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Luci e ombre della Social Gastronomy

Ryan King si interroga sul futuro del più dirompente movimento legato al cibo, in tutte le sue forme

Quando mi hanno telefonato per invitarmi a Miami a un evento legato a un nuovo movimento sull’alimentazione, ero piuttosto restio ad accettare. Vedete, i movimenti sono bastardi imprevedibili: fuori dagli schemi, sono uragani sociali abbastanza potenti da sconvolgere intere comunità, e non vanno presi alla leggera. Un movimento di spessore potrebbe mandare in frantumi persino le vostre convinzioni più radicate; uno appena credibile potrebbe far crollare i modelli culturali che per anni sono stati il vostro punto di riferimento. I migliori, almeno quelli che io considero i migliori, sono in grado di spazzare via odio, ignoranza, bigotteria e pregiudizio, di metterli a nudo lasciandoli con nient’altro che un’argomentazione obsoleta per difendersi dal “cosiddetto progresso”. Quello della nutrizione era una tema che non avevo mai associato al concetto di movimento, per me strettamente legato a #CivilRights, #Anti-Apartheid, #LGBQT, #HumanRights. Nei giorni in cui ho ricevuto l’invito non si parlava di altro che di #MeToo, il movimento che in breve tempo era diventato una gigantesca macchina da guerra in grado di distruggere senza pietà qualunque bersaglio. Aveva abbattuto Harvey Weinstein e Mario Batali – annientando i loro libri paga e i loro giochetti di potere da predatori. Da Hollywood a Bollywood nessuna istituzione si era potuta sottrarre all’esame scrupoloso condotto da un hashtag a cui nulla sfuggiva. Ogni padre, madre, figlio, figlia, capo, leader e amante in qualche modo si erano interrogati sul tema del sessismo. 

Il #MeToo è il migliore esempio di come debba essere un movimento, il punto di arrivo di gruppi organizzati in modo approssimativo che dopo anni convergono su un semplice obiettivo condiviso e sostenibile: l’uguaglianza. Una combinazione di ideologie ormai storiche: femminismo, suffragette, parità di diritti, difesa dell’identità sessuale maschile e femminile. Ma pensando a questo mi chiedevo: un movimento dedicato al mondo della nutrizione aveva davvero ragione di esistere? Oppure si trattava soltanto di un gruppetto di idealisti che volevano attribuire al cibo più significato di quanto meritasse? Una settimana dopo ero a Miami per scoprirlo. Alla mia destra, l’ex-Ministro dell’Istruzione argentino, alla mia sinistra, una chef con una precisa missione: rivoluzionare i programmi istituzionali sulla nutrizione, domandando «cosa succederebbe se i pasti ospedalieri favorissero veramente il processo di guarigione?». Di fronte a me, un partecipante curdo raccontava come in Medio Oriente venga messa in atto una forma agghiacciante di terrorismo legato al cibo, spiegando che «quando la gente ha fame è molto più probabile che aderisca all’ISIS». I gruppi terroristici, non appena conquistato un nuovo territorio, prendono il controllo immediato dei rifornimenti alimentari per poterli utilizzare a proprio vantaggio. Sapevamo tutti che il territorio di cui stava parlando era il suo paese. 

Eravamo seduti in cerchio: un rappresentante della Central Bank, una dirigente della Cargill – la multinazionale a controllo famigliare più grande degli Stati Uniti, piantonata dal suo Vice President of Corporate Affairs. Erano presenti molti imprenditori provenienti da diversi settori, da quello tecnologico a quello medico, nonché autori, musicisti, rappresentanti di onlus, economisti, artisti, politici e molti chef. Ho parlato con innovatori di ogni sorta, da quelli che si occupano di sviluppare per l’Africa sistemi tecnologici per il settore alimentare, ad altri che stanno valutando in che modo il cibo plasmerà il futuro della medicina. Insomma, un mix eclettico di circa 60 persone che sembravano tutte molto più abituate di me ad abbassare le palpebre per una sessione estemporanea di yoga. Alla vista di un moderatore che facendo suonare una campana tibetana chiedeva al gruppo di chiudere gli occhi, un outsider avrebbe potuto pensare di essere stato coinvolto in un qualche culto di nuova generazione. Niente di più sbagliato. Ci trovavamo tutti lì per una questione importante, ossia per discutere di una cosa chiamata “Social Gastronomy” (SG): un movimento che ha l’obiettivo di cambiare l’uso che la società fa del cibo. 

Abbiamo ripercorso la sua storia e discusso del significato del termine SG. Abbiamo dibattuto del termine “gastronomia” da un punto di vista lessicale e su questo argomento mi sono fatto decisamente sentire – d’altronde #MeToo suona bene e ha una certa universalità mentre Social Gastronomy suona un po’ goffo. «Il nome di un movimento ha davvero importanza?». #ArabSpring #Occupy, #TheLudites. La questione è stata sottoposta alla valutazione degli esperti di branding e marketing. Altri hanno partecipato al dibattito sul modo in cui gli chef stanno promuovendo gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite: un piano in 17 punti che riguarda la povertà, le pari opportunità e la fame, che 193 paesi si sono impegnati a portare a termine entro il 2030. «È già stato sottoscritto da 100 chef provenienti da 36 paesi», si vantava il rappresentante. Sembrava che SG avesse già acquistato un certo slancio. «Per me», ha detto una giornalista nel gruppo, «SG significa nutrire il mondo», suscitando un gemito collettivo impossibile da ignorare. «SG non è una crociata contro la fame», ha ribattuto un altro, ricevendo molti cenni di approvazione, perfino il mio. Si è concordato che nutrire il mondo non fosse una definizione accetta- bile per un movimento che si prefiggeva di trasformare la società. Certo, alcuni aspetti di SG riguardano la fame, ma … “one idea, one goal, one agenda”: questo non è un movimento, questo è Bono degli U2! 

Alla fine, l’esperienza mi è piaciuta da pazzi. Ascoltare le diverse opinioni, conoscere persone che avevano lavorato in forme differenti di SG per 15, 20, alcuni persino 30 anni; molti avevano piantato i semi del movimento in modo assolutamente inconsapevole, senza nemmeno conoscere il termine Social Gastronomy. Uno scenario davvero suggestivo. Ancor più suggestivo quando mi sono reso conto che il circolo riunito a Miami, per quanto fantastico fosse, rappresentava appena una minuscola porzione del movimento nel suo complesso. Difficile stabilire quando SG abbia avuto inizio. Il primo riferimento che ho trovato risale al 1930, quando il termine è stato utilizzato, pensate un po’, in una pubblicazione commerciale su mattoni e argilla. «Diventa ogni giorno più evidente che debba esistere tra architetti, costruttori, produttori di laterizi e impresari edili un modo di sentire e un obiettivo comuni», così esordiva l’articolo. «Dall’Australia abbiamo ricevuto una relazione cortesemente redatta dal nostro amico W. Cardin sul gioioso raduno di queste quattro classi professionali». Mr. Cardin proseguiva descrivendo un grande picnic da 1.000 persone. «I partecipanti sono giunti a destinazione a bordo di un piroscafo. Era una splendida giornata allietata da un sottofondo musicale e bevande e manicaretti di prima qualità». 

Il picnic voleva essere un tentativo di stabilire una connessione tra classi differenti attraverso «un menù degno di un ricevimento regale». L’articolo concludeva: «Il ponte della gastronomia sociale ha sempre giocato un ruolo prominente nel favorire una comprensione armoniosa e siamo fiduciosi che manifestazioni simili a questa dovrebbero essere più frequenti… Ne potrebbe risultare una migliore consapevolezza di quanto le diverse classi dipendano l’una dall’altra». Il paese che ha dato alle stampe le pagine che state leggendo ha giocato un ruolo importante nella formazione dell’idea stessa di alimentazione come movimento. Il Gruppo Slow Food, fondato in Italia nel 1986, è stato un elemento catalizzatore anticipatore di SG, creato in contrapposizione al concetto di fast-food e alla praticità industrializzata promossa dai venditori di microonde. Il suo messaggio incentrato sul cibo sostenibile e locale e sulla bio-diversità ha mantenuto il suo ruolo di voce forte, informativa e critica nell’ambito dell’industria alimentare. Attualmente l’associazione vanta 100.000 membri in 160 paesi e un’Università di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo. Nel 2013 è iniziata la collaborazione con la FAO (Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite) finalizzata allo sviluppo di sistemi alimentari più sostenibili. 

Anche gli chef, i nostri eroi del momento, hanno giocato un ruolo decisivo nell’ambito di SG. Man mano che la loro autorevolezza e credibilità andava crescendo nella società, i cuochi si sono allontanati sempre di più dalle loro cucine per ricoprire ruoli che mai ci saremmo immaginati potessero ricoprire. Alice Waters ne è un importante esempio. La cuoca innamorata dei vegetali ha utilizzato il suo ristorante californiano Chez Panisse e la sua visibilità mediatica per farsi paladina del movimento del cibo organico, arrivando a presentare la sua cucina al World Economic Forum e al Museo Smithsonian. Prima e dopo Waters gli chef hanno promosso movimenti locavori, giardinaggio, prodotti a chilometro zero, vendita diretta dal produttore al consumatore, vegetarianesimo, freeganesimo e veganesimo. Nulla riesce a intristirmi più del celebre video in cui Jamie Oliver cerca di spaventare una classe di scolari per convincerli ad adottare un’alimentazione salutare. Dopo aver sminuzzato in un blender occhi, zampe, interiora, muscoli e ogni sorta di tessuto di un pollo, per poi impanare e friggere la poltiglia, l’orgoglioso inglese fa un passo indietro e chiede alla scolaresca americana: «Chi ha il coraggio di mangiarselo?». Un’espressione di sconfitta mista a disgusto si fa lentamente strada sul volto di Oliver quando tutti gli scolari alzano la mano: è un momento di grande televisione. È anche l’espressione angosciata di un uomo che crede di poter davvero cambiare le abitudini alimentari di una generazione. 

Nel 2011 a Lima, Perù, si sono riuniti nove tra i migliori chef del mondo. Insieme hanno lanciato un manifesto autopubblicato intitolato “Dichiarazione di Lima”, che contiene questa dichiarazione: “Sogniamo un futuro in cui lo chef sia impegnato nel sociale, consapevole e responsabile del suo contributo a una società equa e sostenibile”. Il proponimento ha suscitato parecchie critiche. “Gli chef dovrebbero rimanere in cucina”, tra le più comuni. Ora, trascorsi sette anni, la dichiarazione suona come una sorta di profezia darwinistica sull’evoluzione della figura dello chef. Dopo le devastazioni causate a Porto Rico dagli uragani nel settembre 2017, il cuoco spagnolo José Andrés (appena nominato al Premio Nobel per la Pace)ha lasciato il laboratorio della sua cucina modernista a Washington, D.C. ed è partito per una missione personale in soccorso alla popolazione locale. Nel giro di una settimana aveva organizzato una rete di volontari, costruito cucine e servito più di due milioni di pasti! Uno chef d’importazione aveva sfamato gli abitanti più velocemente di Agenzie Governative, ONG o enti caritatevoli. Andrés ha replicato lo stesso modello di accoglienza durante i recenti incendi che hanno devastato la California. 

In Italia, lo chef tre stelle Michelin Niko Romito ha condensato anni di studio, ricerca scientifica e tecnica non tanto per sviluppare un nuovo menù degustazione per i clienti del suo lussuoso ristorante in Abruzzo, quanto ma per mettere a punto un’alimentazione più nutriente e saporita per i pazienti ospedalieri (il protocollo Intelligenza Nutrizionale). Massimo Bottura dal canto suo ha intaccato il cumulo maleodorante di rifiuti alimentari che tutti noi abbiamo contribuito a costruire: nei Refettori della sua associazione Food for Soul gli chef si trovano davanti alla sfida di utilizzare creatività e tecnica per trasformare gli avanzi in piatti allettanti per i più bisognosi. Le bucce di banana vengono affumicate per sostituire la pancetta nella carbonara e le briciole di pane vengono utilizzate in un miliardo di modi diversi. Il progetto riguarda anche il servizio al tavolo fornito agli ospiti da gruppi di volontari, l’interazione tra “ospiti” e “camerieri”. Un’etica fondata sull’assistenza e la condivisione promossa attraverso la cultura del cibo. La tavola come grande livellatrice. Forse il segno più promettente per la SG sta nel fatto che i giovani chef non vedono più la differenza tra cucina e causa. E perché dovrebbero? I loro modelli di riferimento hanno portato avanti per anni istanze sociali e la produzione di cibo buono e semplice viene ora rispettata a tal punto che una scodella di noodle ben fatti può diventare famosa quanto un menu degustazione da 12 portate. 

Lo chef trentaquattrenne Dan Giusti ne ha dato un chiaro esempio quando ha lasciato il suo lavoro in uno dei migliori ristoranti del mondo, Noma, per lanciare Brigaid: un esercito di giovani chef che si dedica a cucinare cibi più sani e più saporiti per gli alunni delle scuole americane. Il suo primo finanziatore è stato il suo ex-boss, René Redzepi, uno chef che ha catalizzato perlomeno due movimenti legati al cibo. Vedete come si evolvono? Si diffondono lentamente, si rafforzano, acquistano slancio. I movimenti sono infettivi e il cambiamento è contagioso. Il percorso del movimento SG è appena agli inizi, comincerà davvero a sfondare quando la gente si renderà conto di essere il miglior carburante per il suo motore. Voi e io, quando faremo scelte più consapevoli riguardo al cibo che consumiamo, su chi incassa il nostro denaro. Ogni volta che ricicliamo, leggiamo un’etichetta, aderiamo al movimento #MeatlessMonday, evitiamo i prodotti di una determinata azienda, riduciamo gli scarti o facciamo una cosa banale come condividere un pasto. Ecco quando il movimento verrà percepito davvero, quando non sarà più possibile contenere o controllare la “bestia”. I progetti SG hanno già preso forma lontano dalla cucina. 

Ho incontrato coltivatori che hanno sviluppato nuovi ceppi più gustosi e, di conseguenza, cibi più nutrienti, membri del Guerrilla gardening (“Giardinaggio libero d’assalto”) che come gesto di ribellione coltivano aiuole nelle favelas e pionieri della realtà virtuale che hanno imparato a riprogrammare il cervello di coloro che soffrono di disturbi alimentari. Esistono ristoranti pluripremiati nati nelle carceri nell’ambito di programmi di riabilitazione e iniziative con ingredienti indigeni che aiutano alcune delle più antiche civiltà del mondo. Nel 2016 è stato lanciato il Basque Culinary World Prize, prontamente ribattezzato “premio Nobel del cibo”, che riunisce un’apposita commissione di esperti di cibo incaricata di scegliere un vincitore tra quelli inseriti in una lista annuale di candidati. Il premio viene conferito a chi dà prova di aver migliorato la società attraverso la gastronomia. Il premio di 100.000€ è stato assegnato a un gruppo venezuelano di coltivatori di cacao, a un’ambasciatrice della bio-diversità colombiana e a uno chef scozzese che lavora in Australia con comunità indigene. Il riconoscimento, il premio in denaro, l’attenzione mediatica: una pietra miliare per il movimento. 

Slow Food è stato un eccellente esempio di movimento focalizzato sul cibo, ma l’elemento più significativo di SG, o per meglio dire di tutti i movimenti, è il fatto che non richiedano un’associazione. Si fonda no su idee e iniziative diverse che convergono su un obiettivo condiviso: quello di impattare le strutture esistenti – e SG ne ha tutti i requisiti. Alcune delle idee all’interno del movimento sono portate avanti da piccoli gruppi di comunità locali, altri da individui, altri ancora da grandi organizzazioni governative – altri nemmeno si rendono conto di farne parte e questo forse è il modo migliore. Crescita organica. #SG si trova in una posizione del tutto simile a quella di #MeToo, che si è venuto a costituire quando flussi di idee si sono concentrati per sostenere un unico sforzo. Ci sono migliaia di progetti che hanno preso vita sotto il suo nome, molti portati avanti da persone che non si rendono conto di essere uno dei fiocchi sociali che contribuiscono a formare l’ipotetica valanga. E tutto ciò sta avvenendo a livello globale. Con chef, imprenditori, medici, politici e semplici cittadini che già ne prendono parte. Dato che tutti i movimenti più efficaci sono fluidi, senza alcuna leadership o reale struttura organizzativa, c’era davvero bisogno di Miami? Ho capito che quella di parteciparvi era stata la decisione giusta quando, durante uno dei dibattiti collaterali, la rappresentate della Cargill ha cominciato a piangere. 

Era arrivata ai ferri corti con un ostinato sostenitore di Slow Food che non si capacitava del perché una stanza piena di suoi colleghi coltivatori di SG stesse condividendo il suo epocale movimento con una multinazionale. Una multinazionale che, in parole povere, non condivideva né aveva mai condiviso alcuno dei loro principi fondanti. La rappresentante ha spiegato come una volta avesse lasciato l’azienda solo per tornare ad aiutarli nella loro missione di far del bene, che credeva in loro e che anche noi avremmo dovuto fare altrettanto. Non mi ha convinto e mi sono sforzato di comprendere il motivo preciso per cui un gigante dell’industria avesse non una, ma ben tre persone nella lista dei partecipanti. L’evento era stato concepito da Gastromotiva, un’associazione non profit brasiliana che ha organizzato molte iniziative di grande impatto sulla filosofia SG. Alla fine, ho posto alla rappresentante di Cargill la domanda a cui tutti stavano pensando: «Quanto avete pagato per essere qui oggi?». La risposta? «1,5 milioni di dollari». Vediamo di contestualizzare questo numero. A tutti è sembrata una cifra considerevole, ma non è che una goccia nell’oceano dei loro profitti complessivi. Guadagnano più di 3 miliardi all’anno essendo i più grossi commercianti di cereali del mondo e giocano un ruolo importante nel mercato statunitense della carne bovina. Sono agli occhi di molti, i miei compresi, l’emblema del cibo globalizzato. 

La donazione di 1.5 milioni, ha spiegato la rappresentante, non era solo per Miami, ma per far squadra con l’intero movimento, per creare centri sociali, per aiutare a diffondere l’agenda SG a un’audience più ampia e organizzare più meeting come quello di Miami. Si erano forse appena comprati un movimento? Non potevo fare a meno di pensare alla cifra che Weinstein sarebbe stato disposto a pagare per partecipare alla riunione editoriale del New York Times prima della pubblicazione di quella che sarebbe diventata la loro bomba #MeToo. O di quanto avrebbe potuto stanziare la CIA per un posto in prima fila nel movimento #CivilRights. Quanto avrebbero pagato per sponsorizzare #CounterCulture? Penso che entrambi i soggetti abbiano preso in considerazione la cifra di 1.5 milioni di dollari. Comunque la pensiate e, devo confessare che la questione si presta a numerose interpretazioni diverse, i movimenti non riguardano il marketing, mirano a distruggere lo status quo, a seminare nuove idee e, come ho detto al principio, sono bastardi imprevedibili. Non andrebbero presi alla leggera, certamente non dovrebbero essere venduti al miglior offerente e decisamente non per una cifra così miserevole. 

Andrebbe almeno scatenata una guerra al rialzo in una sorta di Agro-asta e vedere quanto Monsanto sarebbe disposta a pagare per partecipare. La vera bellezza dei movimenti sta nella loro natura fluida, impossibile da distinguere o definire. Cambiano, evolvono, a volte regrediscono, spesso muoiono e non sempre rappresentano il bene: #CulturalRevolution. Andate subito a cercare Social Gastronomy su Google e vedrete che il primo risultato della ricerca ha un link all’evento di Miami, al “nuovo” movimento propugnato da Cargill e Gastromotiva. Nessuna menzione del picnic dei muratori del 1903, nessun riferimento a Slow Food, al World Culinary Prize, alla Lima Declaration o agli argomenti riportati in questo articolo. Una bella lucidata a un movimento che cominciava già a mostrare la patina del tempo. Siamo stati tutti fregati? Un veloce lavoretto mordi e fuggi, un’altra acquisizione per quelli di Cargill che rivendicano la proprietà di un movimento che molti protagonisti stavano appena scoprendo. O forse la loro partecipazione, la loro apertura e trasparenza, è il segno definitivo del potere di #SocialGastronomy?