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Immaginare la gastronomia post-emergenza

Dialoghi sul futuro in un simposio virtuale organizzato dal Basque Culinary Center

Douglas McMaster- Credit Basque Culinary Center

Si potrebbe obiettare che prima di progettare l’automobile del futuro dovremmo capire di che carburante potremo rifornirla e quali strade potrà percorrere. È ciò che penso ogni volta che qualcuno si interroga su come saranno i ristoranti nel futuro post-Covid, quando ancora non abbiamo certezze sui protocolli di sicurezza implementabili per l’ormai imminente riapertura (la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, pochi giorni fa, ha presentato la sua proposta – un metro di distanza tra i tavoli, mascherine, ingressi differenziati per le entrate e le uscite – un protocollo redatto con la supervisione di un infettivologo: dettagli su www.fipe.it), e soprattutto sul bilancio economico di questo periodo: quanto abbiamo perso e chi si farà carico di defibrillare un settore (non l’unico) che ha bisogno di un’iniezione di liquidità e di concreti strumenti di protezione sociale per ripartire, prima ancora di pensare a se e come dovrà cambiare?

Il fatto è che ogni realtà è diversa e ciò che funziona per alcune (si veda l’efficacia dei pacchetti di sostegno stanziati dal governo in alcuni stati del Nord Europa e in Australia) non funziona per altre (si pensi all’epic fail dell’amministrazione Trump con i suoi fondi destinati alle grandi catene che sembrano aver dimenticato tutta la ristorazione indipendente). Alla luce di questo, interrogarsi sul “dopo” può aiutare se non a finanziare il “qui e ora”, almeno ad arrivare preparati al dopodomani e alle nuove emergenze che porterà. Nelle soluzioni a medio-lungo termine, forse, si possono cercare le chiavi per una maggiore resilienza e solidità (anche economica) di tutto il settore, vale a dire non solo la ristorazione ma anche gli altri anelli della catena gastronomica.

È stato un po’ questo il senso di “How is gastronomy facing the challenge of Coronavirus?”, la videoconferenza organizzata dal Basque Culinary Center con diverse personalità del mondo cibo, tra cui finalisti e vincitori del Basque Culinary World Prize (non a caso: le candidature sono attualmente aperte, fino al 1 luglio). Hanno parlato David Hertz di Gastromotiva, dal Brasile, Maria Fernanda di Giacobbe di Cacao de Origen, dal Venezuela, Elijah Amoo Addo di Food for All Africa e Chefs on Wheels, dal Ghana, Douglas McMaster di Silo, da Londra, Anthony Myint di Zero Footprint e Perennial Farming Initiative (vincitore del BCWP nel 2019), da San Francisco, per citare alcuni. Esperienze e background diversi, certo, ma convergenti verso due parole-chiave che dovremo stamparci in testa: “knowledge” (conoscenza) e “service” (servizio). Conoscenza intesa come ricerca, innovazione, formazione. Servizio inteso come solidarietà (“al servizio della gente”) e sostenibilità (“al servizio dell’ambiente”).

«Molti stanno reagendo velocemente, con la prospettiva della sopravvivenza a brevissimo termine, da qui alla settimana prossima, e anche quello è importante», ha riflettuto McMaster, autore di uno degli interventi più concreti e lucidi. Si riferiva ai molti colleghi che hanno riattivato le cucine in modalità delivery, qualcosa che il suo ristorante non ha potuto fare, per via del modello scelto. «Silo è completamente zero waste: non abbiamo container per i rifiuti perché non ne produciamo; per questo non abbiamo neanche packaging per effettuare il delivery. Comunque, anche disponendo di soluzioni sostenibili» – per esempio contenitori di plastica biodegradabile, un materiale su cui, dice, si dovrebbe investire di più, velocemente – «non avremmo materia prima da cucinare, perché ci affidiamo a una rete di piccoli produttori locali che in questo momento non effettuano consegne a Londra». Sostenitore da sempre della forza del pensiero innovativo, ha invitato a utilizzare questo momento di pausa per riflettere su come il ristorante si possa “decentralizzare” in maniera produttiva, attivando canali che vanno al di là della sala. Lui lo sta già facendo e ha annunciato il prossimo lancio di una piattaforma digitale di formazione su scienza e cultura dello “zero waste”, accessibile a tutti.

Di pensiero innovativo ha parlato anche il tristellato basco Eneko Atxa di Azurmendi, invitando a studiare soluzioni creative in prospettiva della riapertura, «per far sì che il fine dining – che è ben lungi dall’essere spacciato, come alcuni insinuano – possa riappropriarsi della sua funzione, nel rispetto delle norme da osservare. Quando ce le comunicheranno». Ha poi proseguito sottolineando l’importanza dell’impegno verso una sorta di “ammortizzazione ambientale” dell’attività gastronomica, direzione in cui già lavora da tempo (sta collaborando con l’università di Stanford per un protocollo agricolo che punta a produrre raccolti con impatto positivo sul climate change).

Sul riscaldamento globale è intervenuto anche Miynt, co-fondatore con Danny Bowien di Mission Chinese e oggi impegnato a convertire ristoranti e altri food business alla zero carbon footprint (ha anche lanciato un progetto di recupero della fertilità del terreno coltivato in California). «Il sistema agroalimentare si basa su un modello economico malato, che impoverisce l’ambiente da un lato, e dall’altro alimenta la vulnerabilità di chi ci lavora». Di persone ha parlato anche David Hertz, di Gastromotiva, raccontando come nelle favelas di Rio de Janeiro, e non solo, il lockdown sia controllato dal cartello della droga, e di come molti ristoranti nelle periferie siano rimasti aperti perché «la gente ha più paura di perdere il lavoro che del coronavirus». Con la sua organizzazione (a cui afferisce anche Refettorio Gastromotiva) ha convertito tonnellate di food waste in pasti distribuiti ai più bisognosi, contribuendo anche a formare nuovi cuochi e a sostenere i piccoli imprenditori. «Ora stiamo mantenendo una serie di solidarity kitchens organizzate nelle case di privati cittadini, tra cui molti studenti: forniamo loro la materia prima e gli paghiamo anche uno stipendio». Il suo sogno? «Arrivare a servire un milione di pasti al mese».

Simile l’esperienza di Elijah Amoo Addo (la sua organizzazione raccoglie, trasforma e redistribuisce il surplus alimentare della ristorazione): in Ghana il 40% della forza lavoro è impegnata nell’industria dell’ospitalità e l’emergenza ha messo a nudo l’estrema fragilità di tutto il sistema. «Molti dei cuochi da cui ci rifornivamo di derrate ora sono tra i destinatari dei nostri pasti di emergenza». Dal Venezuela Maria Fernanda di Giacobbe si chiede «come abbiamo fatto a non ribellarci per così tanto tempo a questo stato di cose? Potremo ancora permetterci di far viaggiare materie prime per migliaia di chilometri solo perché qualcuno possa cenare al ristorante? È normale che ci siano impiegati di organizzazioni no-profit a casa in lockdown senza potersi dar da fare? È giusto che ci siano centinaia di migranti che non hanno una casa dove rifugiarsi, o che alcuni contadini abbiano scelto di abbandonare il raccolto di pomodori sul ciglio della strada in modo che qualcuno almeno li possa mangiare?». La sua Cacao de Origen è un network a maglia fitta che partendo da una materia prima eccellente punta a creare conoscenza, consapevolezza e opportunità, soprattutto alle donne (anche Ebru Baybara, in Turchia, lavora per l’emancipazione imprenditoriale femminile, in seno alla comunità dei rifugiati siriani).

Prospettive diverse, come diverse sono le coordinate geografiche, culturali, economiche dei paesi “visitati” virtualmente nel corso della conferenza. Prospettive forse non sempre replicabili né scalabili, ma utili a dipingere il quadro di un settore che, per dirla con le parole di Miynt, «deve cambiare il proprio DNA economico, senza perdere di vista la responsabilità sociale, se vuole sopravvivere».

Chiudiamo con il monito di Diego Guerrero (DSTAgE, Madrid), che sta collaborando con la World Central Kitchen per il catering destinato al personale sanitario; lui invita a non essere precipitosi nella riapertura: «Potrebbe costarci più che restare chiusi, se non lo facciamo in maniera concertata e con la dovuta cautela».

nella foto: Douglas McMaster – Credit Basque Culinary Center