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ph Gérôme Galland

Il richiamo di Bequia

Dopo decenni di assenza, l’autrice ritorna sulla piccola isola caraibica che tanto ha fatto per la sua famiglia.

In paradiso ci sono stata già in passato. Oggi capirò se esiste ancora. Sono sul lungomare di Kingstown, la capitale di St. Vincent e le Grenadine, riparandomi gli occhi dalla luce abbagliante del sole per guardare al di là della baia, verso una verde montagna che si innalza profetica dal mare dei Caraibi a quasi 15 chilometri di distanza. Sono passati quasi 50 anni dall’ultima volta che mi sono trovata in questo punto esatto, quando ero in attesa di imbarcarmi con mia madre sulla nave postale per Bequia, il rifugio isolano che avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. Se qualcuno mi avesse detto che ci sarebbe voluto così tanto per tornare, non gli avrei creduto. Bequia è stata la nostra seconda casa per tre anni, il primo posto dove mi sia davvero sentita al sicuro in gioventù. Adesso, finalmente sto per metterci piede di nuovo, arrivando nel suo pittoresco porticciolo su uno dei due traghetti che fanno la spola diverse volte al giorno. Mi vedo già chinata a baciare la sabbia bianca e soffice appena sbarcata, canticchiando «Bequia mia, sono tornata».

Temo anche di non riconoscerla – e viceversa. Il viaggio odierno è cominciato praticamente nello stesso modo in cui cominciò nel 1972 quando, prima dell’alba, mia madre mi infilò in un taxi fuori dal nostro appartamento nel Greenwich Village, sperando di scappare dall’inverno newyorkese ma anche dal suo ex marito, mio padre. Emotivamente violento e fisicamente imprevedibile, spesso creava molto disordine sia nel privato sia in pubblico. Già a 5 anni ne avevo timore. Mia madre aveva già un legame con i Caraibi, visto che prima che io nascessi aveva visitato St. Croix diverse volte, ed era rimasta affascinata da una piccola isola chiamata Bequia, della quale aveva solo sentito parlare: 18 chilometri quadrati di vegetazione tropicale circondati da mare turchese, 385 miglia nautiche a nord del Venezuela. Non sapeva bene come arrivarci finché le capitò per caso di leggere un articolo con le informazioni necessarie: un aereo per Barbados seguito da un volo interno per St. Vincent, e poi quella nave postale per Bequia. Era anche un viaggio incredibilmente economico, perfino per una madre single con un salario modesto, un figlio al college e una bimba piccola al nido.

Adesso, decenni più tardi, vedo Bequia con gli occhi di mia madre. Il lato dell’isola di fronte St. Vincent è coperto da fitte foreste, disabitato e, essendo il primo che appare alla vista, anche un po’ inquietante. È solo all’ultimo momento, quando il traghetto finalmente vira per Admiralty Bay, con la superficie del mare punteggiata di barche che ondeggiano all’ancora e incorniciata da palazzine colorate, che finalmente si capisce di non aver commesso un madornale errore. Al contrario, la curva gentile e sinuosa della costa sembra protrarsi in un caldo abbraccio verso i nuovi arrivati. Per una bimba proveniente da Manhattan, Bequia rappresentava un’avventura magica e meravigliosa. Nel momento esatto in cui ci mettemmo piede, il mondo si trasformò da bianco e nero a colori, come se fossimo dentro il film Il Mago di Oz. La prima notte – che passammo all’hotel Sunny Caribbee sulla spiaggia direttamente di fianco all’approdo di Port Elizabeth – mia madre ed io ci fermammo sul prato, mano nella mano, il cielo stracolmo di stelle sopra le nostre teste, così tante e luminose che sembrava possibile toccarle con le mani, come se indossassimo degli occhiali 3D. Il Sunny Caribbee si chiama oggi Bequia Plantation Hotel, ed è esattamente come lo ricordavo: un corpo principale imponente, circondato da una spaziosa veranda, con tanti piccoli villini su uno dei lati fiancheggiati da una piantagione di alberi di mango. Quando ero bambina, a Bequia l’elettricità era arrivata solo da pochi anni e la struttura risultava accogliente ma semplice; oggi, le stanze sono state rinnovate in stile tropicale, mentre gli chalet sono circondati da un portico coperto di buganvillea, perfetto per rilassarsi. Con in mano un bicchiere di rum punch ghiacciato, attraverso lo stesso prato di un tempo per arrivare dove l’ac- qua cristallina gentilmente bacia la piccola spiaggia, mentre gli alisei scompigliano le file di palme dritte e ordinate piantate dal proprietario originario molto prima della mia nascita. Sono altissime adesso e piegate in tutte le direzioni, sembra non sentano il passare del tempo. Respiro a pieni polmoni, e mi sento a casa.

La stessa sensazione continua a colazione. Gli ospiti dell’hotel sono soprattutto britannici e caraibici, e apprezzano una cucina influenzata da entrambe le culture: l’assortimento all’inglese di salsicce, uova e fagioli è accompagnato da ananas, papaya e mango. Le brioche appena sfornate mi ricordano una signora che a Port Elizabeth preparava il pane in forni ricavati da vecchi barili d’olio e che ogni tanto regalava a noi bambini dell’isola – probabilmente solo per allontanarci – pezzettoni di brioche calda profumata di cocco. Durante la passeggiata di neanche un chilometro che va dal Bequia Plantation Hotel fino al porto, ci sono diverse ville e centri diving vicino a ristoranti come Laura’s, famoso per paella e pasta fresca, e Mac’s Pizza and Kitchen, che offre dozzine di condimenti come quello all’aragosta. Mi siedo sul molo al Frangipani, la locanda dove io e mia madre abbiamo trascorso due estati, accanto al ristorante Whaleboner, il cui ingresso è incorniciato dalla mascella di una balena spiaggiata. Fermandomi al Fig Tree per pranzo, sorseggio una Hairoun ghiacciata (la birra locale prodotta a St. Vincent) mentre aspetto un piatto di croccante frittura di frutto dell’albero del pane, un altro dei miei piatti preferiti da piccola. Quando Cheryl Johnson, la proprietaria, lo porta in tavola, sorride dicendo: «Te l’ho preparato sia fritto che crudo, pensavo che così ti sarebbe piaciuto». Mi chiedo tra me e me come potesse saperlo. C’è qualcosa in me che mostra che appartengo ancora a questi luoghi? Nei giorni che seguono attraverso tutta l’isola, dalla cittadina di Paget Farm sul lato sud, percorrendo le strade che corrono sui fianchi delle montagne a picco sulla bellezza abbagliante di Friendship Bay sul retro di autocarri-taxi, e camminando dalla spiaggia di Princess Margaret fino alla Lower Bay, facendo nuove amicizie lungo il percorso e ricevendo qualche notizia di amici ormai dimenticati. Rimango incantata davanti alla collezione di millenarie ceramiche amerindiane al Bequia Heritage Museum, dove si raccontano l’antica storia dell’evoluzione dell’isola e il suo travagliato passato coloniale.

Una piantagione del 18esimo secolo, meticolosamente ristrutturata dalla società Grenadine Wild Sea Salt (che estrae il sale dalle stesse acque dell’isola), serve oggi per ricordare i popoli in schiavitù che 200 anni fa rappresentavano l’85% della popolazione. Al Toko’s Step Down Bar, una bettola dove mi trattano come una del luogo sparita da tempo, condivido con Toko (chef e proprietario) e gli altri clienti abituali la storia di come io e mamma finimmo a Bequia, e, durante la nostra ultima estate qui, diventammo amiche di un marinaio di 26 anni. Di come lui e mia madre si siano innamorati e sposati in segreto qualche mese dopo, e di come lui sia poi diventato il mio padre adottivo. Di come in seguito la mia famiglia costruì una barca per tornare a Bequia via mare, ma la vita ci si mise di mezzo, e quel viaggio non divenne mai realtà. Di come io li abbia chiamati in video, seduta in riva al mare, la mia prima sera di ritorno sull’isola mostrando loro la vista che avevo davanti, e di come siano venute le lacrime agli occhi a tutti noi perché è qui che la nostra famiglia è nata. Toko mi propone un brindisi col bicchiere di rum e dice: «La prossima volta non far passare così tanto tempo. Torna presto, saremo qui ad aspettarti».

Come arrivare

Prendete un taxi dall’aeroporto di St. Vincent per il porto di Kingstown da cui prendere il traghetto per Port Elizabeth, a Bequia; le corse partono diverse volte al giorno (bequiaexpress.com). C’è anche la possibilità di prenotare un transfer privato via mare, per esempio con Island Fever Tours SVG (facebook. com/islandfeversvg) andata e ritorno da Bequia, inclusi il pick up da e per l’aeroporto. I taxi (in genere autocarri convertiti) sono un modo economico per muoversi sull’isola. Gli autisti vi daranno il loro contatto WhatsApp – il modo di comunicazione preferito da molti a Bequia – così da poter organizzare anche la corsa di ritorno.

Dove Dormire

Bequia Plantation Hotel
A dieci minuti a piedi dai negozi e dai ristoranti di Port Elizabeth, ha diverse sistemazioni che vanno dalle luminose stanze nel corpo principale fino alle ville indipendenti private; ci sono anche un ristorante con servizio in spiaggia e giardini lussureggianti.
bequia plantationhotel.com

The Liming
Il motto è «l’arte del far nulla», ed è esattamente quello che rende questo resort, nascosto sul lato sopravvento di Bequia, un vero ritiro. Le villette per gli ospiti hanno piscine a sfioro, mentre il padiglione da pranzo all’aperto offre una vista ininterrotta sull’Oceano Atlantico – il posto perfetto per ammirarla gustando i cocktail della casa al frutto della passione e rum.
thelimingbequia.com

Maggiori informazioni

In apertura: Un tuffo dal pontile di Port Elizabeth, a Bequia, è un’abitudine molto amata.

Foto di Jérôme Galland

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