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Venezia

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La profonda leggerezza di Riccardo Canella

L’ex sous-chef del Noma ha (ri)trovato a Venezia, alla guida del ristorante Oro del Belmond Hotel Cipriani, le sue radici e la sua identità, tra stratificazioni culturali, omaggi ai maestri e attenzione al benessere della squadra.

Unde origo, inde salus: “dall’origine viene la salvezza” è il motto inciso al centro della rotonda maggiore della Basilica di Venezia ma è anche la dichiarazione d’intenti che apre il prezioso menu cartaceo di Oro, il ristorante stellato del leggendario Belmond Hotel Cipriani sull’Isola della Giudecca. Qui nell’estate 2022 è approdato, di ritorno dal Noma di Copenhagen, il padovano (di Mestrino) Riccardo Canella, classe 1985, ma la vera stagione di esordio alla guida di questo complesso sistema di outlet – che comprende anche il più casual Porticciolo, il tradizionale e panoramicissimo Cip’s Club e l’all-day dining Bar Gabbiano – è stata la primavera 2023. 

A Venezia – «l’unico posto possibile dove tornare alle mie radici» – Canella sta esprimendo la sua filosofia di “profonda leggerezza”: andare in profondità per riportare in superficie leggerezza e libertà. È una cucina molto personale, stratificata, coloratissima, dall’iniziale Smascherato – un cracker con alga e miso di polenta ricoperto di fiori ed erbe del giardino del Cipriani che è un invito pirandelliano a levarsi la maschera e stare da subito al gioco – all’In-contraddizione, folgorante pasta corta mista gragnanese con salsa di peperone affumicato, alici e capesante – un omaggio all’Italia in sé e un incontro-contraddizione tra le tradizioni di pasta – fino al Rombo dell’Adriatico Bronsa Querta, “brace coperta”, espressione che indica una personalità vivace dietro una calma apparente. 
In ogni piatto, sempre e comunque, il riscontro e la centratura del gusto: «Per non dover sempre spiegare il percorso creativo che c’è dietro. Voglio che l’ospite si diverta, che stia bene, poi sta alle persone decidere il livello di profondità e connessione che vogliono avere». 

Come hai costruito il nuovo menu e i due percorsi degustazione?

«Prima di iniziare il mio lavoro a Venezia ho voluto studiare, capire meglio la storia e le stratificazioni che si sono create anche a livello culturale. Sto leggendo molti libri alla Biblioteca Marciana, trattati di medicina in cui già nel 1400 si parla dei benefici delle spezie, tant’è che il mix di spezie che utilizzo in cucina è un omaggio alla lunga tradizione della città. Nel menu cartaceo c’è molto di Manuzio e della sua eredità editoriale, e c’è un’illustrazione della mandragola, una pianta molto usata dagli alchimisti e presente nei testi esoterici, che noi abbiamo preso dal primo erbario veneziano, che è anche uno dei primi al mondo. Ho scelto quella precisa citazione, Unde origo, inde salus, perché rappresenta anche la mia rinascita, il mio modo di ricominciare. Ecco perché il primo percorso si chiama Nuova Primavera: è la mia nuova stagione, il ritorno alle mie radici, l’evoluzione in cui creo il mio personale linguaggio gastronomico qui in Laguna. Ma ho pensato anche ai movimenti della Primavera di Vivaldi per la costruzione del menu. L’altro percorso, Vegetum, esprime il significato latino del termine, cioè vigoroso. È la nostra visione vegetale della laguna espressa con profondità di concetti e di gusto. Tutto quello che facciamo vuole avere un senso, non è solo un esercizio di stile, le cose devono avere complementarità, come una scaletta di un concerto».

A proposito di stratificazioni, hai creato un piatto, Riso, alloro e zafferano, che è una mirabile sintesi dei tuoi tre maestri. 

«È un omaggio a Marchesi, Alajmo e Redzepi, una stratificazione di passato, presente e futuro. C’è lo zafferano, portato a Venezia dagli arabi, che dopo un lungo giro arriva a Milano. C’è l’oro ma è nascosto sotto, perché solo il Maestro poteva mettere la foglia d’oro sopra. C’è l’alloro che ricorda la balsamicità della liquirizia del risotto di Alajmo. E ci sono il pesto di polline e rosa e le prugne fermentate, omaggio a Redzepi. È un piatto di cucina italiana che vuole rimanere nel tempo e che dimostra tanto quello che sono».

Cosa hai interiorizzato da questi tre grandi chef con cui hai lavorato?

«Di Marchesi la professionalità e il rispetto delle materie prime, l’essenzialità delle cose, la capacità di levare il superfluo e portare la verità delle cose a galla. Di Alajmo il suo essere bambino, la componente ludica della sua cucina, il suo non prendersi troppo sul serio: io mi definisco un cuoco di campagna e sono orgoglioso. Di Redzepi la capacità di vedere possibilità dove le altre persone vedono limiti. È grazie a René che ho conosciuto davvero me stesso».

E perché allora sei andato via dal Noma e hai scelto un ristorante d’hotel?

«Sarei potuto rimanere lì a creare per lui, avevo un lavoro molto desiderato in uno dei migliori ristoranti al mondo. Ma avevo bisogno e urgenza di comunicare quella che è la mia cucina, di fare un’evoluzione, magari anche sbagliando e facendo vedere le mie debolezze, ma imparando dai miei errori e mettendomi in gioco. Oro è aperto solo dallo scorso anno e sono già orgoglioso del risultato e della squadra che ho messo insieme. So come lavoravo prima e so quali sono le mie ambizioni. Per anni sono andato a mille, ora si tratta di fare qualche passo indietro per poi rifarlo in avanti. È una sfida continua ma mi sento vivo tutti i giorni. Molte persone non si aspettavano che dal Noma sarei potuto venire in un hotel. Ma penso che oggi ci possa essere molto più futuro in un progetto così, perché ha alle spalle una struttura più solida ed è più sostenibile di un ristorante». 

Cosa vuol dire sostenibilità oggi?

«Non riguarda solo il rispetto dell’ambiente e la solidità economica ma soprattutto il benessere del personale. Vuol dire ridurre le ore di lavoro, così da consentire alle persone di avere più tempo e passioni anche fuori dal ristorante e di essere felici di quello che fanno, e dare un giusto stipendio. Noi paghiamo tutte le ore di straordinari, ad esempio». 

Abbiamo inserito Venezia tra le nuove (intese anche come evolute) città del cibo sul nostro numero speciale estivo Italianissimo, cosa pensi di questo cambiamento?

«Penso che Venezia stia vivendo un gran momento e sta avvenendo un po’ quello che è avvenuto a Copenhagen. Nel nostro piccolo stiamo facendo una rivoluzione a livello non solo gastronomico ma anche culturale. Tanti ragazzi e ragazze che sono tornati dopo anni di esperienze all’estero, come me, mettono a frutto il loro nuovo know-how, vedono le cose in modo diverso, capiscono la bellezza e il potenziale. Venezia rimarrà comunque super turistica, con uno strato di superficialità, e ci saranno sempre persone che sceglieranno un tipo di turismo mordi e fuggi che non dà niente alla città. Per questo è importante far nascere progetti che la rendono più vera e più viva. Penso a Venissa, che è diventato un punto di riferimento, alla cucina di Ascanio Donati al Glam o a quella del Local, ai ragazzi di Bacan e di Vino Vero. Ma anche alle trattorie storiche, come da Bepi già 54, di cui ho grande rispetto: è importante creare amalgama tra vecchio e nuovo senza per forza contraddire la tradizione». 

E nel futuro tuo e di Oro cosa vedi?

«Voglio implementare la ricerca in ogni dettaglio, come ad esempio le ceramiche e il portaposate creati apposta per noi, e la presenza di arte in sala. Ci siamo ritrovati il nome “Oro”, non l’abbiamo scelto e per me va ben oltre il suo significato di “oro benòn” (che in veneziano sta per “ottimo”, “perfetto”, ndr), mi riporta al concetto di preghiera orale, di creazione alchemica. Quando sono arrivato ero nel caos e ora sto cercando di creare qualcosa di magico. Voglio esprimere quello che ho dentro e trasmettere la mia identità in modo comprensibile, senza atteggiamenti onanistici. Sono stato accolto dal ventre di Venezia, mi ha dato tanto e ora voglio restituire tutto questo in un luogo aperto e accessibile a chiunque abbia intenzione di connettersi con il nostro universo». 

Maggiori informazioni

In apertura: Riccardo Canella

Leggi anche: Venezia – Le nuove città del cibo (Italianissimo 2023)

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