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Into The Woods

Cosa succede quando una celebre chef e una star della macelleria come Angie Mar e Pat LaFrieda vanno a caccia di anatre in Arkansas? Una memorabile giornata di bourbon e cucina a fuoco vivo.

into the woods

Rusty Creasey sta parlando ai germani reali. Venite giù, mi immagino che dica. Date un’occhiata a questa radura tra le alte querce. C’è riso; c’è ombra. I vostri amici sono qui – mente – mangiano e sono felici. A volte sembra l’uomo che sussurra agli uccelli acquatici, altre volte urla loro striduli richiami. Stamattina, mentre il giorno si avvicina gradualmente ai Coca-Cola Woods, 400 ettari di spettacolari paludi boschive, una favolosa riserva privata solo su invito nota agli iniziati per essere uno dei migliori terreni di caccia alle anatre selvatiche di tutto il Sud, il richiamo del capo guida è lamentoso e struggente. Un suono basso e rauco: sembra la canzone “Quack Quack Quack” di Paperino, però cantata da Blind Willie Johnson.

Per lungo tempo non succede nulla. I cacciatori, con i fucili a pompa rivolti verso il cielo ancora scuro, sono vigili, immobili, attenti a non formare neppure un’increspatura sull’acqua nella quale sono immersi fino alle cosce. È dicembre e fa freddo, anche se nessuno di noi se ne accorge, isolati come siamo dai cosciali e riscaldati dall’adrenalina. Tutta l’attenzione è diretta ai richiami sempre più incalzanti di Creasey. Finalmente ottengono risposta. I germani reali arrivano in fretta, sbattendo le ali per rallentare la loro discesa, le zampe protese verso il basso per l’atterraggio. Al momento giusto, Creasey dà il via libera.

La caccia alle anatre selvatiche, per chi non lo sapesse, non è sempre così ravvicinata ed emozionante. «Quando ti trovi in mezzo a un campo, spari agli uccelli da 70 metri di distanza. Quando invece sei appostato come oggi, ti atterrano proprio addosso», racconta John Dobbs Jr., l’uomo d’affari di Memphis che ha acquistato la proprietà otto anni fa. «Conosco persone di 95 anni che vengono da me con le lacrime agli occhi. Dicono: “John, ho cacciato per tutta la vita e non ho mai visto una cosa del genere”». A proposito del nome: i primi proprietari della tenuta erano anche proprietari dello stabilimento locale di imbottigliamento della Coca-Cola. Qui intrattenevano soci e clienti in affari, e il nome è rimasto. «È la quantità di anatre» il motivo della sua fama, continua Dobbs, «ma anche il modo in cui ti puoi davvero immergere nel loro ambiente». È un luogo a cui non molti cacciatori hanno accesso. «Non sembra neanche vero», ha osservato un commentatore su duckhuntingchat.com, aggiungendo: «Darei un rene per una caccia mattutina laggiù».

Ci siamo diretti all’alba nella terra delle anatre selvatiche non solo per sport ma anche per comprendere e celebrare tutto lo splendore, la gloria e l’importanza di questi bellissimi uccelli selvatici, onorandoli anche nel momento del cucinarli. «Non sono esattamente una persona mattiniera», dice la chef di Manhattan, Angie Mar. Eppure eccola qui, immersa nell’acqua in un paio di stivaloni verdi, con i capelli che ricadono sulla sua tuta mimetica, mentre trasporta felice alcune anatre fino alla piccola imbarcazione che ci riporterà al campo base.

McCrory, Arkansas, si trova circa 2.000 chilometri a sud-ovest di The Beatrice Inn, il ristorante di Mar, ospitato in un grazioso edificio di mattoni nel West Village, a New York. In questa townhouse del XIX secolo illuminata da candele, la chef serve caviale russo su brioche al burro e bistecche marinate nel whisky da mille dollari, cotte al momento. C’è un gap topologico tra quella realtà e il luogo in cui ci troviamo, e il ponte tra i due è il comune desiderio primitivo di avvicinarci agli animali che mangiamo. Una cosa è mettere il nome di una fattoria o di un fornitore su un menu; un’altra viaggiare verso un luogo preciso per partecipare in prima persona all’atto di strappare queste creature dal cielo, per aiutare a rintracciarle, ucciderle e cucinarle nel luogo da cui provengono.

«Da piccola, a Seattle, andavo a sparare al poligono con mio padre e i miei fratelli», dice Mar, «ma non ero mai stata a caccia prima d’ora. In cucina, io utilizzo l’animale intero. Niente va sprecato. Ho fatto impagliare l’enorme testa del cervo che ho servito al critico Pete Wells quando ho aperto il ristorante, è appesa all’ingresso del mio appartamento. Ho chiesto spesso a Pat, che ha ucciso quel cervo, di portarmi a caccia, ma lui diceva che sarei stata sicuramente mangiata da un orso».

Pat è Pat LaFrieda, macellaio di quarta generazione e Ad di Pat LaFrieda Meat Purveyors che è qui con noi nella palude. Cacciatore esperto, è responsabile di alcuni degli abbattimenti di questa mattina (a differenza del vostro intrepido corrispondente, che è riuscito a inceppare la sua arma caricando le munizioni al contrario). Cacciare nei Coca-Cola Woods è una questione di conoscenze. Nel nostro caso, siamo qui perché LaFrieda è amico di Trey Zoeller, fondatore di Jefferson’s Bourbon, che a sua volta conosce un amico di Dobbs. Zoeller è un loquace nativo del Kentucky che è stato definito sia ”il Marco Polo del bourbon”, sia “l’eretico”, per la sua propensione a posizionare i barili dei suoi giovani bourbon in situazioni ad alto rischio – su una nave fluviale schiaffeggiata da tempeste tropicali, ad esempio, o nella stiva di un mercantile durante viaggi lunghi anni in acque equatoriali – allo scopo di comprendere come i cambiamenti di temperatura e il continuo rollio influenzino il processo di invecchiamento.

A un certo punto Zoeller aveva proposto a Dobbs di sistemare un barile di bourbon in un nascondiglio per la caccia alle anatre, lasciandolo lì per un paio di umide estati e cupi inverni – solo per vedere che effetto avrebbe avuto sul whiskey. Nel frattempo, LaFrieda e Zoeller avevano iniziato a parlare di andare a caccia insieme e anche di lavorare a una linea di bistecche con il marchio Jefferson, ricavate da animali nutriti con i residui del processo di produzione del whiskey («un frullato proteico per il bestiame», lo definisce Zoeller).

Ora che il bourbon di Zoeller aveva passato due anni nascosto nella palude, era venuto il momento di aprirlo: una buona scusa per andare anche un po’ a caccia. E se hai a disposizione abbondante whiskey americano e anatre selvatiche, la cosa più logica è invitare anche una chef che sa come trattare entrambi ed è pure un’esperta di braci e di cucina in condizioni estreme, che è esattamente la situazione in cui ci troviamo ora, in mezzo a questi boschi paludosi, all’alba, con un mucchio di germani reali appena abbattuti e un barile misterioso.

Questa è una storia di caccia, di bevute e di cucina all’aperto. Ma il protagonista invisibile, l’elemento che lega tutte le storie che compongono questa narrazione, è tanto onnipresente quanto sottovalutato: la legna. È ovunque, ma non sempre riceve il giusto credito. Questa è, in realtà, una storia sulla legna: gli alti alberi, che sono un nascondiglio ideale per i cacciatori e una trappola invitante per le loro prede; le nuove botti annerite di rovere bianco che trasferiscono al bourbon le sue sfumature caramellate e il profumo del bosco; il fumo di legna e di vite che Mar utilizza per accentuare sapori che non sapevi nemmeno che una bistecca o un uccello intero potessero avere.

Creasey ci guida, su una piccola barca, lungo sentieri acquatici fino a un minuscolo capanno nei pressi di una radura affollata di esche galleggianti. Zoeller trova il suo barile, vi pratica un foro e ne estrae un whiskey di mais del colore dello sciroppo d’acero. «Niente male», dichiara assaggiandolo puro, prima di portarlo alla giusta gradazione con l’aggiunta di un po’ d’acqua. «È un bourbon di due anni che, dal sapore, sembra ne abbia sei. L’umidità lo fa penetrare nel legno».

Nel frattempo, in un campo vicino al lodge, Mar e LaFrieda hanno costruito una grande griglia improvvisata a forma di A con tronchi di betulla e si stanno preparando per il principale evento culinario del giorno, una grande festa intorno al fuoco. Utilizzando la presa del mattino, la cena sarà a base di stufato del cacciatore con cosce d’anatra e fagioli cannellini, petto d’anatra con caramello al brandy e mela, e tartiflette (oltre ad alcuni ingredienti ispirati all’approccio “senza esclusione di grassi” di The Beatrice Inn: costate di manzo dry aged di LaFrieda, burro al tartufo, salsa al vino rosso, lumache e zamponi di maiale).

Nel suo ristorante, Mar offre bistecche e braciole affumicate a freddo su fuoco acceso con vecchie viti nodose, come la garnacha a combustione lenta della Spagna e il pinot meunier della regione dello Champagne (particolarmente adatto alla côte de boeuf). Nello spirito della giornata, ora sta affumicando le costate di manzo e le anatre selvatiche, appese alla struttura improvvisata, sopra a un fuoco alimentato dalle doghe di un barile di bourbon fatto a pezzi. «I diversi sapori di questi boschi mi piacciono tantissimo», dice. «È il terroir del legno. Da quando ho appreso che la vite e il legno potevano essere considerati ingredienti, ho davvero cambiato il mio modo di cucinare».

Mentre le anatre e le bistecche ondeggiano, assorbendo il fumo, il whiskey invecchiato in palude inizia a scorrere. Mar serve un paté di fegato d’anatra preparato con lo Champagne, inspiegabilmente leggero, nonostante contenga una quantità indecente di burro fuso profumato alla salvia. «A volte penso di avere un anziano francese intrappolato nel mio corpo», dice lei a proposito della sua intransigente propensione per le ricette classiche. Le anatre selvatiche la rendono incredibilmente felice. Quindi, per citare i fratelli Marx: perché un’anatra? «Si dice che “del maiale non si butta via niente”», dice Mar. «E io sono d’accordo, ma la stessa cosa vale anche per le anatre selvatiche. Contengono il rapporto perfetto tra parti grasse e magre, il che significa molto grasso. E il grasso d’anatra è straordinario». «Se potessi scegliere un solo tipo di volatile da mangiare per il resto della mia vita, quale sarebbe?» si chiede Mar, una domanda retorica ovviamente, mentre i fuochi ormai languiscono e il bourbon lascia il posto al Barbaresco. «Fagiano? Lasciamo perdere. Piccione? Scusate, ma posso vivere senza. Pollo? Ma il pollo è una verdura. Anatre selvatiche? Le anatre sono magiche».


foto di William Wereford