta a fenomeni di campanile e regionalismi. Si manifesta, insomma, con una forte dispersione, che ha radici antiche, legate all’Italia dei Comuni, fatta di micro territori che conservano ciascuno le proprie tradizioni». Un fenomeno endemico e storico, che può limitare il raggio d’azione di un cuoco, ma anche rivelarsi una potente risorsa, come testimonia il percorso di Davide Palluda, classe 1971, nato a Canale e profondamente legato al suo Roero, che gli ha permesso di raggiungere una maturità professionale comune a pochi nel panorama nazionale. La sua è una cucina che con intelligenza si nutre della memoria locale, senza farsi schiacciare dalla nostalgia: «La provincia è una risorsa per chi fa il nostro mestiere. E in Roero questo è ancora più vero, gli sono riconoscente. Ecco perché quello che faccio deve somigliare al luogo in cui mi trovo: è il vero valore aggiunto di una cucina di ricerca, oggi. Hai vinto quando certe cose le provano da te. Ripetere certi gesti e recuperare il gusto delle tradizioni familiari impedisce l’erosione della cultura gastronomica, la rende viva e attuale».

Riproporre in un ristorante d’autore un piatto come la Finanziera, in Piemonte, racchiude il senso di questa operazione. Già celebrata dal Maestro Martino nel suo De Arte Coquinaria alla metà del Quattrocento, la ricetta è un caposaldo della grande cucina regionale, che Palluda si prende la briga di traghettare con estremo riguardo nel suo mondo. «Approcciandoci alla ricetta, abbiamo capito che il campanilismo esiste: ci sono decine e decine di versione talebane, tutti hanno la verità in tasca. Abbiamo scelto la variante sabauda, perché Torino ha sempre influenzato il Roero, dunque la presentiamo senza verdure, fatta eccezione per i sottaceti e i porcini sott’olio. Il mio contributo è rendere ogni taglio riconoscibile, per favorire anche la masticabilità. Resta il fatto che la finanziera deve presentarsi nuda, in tutto il suo “orrore” (dovuto alla commistione di molte frattaglie diverse, ndr). Oggi in casa non la fa più nessuno, e anche al ristorante è raro trovarla, è un lusso che ci concediamo: la sfida vera è reperire tutti gli ingredienti necessari, che devono essere freschissimi». E i segreti dello chef per nobilitarla? «Il profumo dell’alloro è imprescindibile, come pure il marsala, legante di tanti piatti nobili piemontesi, importato dai siciliani. Poi l’aceto, che deve essere misurato con cura. Oggi non penserei mai di togliere questo piatto dal menu, anche se confrontarsi con una ricetta del ricordo è sempre complicato: interviene l’amarcord, la memoria individuale legata ai profumi, alle situazioni e alle figure importanti della propria vita. È più facile che qualcuno contesti la tua versione, l’importante è difendere l’identità della propria cucina».

 

Contaminazioni tra avanguardia e classicismo

Fautore di questo principio, a Milano, è Eugenio Roncoroni, che nutre la sua personalissima visione di una cucina senza etichette né barriere geografiche della doppia nazionalità avuta in sorte (italiano per parte di padre, sua madre è californiana). Prima di approdare in via Sant’Eufemia, dove lo spazio di Al Mercato – oggi col sottotitolo di Steaks&Burgers, operazione mirata a riabilitare in Italia le bistrattate steakhouse di matrice americana – ha subìto un importante restyling nel 2020, mentre l’insegna raddoppiava nel grande spazio di Porta Venezia, Eugenio ha avuto modo di formarsi in grandi ristoranti: «La prima cosa che mi ha affascinato, entrando in una cucina professionale, non è stato il cibo in quanto tale, ma l’atmosfera che si respirava, i pentoloni di rame, l’odore dei fondi di cottura, gli oggetti, le stufe antiche, tutto ciò che era legato al rigore della classicità. Ho capito che volevo far parte di questa realtà». Dal 2012, quando ha deciso di scommettere su un progetto all’avanguardia, investendo sulla possibilità di interpretare il mondo dello street food alla luce della sua formazione classica, Eugenio non ha mai smesso di credere nel valore delle cose fatte per bene: «Sono cresciuto in cucine stellate di forte impostazione francese, ho ricevuto un insegnamento quasi militare delle tecniche di base. Oggi, nel mio menu apparentemente informale confluisce tutto questo: nel nostro hamburger c’è tutta l’attenzione che metterei nella cucina classica, la cura per le marinature, i fondi delle carni preparati ogni giorno, lo studio sulle aromatiche e sul pane. Usiamo un mix di carne trita che è frutto della selezione di tre manzi di età diverse e tre diverse frollature. Per la cottura utilizziamo burro chiarificato e grasso d’oca. Dietro c’è uno studio che porto avanti da dieci anni».

E allora non stupisce, scorrendo tra le righe di una carta che fa della golosità il suo punto di forza («Ho lavorato in posti che inseguivano il piatto perfetto, e non mi veniva mai fame. I miei menu si devono far ricordare perché appagano la pancia e il cuore»), trovare proposte come il purè Robuchon – servito a tavola nel caratteristico pentolino, con burro nocciola alla salvia, «una piccola licenza d’autore, ma sempre a partire dalla ricetta originale» – o il Pâté en croûte, grande classico senza tempo della cucina francese, ampiamente sdoganato sulla tavola italiana delle grandi occasioni. «I miei ragazzi devono essere in grado di fare un panino e pure di replicare un pâté en croûte alla perfezione, seguendo passaggi rigorosi e precisi. Oggi c’è molta fretta, e il timore di veder mortificata la propria creatività: ma una buona cucina è fatta di affidabilità e ripetitività. Fare il cuoco è duro, può essere alienante. Io però sono ancora innamorato della cucina. E preservare l’autenticità di un piatto significa mantenerne identificabile il gusto. Per questo il rispetto delle ricette è un valore del nostro mestiere, anche – anzi soprattutto – in un contesto fatto di contaminazioni come il mio».

 

La provincia opulenta

“La tradizione non si eredita, chi la vuole deve conquistarla con grande fatica” è una frase di Thomas Stearns Elliott. «Una grandissima verità: se la rimetti in tavola così com’è non funziona, la conquista è riuscire ad attualizzarla ai giorni nostri, con il gusto di raccontare una storia senza tempo». Ha le idee chiare Isa Mazzocchi, che sulla memoria del territorio, e ancor prima su quella familiare, ha costruito il suo regno (La Palta di Borgonovo Val Tidone), cuoca tra le più apprezzate d’Italia (a lei, quest’anno, è andato il riconoscimento come Best Chef Michelin) e interprete di una provincia opulenta – il piacentino – quando si tratta di ritrovarsi intorno a un tavolo. «In Emilia Romagna l’influenza di Maria Luigia d’Asburgo ha lasciato segni importanti, la nostra è una cucina fatta di piatti succulenti, con preparazioni molto lunghe, io ho respirato l’esempio di mia mamma, e ancor prima quella di nostra zia. Quando ero ragazza ho persino odiato certi piatti, provavo quasi noia nel prepararli ogni giorno. Poi ho capito che non si tratta di qualcosa di vecchio da buttare: le pietanze di casa, quelle dell’intimità, sono un patrimonio collettivo che continua a vivere nel presente. Il mio approccio è tecnico (merito della formazione con Georges Cogny, ndr), ma al servizio di queste ricette recuperate nei racconti delle persone, negli archivi, sui ricettari familiari. Ne faccio rivivere certe gestualità o alcuni ingredienti, però con la mia sensibilità». Pensiamo a invenzioni come il Filetto di cavallo crudo con maionese al Gutturnio (Piacenza è stata in passato una frequentata stazione di posta, la carne di cavallo era molto consumata), o il Raviolo di ravioli. La spinta a radicarsi senza filtro a certi ricordi dell’eredità familiare, invece, è arrivata nel periodo di purgatorio delle ripetute chiusure imposte dalla pandemia: «Per il delivery abbiamo scelto di trovare conforto nelle nostre radici, dedicando tempo a preparazioni dimenticate, come il timballo di maccheroni condito col sugo di piccione, amaretti, uova, formaggio, racchiuso in uno scrigno di frolla e cotto al forno, che mia mamma ha imparato da una vecchia contessa del paese. Ma anche alla Crème caramel, una ricetta ripescata dalla memoria, che una volta si faceva in grandi stampi e richiedeva molto spazio e pazienza. Noi abbiamo pensato di farne una monoporzione, e aggiunto le spezie del croccante per rendere più accattivante un dessert che tutti ci ricordiamo con piacere».

Un sentimento che, in Sicilia, accompagna, per esempio, l’arrivo in tavola di un timballo di anelletti al forno, emblema mai dimen- ticato della cucina familiare delle feste. A Bagheria, Tony Lo Coco si fa custode anche di questa memoria. Lo chef palermitano conduce da più di dieci anni con sua moglie Laura Codogno il ristorante I Pupi, impegnato a valorizzare le grandi ricette della cucina regionale, conferendogli connotati di gentilezza, digeribilità, appetibilità e sorpresa. Fonte d’ispirazione è lo street food (celebri sono le sue stigghiole di pesce), ma pure il repertorio dei classici casalinghi, come il Tonno ammuttunato, «un piatto nato da una piccola disavventura», spiega lo chef. «Lo mangiai in una trattoria, sicuro che rispecchiasse la tradizione, e invece ne rimasi deluso. Decisi così di cimentarmi con la ricetta, scegliendo innanzitutto di rispettarne la gestualità. Al ristorante non lo cuociamo più in tegame, ma sottovuoto, però la preparazione di base resta immutata: incidiamo il pezzo di tonno e poi spingiamo nei tagli, con le dita, aglio e mentuccia. Il gesto è quello di sempre, non potrebbe essere altrimenti; la tecnica di cottura più moderna, invece, contribuisce al risultato finale», e il pesce è più morbido, succoso e fragrante. «Molte delle ricette su cui lavoro sono quelle della mia infanzia, di una tipica famiglia palermitana: tutte le donne erano grandi cuoche, a Natale c’era la sfida a chi faceva i broccoli pastellati più buoni! La memoria ricorda sempre il gusto di certe giornate». Eppure, «il cibo della memoria non replica esattamente quello del nostro passato, ma è filtrato dall’interpretazione che ne fornisce la nostra immaginazione. Ci appropriamo di significanti conosciuti – chiarisce il professor Di Renzo – attribuendogli significati sempre diversi. Questo, a livello collettivo, succede soprattutto nei periodi di crisi, quando il presente è privo di rotta, il futuro è incerto e fare un passo indietro consente di recuperare valori fortemente identitari». Il cibo diventa dunque un elemento centrale in questo processo.

 

Il “cortoviaggio” sul lago

«L’uomo ha sempre interpretato quello che c’è stato prima di lui, anche aggrappandosi ai traguardi già raggiunti da altri. L’approccio più utile è quello dell’indagine storica: la scoperta è infinita, l’Italia è un paese ricco di cultura», sottolinea Camanini. Ma la creatività è alimentata anche dalla meraviglia per le piccole scoperte quotidiane, sull’orizzonte di un “cortoviaggio” che è esplorazione della prossimità (geografica, temporale e culturale). Sono nate così, nell’ultimo anno, alcune delle nuove proposte presenti in menu da Lido 84. Il Riso verdino, mantecato con caprifico e completato con malli di noce sotto spirito è diretta emanazione del Nocino prodotto al ristorante lo scorso 24 giugno, nel giorno di San Giovanni Battista, come vuole tradizione locale. «L’intuizione, in questo caso, è frutto del concatenarsi di stimoli diversi: la scoperta di una produzione di noci in permacultura, qui in zona; l’abbondanza di foglie di fico e il ricordo di un vecchio piatto che mi riporta sempre alla mente quell’indolenza di fine estate, quasi fossimo in un film di Dino Risi; il nostro lavoro sui risi mantecati, intrapreso diversi anni fa. Quando a settembre abbiamo tirato fuori i malli dal nostro nocino, abbiamo chiuso il cerchio. L’assaggio dell’insieme ci ha convinto, ed è nato il piatto». Lo stesso orizzonte, però con lo sguardo che volge alle acque pescose del Garda, ispira la composizione dedicata alle sarde di lago, diventata un classico del ristorante, che è soprattutto, ancora una volta, un gioco sulla memoria familiare locale: «Tutti qui hanno l’abitudine di mangiare durante l’anno la sardina, che si prepara la domenica sulla brace. Noi la proponiamo quasi biscottata e usiamo anche i suoi fegatini macerati nell’aceto di uva groppello, autoctona del Garda. L’odore acre ricorda quello delle cantine dove si appendevano i salami e si conservava il vino vecchio per farne aceto». Ma ad alimentare il ricordo interviene anche l’impatto visivo: «Infilziamo le nostre sarde su uno spiedo, come nel bresciano era uso con gli uccellini, che prevedevano un vero e proprio rituale di preparazione, sin dalle prime ore del mattino, per presidiare i camini all’aperto. Nel frattempo, con gli scarti e i fegatini, in casa si preparava la minestra sporca, da consumare insieme al vino per riscaldarsi, in attesa del pranzo. Sono usanze che oggi vivono solo nel ricordo locale, seppur molto vivido. Noi lo trasportiamo nella nostra casa sul lago». Dove la vena della memoria è prolifica e il piacere del racconto alimenta.

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