Se amate la cucina di pesce, l’Irlanda è uno dei posti migliori del mondo per godersela al meglio. Sorprendentemente, non è sempre stato così. Ci si potrebbe immaginare che, con i quasi 1.500 chilometri di coste e una posizione di primo piano tra i Paesi del Nord Atlantico per i suoi mari pescosi, l’isola sia una consolidata roccaforte della cucina di mare.
Invece, tradizionalmente gli irlandesi hanno sempre guardato soprattutto all’entroterra per i loro ingredienti più tipici: carne e burro delle vacche di razza Kerry e piatti ricolmi di bacon e verza. I miei stessi antenati, i Pattersons della Contea di Down, furono costretti a emigrare durante la Grande Carestia delle patate, quando i tuberi su cui avevano fatto affidamento fino ad allora marcirono nei campi. Circondati dalle fredde, limpide acque di un mare generoso, gli irlandesi – benedetti loro – avevano deciso di cavarsela con una dieta a base di coddle (uno stufato di salsicce), soda bread e birra Guinness.
Nel decennio scorso, però, una nuova schiera di chef si è rivolta verso fiumi, oceani e coste in cerca di ispirazione, mescolando le tradizioni irlandesi con influenze dall’Europa dell’Est o dall’Asia, e tracciando al tempo stesso una rotta personale che tiene conto delle remore legate al sovrasfruttamento dei mari. Desideroso di sperimentare questo nuovo approccio culinario in prima persona, mi sono imbarcato in una perlustrazione dell’isola che mi ha portato dal centro di Dublino alle tortuose strade di campagna, ritagliandomi il tempo necessario per esplorare la splendida costa irlandese.
Ho iniziato il viaggio con una visita a The Seafood Cafe (theseafoodcafe.ie), nell’animato quartiere di Temple Bar, per provare il notevole banco dei crudi dello chef Niall Sabongi e assaggiare una ciotola di chowder di vongole dell’Atlantico ed egle-fino, e un intero granciporro il cui guscio era colmo di una ricca salsa allo sherry. All grand stuff, tutta grande roba, come dicono gli irlandesi. Ma per assaggiare davvero il meglio del meglio, sapevo che avrei dovuto intraprendere un viaggio on the road lungo le frastagliate coste del Sud e dell’Ovest dell’isola.
Ho iniziato prendendo un treno locale suburbano fino a Howth, cittadina portuale che nei fine settimana straripa di gitanti. Seduto alla terrazza esterna del King Sitric Seafood Bar & Accommodation (kingsitric.ie), mi godo la vista delle onde che s’infrangono sull’Ireland’s Eye, isolotto disabitato ad eccezione di migliaia di cormorani, gabbiani e falchi pellegrini. Il proprietario Declan MacManus, i cui parenti aprirono la locanda nel 1971, mi propone un pranzo che mi fa capire quel che mi aspetta nei giorni seguenti. Si comincia con ostriche appena aperte, con la loro dolcezza iodata accompagnata da gocce di salsa mignonette. Poi, una ciotola di cozze carnose che nuotano in un cremoso e agliato brodo di porri e vino bianco. Per finire, spazzolo i gamberi della baia di Dublino, teneri e bianchissimi, colanti di burro.

«Abbiamo costruito il nostro menu attorno all’idea di non servire merluzzo», mi dice MacManus. È un tasto dolente per la nazione: ai pescatori irlandesi è assegnata solo una frazione delle quote delle loro acque costiere, mentre la parte più grossa dell’accesso a molte specie sovrasfruttate va agli enormi pescherecci di altre nazioni. La buona notizia per chi visita il Paese è che gran parte del pescato fresco servito in Irlanda viene sicuramente da flotte piccole e a basso impatto. MacManus indica un molo dall’altro lato della strada, da cui i capitani delle piccole barche da pesca e dei tipici curragh in doghe di legno lo riforniscono di aragoste, sgombri, granciporri e merluzzi neri.
A Galway, a due ore e mezzo di guida a ovest di Dublino, incontro Jp McMahon, l’autodidatta della cucina irlandese, nel suo ristorante stellato Aniar (aniarrestaurant.ie). Autore di The Irish Cookbook, ricognizione enciclopedica del patrimonio culinario locale, McMahon ha le sue teorie sulla consolidata avversione degli irlandesi alla materia ittica. In tempi di maggiore osservanza religiosa, spiega, la carne era proibita durante la Quaresima e di venerdì, rendendo il fatto di mangiare pesce una penitenza più che un piacere. Coloro che avevano il buon senso di raccogliere le nutrienti alghe kelp, cozze e buccini venivano sprezzantemente definiti dagli abitanti delle città mangiatori di bia bocht, espressione irlandese traducibile con “cibo da poveri”.
«I miei genitori vivevano a Dublino», racconta. «Non penso di aver mai visto del pesce intero a casa loro. Quando ne mangiavamo, ci veniva sempre detto di stare molto attenti alle spine, perché saremmo potuti morire soffocati. Ricordo che pensavo “Perché mai dovrei mangiare questa roba? È più sicuro un bastoncino di pesce o del pollo”». Il menu degustazione da 24 portate di Aniar riporta i commensali a un’epoca precedente alla diffusione dei filetti congelati di pesce – e addirittura a prima dell’arrivo delle patate –, quando la gente del posto raccoglieva erbe lungo le coste e pescava nei fiumi e nei mari. McMahon è un grande fautore delle specie d’acqua dolce come il coregone locale (pollan), pesce di lago dal sapore delicato simile all’aringa presente solo in Irlanda, e le anguille del Lough Neagh, il lago più grande del Paese. Lo chef si augura anche che le alghe diventino “la verdura nazionale irlandese” e, su un bacone da cucina, mi offre un assaggio improvvisato di dillisk (alga rossa) sottaceto, masticabile e ricca di umami, e di finocchio marittimo, pianta grassa costiera dal colore verde acceso che rivela un interno umido al morso. Usando un infusore da tè sferico, sparge della polvere di “tartufo di mare”, un’alga dall’intensità aromatica simile a quella del suo corrispettivo di terra, sui cannolicchi tagliati a pezzetti, sbollentati nel sidro e poi ricomposti nei loro gusci.
Per McMahon e molti altri chef, la scomparsa del salmone selvaggio dai fiumi irlandesi rappresenta una moderna tragedia. D’altra parte, l’isola è uno dei rari posti in cui vale la pena cercare del salmone da acquacoltura. Gli allevamenti sulla costa occidentale sono spesso attività a gestione familiare, che rispettano le regole che limitano rigorosamente l’uso di ormoni e antibiotici. E la tradizione dell’affumicatura portata avanti da Hederman nella Contea di Cork, dalla Duncannon Smokehouse nella Contea di Wexford, e dalla Burren Smokehouse nella Contea di Clare, che vede la lenta cottura dei filetti salati su trucioli di quercia o faggio per mezza giornata, vale la lunga deviazione.
Al Moran’s Oyster Cottage (moransoystercottage.com), a mezz’ora di auto a sud di Galway, il giovane William Moran affetta a mano per me un filetto di salmone affumicato al bancone, sistemando le fette traslucide su un piatto, accanto a una mezza dozzina di ostriche raccolte dal vicino allevamento di Clarenbridge, e mi offre una pinta di Guinness. Moran mi racconta che appartiene alla settima generazione della sua famiglia a gestire questo cottage dal tetto in paglia che se ne sta sulla riva nord del Kilcolgan River da 300 anni.
Fu suo nonno a trasformare il pub in un ristorante e, negli anni, i Morans hanno sfornato pane scuro e aperto ostriche per gente come Paul Newman e il poeta Seamus Heaney, cliente assiduo le cui odi ai molluschi scritte a mano sono incorniciate alle pareti. Il salmone dal gusto di fumo si scioglie sulla mia lingua, ma sono le ostriche concave, dal guscio tondo e la polpa soda, che lasciano il mio palato – per usare le parole di Heaney – “acceso di stelle”.
Se Moran è la prova che, anche ai tempi di carne e patate, l’Irlanda aveva conservato quelle che lo chef McMahon chiama “le tasche segrete dell’amore per i frutti del mare”, Solas Tapas Dingle (solastapas.com), nella penisola di Dingle, dimostra che gli chef di oggi hanno trovato un modo di innestare gli eccellenti prodotti irlandesi con lievi accenti europei. Tra le prime esperienze in cucina dello chef Nicky Foley ci sono state quelle sulla costa mediterranea della Spagna e il suo ristorante da 32 coperti ricorda un po’ un chiosco sulla spiaggia della Costa Brava, trasportato per magia tra le facciate dalle tinte vivaci di una cittadina di pescatori dell’Atlantico del nord.
In qualche modo, mentre mangio una crocchetta panata grossa quanto un uovo d’anatra che nasconde un interno di chowder fuso, tutto torna. Spagna e Irlanda, entrambe nazioni cattoliche e marinare, hanno una storia comune che precede la colonizzazione inglese dell’isola. Il molo dove possiamo vedere le barche da cui arrivano le aragoste nel menu odierno, sottolinea Foley, è lo stesso dove veniva scaricato il vino spagnolo importato qui nel sedicesimo secolo.
Nella mia tappa successiva trovo, con mia grande sorpresa, la più innovativa cucina di pesce d’Irlanda. Cork è una città graziosa ma molto tranquilla, che ospita l’English Market, pieno di banchi che vendono black pudding, crubeens (piedini di maiale bolliti) in salamoia, e buttered eggs (uova conservate con i gusci spalmati di burro). Al centro di Cork, formato da un’isola nel mezzo del fiume Lee, la chef Aishling Moore ha trasformato la cucina del suo ristorante, Goldie (goldie.ie), in un laboratorio “dalla pinna alla branchia”. Prendendo esempio dal “macellaio ittico” australiano Josh Niland, Moore compra i pesci interi e con il suo numeroso staff si mette a lavoro per marinare le uova e affettare, deliscare e maturare la carne.

«Quello che cerchiamo di fare è convincere le persone a mangiare più specie e tagli di pesce», dice Moore. La brama degli irlandesi per il merluzzo e, ultimamente, la molva (la sua “cugina” più smilza) ne ha decimato la popolazione, ma la chef si rifornisce di altre specie saporite un tempo considerate di scarto e ributtate in mare: rombi gialli, gallinelle e mostelle, ma pure buccini, patelle e cardi, o cuori di mare. «Usiamo anche i fegati. E gole, guance e uova. L’unico prerequisito è che siano deliziosi». L’obiettivo è la sostenibilità: tanto riguardo alle specie scelte che nell’utilizzarne ogni parte per evitare gli sprechi, una filosofia che Moore delinea nel suo recente libro Whole Catch.
Seduto al bancone del Goldie, mi godo i nugget fritti, fatti di ritagli di pesce e conditi con spezie di Taiwan, seguiti da un piattino di rombo marinato in sale e zucchero e servito come fosse pastrami, con della salsa Reuben. La portata principale è una platessa fritta, accompagnata dalla reinterpretazione di Moore del burro alle erbe in stile Café de Paris. La chef fa spesso brainstorming con il suo staff condividendo gli spunti dei viaggi di ciascuno e il suo stesso girovagare tra Europa e Sudest asiatico, attingendo a una dispensa che include vino di riso Shaoxing dalla Cina, crème fraîche e togarashi giapponese.
Alcuni piatti strepitosi come il crab madame e le cozze con crema di crescione e sidro, sono un esempio eccellente della cucina irlandese contemporanea, felicemente radicata nell’isola ma allo stesso tempo aperta al mondo.
Il mio viaggio termina nella Contea di Waterford, al Beach House (beachhousetramore.ie). Una strada sinuosa che costeggia le scogliere a picco sul mare mi conduce sino a Tramore, cittadina balneare dal fascino retrò che di recente è diventata una meta per i food lover (non perdetevi il pane rustico alle alghe appena sfornato e gli scones di grani antichi della Seagull Bakery). Al piano inferiore di una palazzina vittoriana color crema, un menu scritto a mano racconta il pescato del giorno, servito con burro nocciola, salsa verde o aioli.

Lo chef Peter Hogan e sua moglie, Jumoke Akintola, hanno deciso di scommettere sulla località natale di lui dopo aver aperto con successo il Fish Shop (fish-shop.ie) di Dublino, destinazione di culto per la carta dei vini e la peculiare versione del fish-and-chips. Spiega Hogan: «Usiamo poca fecola di patate, un po’ di birra e lievito in polvere per la pastella, e lo cuociamo molto velocemente». Così ottiene filetti croccanti che ricordano il tempura giapponese, ribattezzati giocosamente Fillet o’ Fish Shop Sandwich (ricetta).
Hogan ha un posto di riguardo presso i pescatori del vicino Kilmore Quay. Oggi, gli hanno portato rombi lisci, platesse, triglie di scoglio e pesci San Pietro, ma anche dei granciporri dal guscio incrostato di cirripedi, che lo chef tira fuori dal cesto per farmeli ammirare. Osservandoli attentamente, esclama con ponderata meraviglia: «Abbiamo davvero dei prodotti del mare incredibili, qui in Irlanda».