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Gli Svitati (1)

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La sfida del tempo per il tappo a vite

Franz Haas, Graziano Prà, Jermann, Pojer e Sandri e Vigneti Massa invocano il riconoscimento delle chiusure tecniche anche in tutti i disciplinari delle denominazioni.

Chi ha paura del tappo a vite? Se lo chiedono quei cinque “matti” del vino che da tre d’anni hanno deciso di lanciare una provocazione e di dare vita al progetto Svitati, che oggi coinvolge le aziende Franz Haas, Graziano Prà, Jermann, Pojer e Sandri e Vigneti Massa.

La domanda dell’incipit non è peregrina, perché oggi i cinque produttori in maniera più rumorosa, e molti altri nel silenzio delle proprie cantine, si chiedono come sia possibile che in alcuni disciplinari delle denominazioni italiane il tappo a vite subisca ancora un ostracismo radicale. Un nodo legittimamente problematico perché, se le chiusure oggi disponibili sul mercato e garantite sotto il profilo tecnico sono molteplici – sughero, tappi tecnici, tappo a vite, tappo corona e tappo in vetro –, la regolamentazione impedisce talvolta al singolo produttore di adottare quella che preferisce. Ecco allora l’accusa di conservatorismo che viene dagli alfieri dell’alluminio rispetto all’attaccamento preconcetto al sughero.

Chiusura per preservare il vino

Il primo a utilizzare il tappo a vite sui propri vini di punta è stato Silvio Jermann. «Dopo aver investito soldi, energie, pazienza per portare in bottiglia il miglior vino che potessi produrre – chiarisce l’antesignano – non potevo accettare di metterlo a rischio con tappi che non garantissero una omogeneità di tenuta. Abbiamo provato diversi tipi di chiusure, ma alla fine la tenuta migliore la garantisce il tappo a vite».

È proprio questa la linea degli Svitati. «Questa chiusura è in grado di preservare al meglio il vino – proclamano i produttori – mantenendo quelle qualità organolettiche tanto ricercate e protette. Oltre ad evitare spiacevoli alterazioni nel gusto e nel profumo, permette una sigillatura perfetta, un’evoluzione corretta e una migliore conservazione». Perché l’esperienza ha insegnato ai vitivinicoltori che il sughero può esser meraviglioso, ma allo stesso tempo non garantisce omogeneità e ogni bottiglia può esser differente dall’altra – non necessariamente il cosiddetto “difetto di tappo”. E anzi, secondo gli Svitati il sughero di oggi non è più quello di una volta e non riuscirebbe a competere con le chiusure tecniche.

«Il tappo a vite permette di avere una omogeneità qualitativa delle bottiglie, anche quando si stappano vecchie annate – chiosano gli Svitati – eliminando inoltre il problema delle bottiglie fallate, un segno di attenzione verso coloro che se ne verseranno un calice e per tutti i professionisti coinvolti nella filiera».

In effetti, l’affinamento sembra essere uno dei punti di forza anche per la vite: «È spesso ritenuto, sbagliando, che le chiusure tecniche con basso oxygen transmission rate vadano bene solo per i vini giovani, quando invece è dimostrato come le differenze tra le chiusure diventino più evidenti nei lunghi invecchiamenti», riferisce il professor Fulvio Mattivi della Fondazione Mach, che ha sviluppato studi comparativi delle vecchie annate tra tappo in sughero e tappo a vite.

Proteggere il lavoro in cantina

Ecco perché i paladini del tappo a vite hanno ormai trasformato una scelta tecnica in una filosofia di vita. «Continue sperimentazioni, degustazioni di confronto, molti scambi di informazioni e bottiglie con i colleghi, non tutti svitati, ci hanno portato alla chiusura più performante, neutrale, sostenibile, pratica», sottolinea dal Trentino Mario Pojer. E dalla terra del Timorasso Walter Massa, che oggi chiude tutti i suoi vini con tappo a vite, proclama: «In vigneto così come in cantina usiamo la massima attenzione per produrre vini puliti, nella vita di tutti giorni usiamo tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione. Perché per tappare una bottiglia dovrebbe essere diverso? Abbiamo a disposizione una chiusura moderna, che rispetta il vino e i consumatori e che ne mantiene perfetta la conservazione. Usiamola».

In effetti gli studi della Fondazione Mach hanno dimostrato che le differenze di prestazione tra le diverse chiusure tecniche si riflettono in maniera evidente dal punto di vista chimico analitico sul profilo aromatico dei vini e, solo nel caso di differenze di ingresso di ossigeno importanti, anche nel profilo sensoriale. «Sta quindi all’enologo – specifica dunque Mattivi – in una ottica di enologia di precisione, scegliere l’abbinamento tappo/chiusura in funzione delle caratteristiche del vino, della lunghezza dell’affinamento previsto in bottiglia, ed assecondando lo stile evolutivo desiderato».

Consumatori in evoluzione

Cosa frena allora l’avvento del tappo a vite? Da un lato l’approccio culturale e tradizionale al vino, per cui in Paesi storicamente produttori come Italia e Francia c’è una considerazione sminuente delle chiusure tecniche. E il sommelier si sentirebbe svilito dallo svitare anziché estrarre il monopezzo di sughero.

Il cambiamento però è in corso. E non solo perché a Londra nessuno si pone il problema della chiusura, ma si preoccupa della qualità del vino – come riferisce Oscar Mazzoleni maître e sommelier del Carroponte a Bergamo – ma anche perché i consumatori giovani, anche italiani, sono sempre meno legati a stereotipi e preconcetti. Se ordinando un riesling della Mosella nessuno si stupisce di spendere oltre 100 euro per una bottiglia con tappo a vite, perché mai un vino italiano con la stessa chiusura dovrebbe stare negli scaffali di un supermercato? Per capirne di più, vale la pena di assaggiare lo strepitoso Barolo con tappo a vite di Ettore Germano.

Forse il ritorno al calice è la risposta, perché il vino – chiuso con sughero, vetro, alluminio – deve esser buono. E non è la chiusura che ne garantisce la qualità, nemmeno quella a vite.

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