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Campania Stories

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La Campania che affascina dalle falde del vulcano

I bianchi della regione, arricchiti dalla mineralità dei suoli vulcanici, risultano sempre più intriganti e attraggono l’attenzione sui mercati internazionali. Tra i rossi, oltre alla conferma del piedirosso, torna l’aglianico dei Campi Taurasini

Sotto la città e il golfo di Napoli si nasconde il super-vulcano dei Campi Flegrei, dal quale deriva gran parte del suolo vulcanico nel territorio campano. Da lì viene infatti l’ignimbrite disseminata in buona parte della regione, mentre due devastanti fenomeni eruttivi sono all’origine anche dell’esteso deposito di tufo che ricopre l’intera piana campana.
È in questo sostrato geologico che affondano le radici i vigneti che oggi, con sempre maggiore convinzione, si affacciano sui mercati internazionali riuscendo a conquistare winelover e palati più tecnici. E se da un lato i vini rossi campani scontano spesso gli effetti del cambiamento climatico, dovendo fare i conti con potenze difficili da controllare, e talvolta il retaggio di pratiche enologiche invasive (negli affinamenti), i bianchi sembrano invece ricavarsi una posizione sempre più interessante.
È vero, quella dei vini “vulcanici” è una non-categoria nel panorama enoico, tanto quanto quella dei vini “marini”. Eppure, proprio perché la tendenza oggi dominante è quella di valorizzare in cantina le peculiarità che la vigna esprime in relazione al terreno, la presenza di suoli vulcanici offre l’opportunità di scoprire identità specifiche. Al di là delle mode e dello storytelling fine a se stesso, la derivazione da un sostrato eruttivo o esplosivo porta nel calice tre caratteri salienti oggi percepibili in molti vini all’assaggio annuale di Campania Stories: un’acidità elegante che dona longevità, sfumature sapide e rocciose che vengono spesso definite minerali, ma anche note idrocarburiche nell’evoluzione (che richiamano comparazioni con altri grandi bianchi del mondo). A tutto questo si deve aggiungere l’altro ingrediente essenziale dei grandi vini: il tempo. Perché se in passato si cercavano note fruttate e spinte profumate, oggi la tendenza del consumatore consapevole è rivolta a una maggiore complessità. Ecco che da diverse aree della Campania i vulcani (attivi o estinti) giocano un ruolo essenziale per dare forma a bianchi eccellenti, soprattutto da vitigni autoctoni, che mescolano l’audacia alla profondità, con note fresche e minerali che hanno la setosità scabra delle sabbie vulcaniche. Assaggiare molti vini campani significa allora affondare con i sensi tra storia e terra, senza filtri. In aree vulcaniche, ma pure nel casertano dove l’asprinio dalle alberate e il pallagrello bianco (con l’artista Alois a scommetterci) sono bianchi di bella tessitura.

La conferma della falanghina

Tra le espressioni “vulcaniche” più interessanti c’è senza dubbio la falanghina, uno dei vitigni bianchi più antichi e intriganti in Campania. I vini sono considerati freschi e fruttati, con una caratteristica acidità unita alla nota sapida, ma andando lunghi nel tempo – soprattutto nei Campi Flegrei – lasciano emergere note idrocarburiche e un’eleganza comparabile ad alcuni grandi vini del mondo. E la mano dei produttori, su un’uva spesso sottovalutata in passato, ha saputo accompagnare un’evoluzione che porta a emergere la personalità forte del vitigno. Esplorando i Campi Flegrei meritano un assaggio le etichette a base di Falanghina di Cantine del Mare, di Cantavitae e (con affinamento più lungo) di Astroni, tutte caratterizzate da sapidità e bella tensione, ma anche i vini eroici di Agnanum e quelli di Portolano Mario, che coniugano al sale una venatura di dolcezza. Nel Sannio il 2022 mostra buoni spunti da Di Meo, Vesevo, Fontanavecchia, Fontana Reale e Mustilli (che migliorano scivolando al 2021), ma anche con il Senete del big La Guardiense. Elegante e solido il Vigna Carracci di Villa Matilde Avallone nella Dop Falerno del Massico.

Sotto il vulcano

Tra sabbie impalpabili sollevate dal vento e lingue di solidificata, tra rocce nere e sabbie porfiriche, sulle falde del Vesuvio le viti si inerpicano e portano in cantina uve che hanno il respiro del vulcano. La varietà autoctona da approfondire è il caprettone, che di recente ha trovato interpreti capaci di lasciarsi alle spalle le semplificazioni per far emergere una maggiore complessità, che evolve con il passare del tempo in bottiglia. Ecco allora espressioni intriganti che, dal versante sud, portano nel calice Casa Setaro – con i bianchi fermi e con le eccellenti spumantizzazioni metodo classico – e Bosco de’ Medici, che osa moderatamente nel Pompeii e poi spinge sulle macerazioni in anfora con il progetto Dressel 19.2. Molto interessante anche l’elegante Summa di Cantine Olivella.

L’eleganza del fiano di Avellino

Tra le varietà autoctone, il fiano è noto per l’eleganza e la ricchezza di profumi, ma oltre al bouquet aromatico la freschezza al palato è ancora una volta legata a una presenza di antichi suoli vulcanici. Quando non viene appesantito dal legno, ha una spinta verticale che sfida il tempo. Salvo qualche calice capace di incuriosire da Sannio e Cilento (come il Licosa 2021 di Colle del Corsicano), è il fiano di Avellino a dominare la scena. Il maestro di cerimonia per la sua celebrazione è senza dubbio Roberto Di Meo, che nella piccola cantina di famiglia gioca di acciaio e lunghi affinamenti in bottiglia, portando sul mercato piccoli capolavori come Alessandra o Erminia, senza nulla togliere al fiano di Salza Irpina. Tra gli altri assaggi da segnalare spiccano anche Colli di Lapio 2022 e Donnachiara 2022, le cui linee dolci tornano anche arretrando al 2007, così come si affina nel tempo il Pietracalda di Feudi di San Gregorio. Nei fiano dell’annata 2021 emerge maggiormente il legno, come con Amarano (bene anche il Dulcinea 2016) e Tenuta Cavalier Pepe, mentre arretrando al 2020 (e oltre) merita un assaggio il Pietracupa.

La roccia e la storia nel greco di tufo

Anche il greco di tufo porta nel nome la roccia di antica derivazione vulcanica e accosta sentori intensi di agrumi e fiori gialli a note minerali, acide e complesse. E proprio su questo vitigno si concentra la ricerca di un carattere spiccatamente floreale in gioventù, per poi scoprire con la permanenza in bottiglia un’evoluzione che richiama il sottosuolo. Tra gli assaggi più intriganti ci sono i fiano 2022 firmati dalla storica Cantine di Marzo, che nelle grandi sale scavate nel tufo estrae vini di personalità, da Sanpaolo e da Di Meo; scendendo al 2021 e 2020 emergono il Cardenio di Amarano, il Grancare di Tenuta Cavalier Pepe, il Terrantica dei Favati e il 420 di Petilia. Approfondendo in verticale nelle annate più lontane, i Greco 2009 di Petilia, Donnachiara e Cantine dell’Angelo conquistano per la tensione acida e minerale, il Pietracupa 2006 e il Cutizzi di Feudi di San Gregorio 2003.

Piedirosso, pallagrello e il ritorno dell’aglianico

Se tra i vini made in Campania capaci di raccontare con maggiore intensità la storia di magmi e lapilli si scelgono i bianchi, questo non significa che rosati e rossi debbano esser dimenticati. Sul fronte rosé, in particolare, va riconosciuto il gran lavoro dei produttori che – in generale – hanno saputo costruire una bella qualità con prodotti identitari. Difficile citarli tutti, ma meritano un assaggio il Campanus di Caputo 1890, il Rosa Canina di Vigne Chigi, il Vetere di San Salvatore 1988 (ottimo anche il metodo classico Gioì), Incantesimo Rosa di Rossovermiglio, il Munazei rosato di Casa Setaro e l’inatteso Lady Pink di Cantine Tora. Tra i rossi, si conferma l’interessantissimo Piedirosso – croccante e nervoso, giovane e scattante – con predilezione per le etichette di Bosco de’ Medici (con l’ottimo Agathos), Astroni, Carputo, Agnanum e l’immancabile eleganza di Cantine del Mare. Tra gli altri vitigni meno frequentati, meritano una menzione il Lacryma Christi del Vesuvio 2022 di Casa Setaro e le piacevoli espressioni di Pallagrello Nero firmate da Masseria Piccirillo (eccellente), Cantina di Lisandro e Sclavia. Dagli assaggi di Campania Stories emerge invece un ritorno in forma (parziale) dell’aglianico, per troppo tempo appesantito da legni invadenti e concentrazioni eccessive. E non è nemmeno una questione di annata specifica o di territorio, perché la qualità emerge trasversalmente: dal Furore Rosso Riserva 2019 di Marisa Cuomo (blend a metà di Aglianico e Piedirosso) al Camporoccio 2021 di Porto di Mola (Aglianico in purezza. Nel Sannio si percepisce ancora una certa fatica nella beva, con Vesevo e Fontanavecchia capaci di una maggiore eleganza nonostante l’emergere del legno, e il mondo Taurasi è ancora ardito da affrontare. La vera riscossa viene invece dall’Irpinia. Tra le etichette di Dop Campi Taurasini si beve senza affaticarsi da Tenuta San Gregorio, Barbot Stefania, Villa Raiano e Tenuta del Meriggio. Tra gli Igp Irpinia Aglianico spiccano invece il 2020 di Ferrara Benito, i 2019 di Vinusco e Pietracupa, i 2018 di Fiorentino e Petilia.

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