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Takahiko Kondo e Karime Lopez di Gucci Osteria a Firenze

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Nuove memorie gastronomiche

Dalla Panzanella che parla greco all’Animella marinata nel chimichurri: gli chef italiani d’adozione conquistano le nostre tavole nel segno di una ristorazione senza confini.

Fa rumore la fuga dei cervelli ma poco si parla dei loro arrivi e mentre gran parte del mondo ha conosciuto la pasta e la pizza grazie alle migrazioni dei nostri (bis)nonni, oggi sono proprio i nuovi nativi o naturalizzati italiani, giunti più o meno da lontano, a preparare alcuni dei piatti più buoni della Penisola. Cuochi di altre nazioni e di altri continenti divenuti italiani d’adozione che, a forza di spadellare e impastare nei nostri ristoranti e nelle nostre pizzerie, non solo oggi hanno due passaporti ma anche due (o più) bagagli gastronomici. In casa Kondo-Lopez le nazionalità sono tre: quella messicana di lei, la giapponese di lui e l’italiana per entrambi e per la loro bambina, nata nel cuore dell’Emilia Romagna. «Ho vissuto più a Modena che a Tokyo – afferma Takahiko (detto Taka) Kondo, dal 2005 nel sistema del Lider Maximo di Osteria Francescana – e a Campazzo la signora Lidia (esatto, la rezdora che è stata la maestra di Bottura) mi ha insegnato a chiudere i tortellini: per me è diventata una seconda nonna. Averli in carta è un modo per continuare a ringraziare il paese che ci ha accolto». Un arrivo che ha persino ispirato il suo famoso Cannolo che vuole diventare un cannellone, frutto di una fortunata e divertente confusione degli inizi tra le parole cannolo, cannellone e cannellini: un camouflage (come scuola botturiana insegna) che ricorda un cannolo siciliano replicato però con una cialda a base di farina di fagioli, ripiena di ragù per insistere sull’idea di cannellone; il gioco è perfettamente compiuto con la spuma di ricotta salata, pistacchi e arancia candita che sigilla le due estremità. Da marzo Taka è nelle cucine di Gucci Osteria da Massimo Bottura a Firenze dove fa coppia con Karime Lopez che con la stella a piazza della Signoria è stata la prima chef donna del Messico a entrare nella Rossa. Sebbene entrambi ben padroneggino un know-how tricolore come nella candida scultura Da Paestum a Carrara con pomodoro, basilico, fragola e mozzarella di bufala (quest’ultima immancabile per Taka), molti dei loro signature si confermano all’insegna della contaminazione – uno su tutti la Tostada di mais viola, classico messicano parafrasato con ingredienti italiani e a base di palamita dell’Adriatico, limoni di Sicilia e farine umbre. Il piglio glocal è custodito anche tra le mura domestiche, tra specialità sudamericane a colazione che non prescindono da tortillas, uova, fagioli, pane e frutta tropicale e altri pasti in stile giapponese come ramen, soba e sushi, ma nel prossimo menu «racconteremo il repertorio gastronomico italiano in chiave contemporanea e intima – anticipa Karime –. Sono qui da quasi cinque anni e non avevo ancora provato la schiacciata fiorentina con l’uva: al primo morso non riuscivamo a codificare quei sapori perché nessuno dei due è cresciuto portandola a scuola come merenda. È la nostra dedica a un classico toscano». Come? Servita con del gelato al finocchietto. Se sull’emblema della sfoglia all’uovo ripiena Taka ha costruito nuove memorie gastronomiche, accolto da Bottura con la migliore panna di affioramento in circolazione, per Leticia Gjergji la torta di mele o quella paradiso sono dolci della tradizione quanto quei Lloklume – gelatine a base di acqua, zucchero e amido – che quando era piccola avevano il gusto delle feste.

Nata in Albania trentadue anni fa e in Italia dal 2000, Leticia è la pasticcera del Ristorante Rana (fresco di stella Michelin), e considera «una vera fortuna avere una memoria dell’infanzia e una dell’età adulta», come dimostra in quel dolce a base di foglie di vite che un tempo preparava sua nonna nei Balcani e che lei un’estate fa in Toscana ha farcito con cipollotto, finocchietto, olio e riso. Approdare dall’altra parte dell’Adriatico per la pastry chef ha rappresentato «quello che per gli italiani è stata l’America»: una terra promessa, naturalmente vicina per geografia e cultura, ormai diventata prima casa. Oltre agli emergenti, non sorprende sapere che questo fenomeno di glocalizzazione continui sempre più spesso a interessare i grandi chef che si sono appropriati di manifesti culinari diversi dal luogo di nascita, affiancando inoltre alle doti culinarie quelle per gli affari. In Italia l’iniziatore della visione manageriale del cuoco è stato il tedesco Heinz Beck a La Pergola di Roma, veterano tra i tristellati e in ottima compagnia con la nizzarda Annie Féolde di Enoteca Pinchiorri nel capoluogo toscano. Se il bretone Philippe Léveillé di Miramonti l’Altro ha abdicato al burro in favore della mediterraneità, il ticinese Pietro Leemann al Joia a Milano è al timone del primo ristorante vegetariano che ha ricevuto la stella Michelin in Europa. A testimoniare in che modo e quanto i forestieri abbiano assorbito e stimolato la nostra tradizione culinaria, tra gli altri c’è Gordon Ramsay che, contemporaneamente alla collaborazione con il Forte Village in Sardegna, aprì un suo ristorante nel resort toscano di Castel Monastero. In queste stesse cucine gravitò anche Stylianos (per tutti Stelios) Sakalis, nato ad Atene e vissuto nella moderna polis fino alla maggiore età, quando scelse Siena per studiare la lingua italiana (di giorno) e la cucina toscana (di sera). Cresciuto professionalmente alla corte del pluristellato inglese tra Londra e la campagna senese, nel 2019 è approdato in un altro castello, quello di Spaltenna, confermando “la fermata” al fascinoso chiostro de Il Pievano: «Ero già innamorato della Toscana e quel consenso per me ha significato rimanere. Nei piatti che propongo ci sono le mie origini, la Grecia, il luogo che mi ha accolto, la Toscana, e diversi riferimenti professionali, da Ferran Adrià a Heston Blumenthal». Due stati, nessun confine: dalle olive di Kalamata – stessa provenienza scelta per l’olio EVO con cui condisce il pesce che da buon ellenico non fa mancare, anche se siamo nell’entroterra – aggiunte nella Panzanella che parla greco, all’ouzo, liquore a base di anice presente nel Morone di fondale, lo chef non si è sottratto alle sfide e ha normalizzato il consumo di feta e yogurt greco. «Io dico che non esiste la cucina italiana, ma solo quella regionale. Non ho visto questa varietà in nessun’altra parte del mondo. Mi ha sempre affascinato pensare che bastava percorrere 100 chilometri perché un formato di pasta cambiasse nome. Questa è una peculiarità dello Stivale, almeno dal mio punto di vista “straniero”. In Grecia si mangia più o meno ovunque allo stesso modo: la moussakà ha un solo nome. Qui sono riuscito a raccontare al meglio la mia storia ed esprimere al massimo la mia creatività», che per uno chef come lui estraneo al culto nostrano della pasta ha significato persino interpretare il tortellino in una versione “inversa”, ovvero ripieno di brodo di prosciutto.

Ha il sapore della migrazione storica la pasta con tuco di Matias Perdomo, chef che da Montevideo approdò sui Navigli appena ventenne: «È il “tocco” genovese (sugo ligure a base di carne) arrivato in Uruguay all’inizio del Novecento ed è un piatto estremamente tradizionale nella zona del Rio della Plata. Ci sono tanti altri esempi in cui la cucina italiana è decisamente presente nella gastronomia uruguaiana: dalla pasta ai salumi, ma anche i formaggi, in particolare il Parmigiano; per non parlare poi delle tecniche di cottura, quindi bollito e brasato. Ecco perché per me questa è una tradizione acquisita. La contaminazione culturale e gastronomica fa parte della nostra identità». Le frontiere del gusto sono ancora superate nel “Meno Menu” del suo Contraste, insegna stellata milanese dal respiro internazionale (non a caso il suo braccio destro Simon Press è argentino) dove vige il via libera al fatto-su-misura per ogni portata tra cui non sorprenderà trovare lo Scampo con il ceviche di peperoni, l’Animella marinata nel chimichurri o i Noodles di capasanta e spuma di Parmigiano. «Guardiamo la diversità come se fosse un punto di forza per unire due culture», afferma Perdomo che quando nel 2001 arrivò nel capoluogo lombardo ricorda una città in cui «nella maggioranza dei casi si poteva trovare soprattutto una cucina tipica e tante belle osterie. Con il passare degli anni Milano, e tanti altri centri, si sono aperti al mondo».

Da una piazza sempre ricettiva e con un’offerta cosmopolita che attinge tanto da Oriente quanto da Occidente, a un territorio di confine come il Friuli per metabolizzare la tradizione apolide e le fermentazioni insolite di Fares Issa, cuoco (errante) siriano che accoglie i suoi ospiti intorno al fogolâr della sala di Ronchi Rò, agriturismo in provincia di Gorizia. Lo chef qui rifugge da ibridismi italo-siriani perché «se voglio mangiare siriano lo preparo a casa», e parte dal Collio per cimentarsi in ricette friulane come nel Salàm tal aset, letteralmente salame all’aceto: «Ho ingentilito questa preparazione casalinga che copriva con aceto il salume andato a male. L’ho rielaborata a modo mio, quindi salame buono, foglia di acetosa e soupe à l’oignon». Non una cucina siriana italianizzata, quindi, né tantomeno fusion: qui si viene per i Ravioli di patata, porcini e consommé di pollo e funghi che riprendono i cjarsons carnici, il manzo cotto nel tandoori e cren – radice tipicissima a Trieste – e non manca la gubana. Sì, ma con la crosta e flambé. Lontano dalla ossequiosa interpretazione dei ricettari del proprio paese è il menu di Juan Camilo Quintero, giovane chef colombiano ormai naturalizzato italiano, che ne “La mia Toscana Latinoamericana” rivela un omaggio a Fernando Botero nel dessert con il cioccolato proveniente dalla certificata azienda Cordillera oppure utilizza il caffè colombiano monorigine tra gli ingredienti di Patate e tartufi in cottura ancestrale con lumache. Nonostante si senta italiano (solo) a metà, l’executive chef di Borgo San Felice pensa nella nostra lingua anche quando cucina: «Una volta gli ingredienti familiari erano avocado, riso, fagioli, adesso sono pasta fresca e secca, Carnaroli e Parmigiano Reggiano». Per non parlare delle verdure e delle erbe che provengono dall’Orto Felice, tra i tanti fiori all’occhiello che hanno contribuito all’ultimo successo dell’ulteriore stella, questa volta di colore verde, per il ristorante Poggio Rosso all’interno del lussuoso albergo diffuso. A confermare una fusione per palati liberi da pregiudizi sono proprio i suoi piatti, dal magistrale Riso del Chianti, cinghiale, olive e cipressi alla Faraona toscana, zucca e guava al timo, entrambi presenti tra “I miei piatti del cuore”.

Per Jun Ge, oste cinese di seconda generazione, “del cuore” sono invece le aziende vitivinicole italiane (Praesidium, Tenute Dettori, Tanca Nica, Feudo d’Ugni) in carta al suo Sinosteria – ma qui si bevono anche caffè specialty a scelta tra 15 monorigine oltre a una gamma di tè cinesi –, un orientale insolito a Roma dove le Polpette di persico al curry incontrano l’aglio rosso di Sulmona mentre nella Crema di riso al latte di cocco con pollo c’è lo zafferano di Navelli. Se non si fosse capito Jun ha un debole per l’Abruzzo, complice anche l’amicizia fraterna con Franco Franciosi di Osteria Mammaròssa, ristorante della Marsica dove non di rado capita nei suoi giorni di riposo trasformandosi da uomo di sala in cuoco, nel segno di un’unione di due cucine che s’incontrano senza tuttavia confondersi, «come avviene nel matrimonio perfetto – spiega Jun – in cui due persone si amano senza perdere di vista la propria individualità. Non bisogna rinunciare alla propria identità per vivere bene in un posto: per questo io dico di possedere due cuori, uno cinese e l’altro italiano, pardon, abruzzese». Quindi, tazza fumante di oolong e raviolo al cocco con mosto made in Abruzzo.

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Foto di copertina: Takahiko Kondo e Karime Lopez di Gucci Osteria a Firenze

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