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ph Greg Dupree

Risotto renaissance

Una nuova generazione di chef italiani, dal Piemonte alla Puglia, sta rivoluzionando uno dei più grandi classici a base di riso.

“All’onda” può significare due cose diverse in Italiano, per un figlio della Riviera amante del surf, evoca il moto ondoso del mare. Per un nordico, all’onda si riferisce alla consistenza ideale del risotto: i singoli chicchi di riso devono essere al dente, ma legati insieme da un magma amidaceo e gustoso, talmente cremoso che basterà muovere la pentola con un abile colpo secco per generare qualche “onda”. Il numero di persone che conoscono le terminologie e i tecnicismi del risotto è destinato a crescere come la marea dell’oceano, a mano a mano che la sua popolarità si espande al di fuori della Lombardia, del Piemonte e del Veneto. Grazie a nuovi produttori di riso, intenti a coltivare varietà incredibili, e a chef che finalmente pensano al di là delle classiche preparazioni del risotto, questo piatto sta vivendo un vero e proprio Rinascimento in tutta l’Italia.

Come già accade in gran parte della cucina italiana contemporanea, tale rinnovamento abbraccia una maggior semplicità e leggerezza (Gualtiero Marchesi fu il primo a predicare il vangelo della leggerezza, negli anni 80, facendo eccezione solo per il risotto giallo che amava il più decadente possibile). Laddove un tempo si era soliti trovare pentole colme di brodo intenso, cumuli di soffritto finemente tritato e panetti di burro per la mantecatura, oggi alcuni preparano il risotto senza cipolla e tostando i chicchi direttamente nell’olio. Altri ancora lo cucinano con un brodo vegetale leggero o solo con acqua. Cesare Battisti del ristorante Ratanà, padrino del risotto alla milanese, a volte utilizza un infuso di fieno e polline.

Un altro punto fondamentale che contribuisce alla reinvenzione del risotto è la mantecatura, l’atto conclusivo della preparazione dove un grasso freddo viene incorporato nell’amido caldo per ottenere una maggiore cremosità. I fratelli Manuel e Christian Costardi sono in prima linea in questa evoluzione del genere. Il menu del ristorante di famiglia che gestiscono all’interno dell’Hotel Cinzia, nella città di Vercelli, presenta diverse versioni del risotto, esercizi di equilibrismo tra tecnica e lo spirito giocoso che da sempre li contraddistingue. In omaggio ad Andy Warhol e alla Pop Art, il loro risotto al pomodoro viene servito all’interno di un barattolo che richiama quello della zuppa Campbell’s, un’idea di presentazione del piatto suggerita dal celebre fotografo e gourmet, ormai scomparso, Bob Noto.
«La mantecatura noi la realizziamo in tantissimi modi diversi, e hanno tutti il loro perché. Se vuoi ti faccio qualche esempio, ma quanto tempo hai?», scherza Manuel. La disponibilità di riso di alta qualità a elevata concentrazione di amido rende possibile ottenere una consistenza cremosa anche senza l’ausilio del burro. «Per il nostro risotto aglio, olio e peperoncino facciamo un “burro” di olio d’oliva che viene prima frullato e in seguito congelato; per il risotto ai peperoni rossi usiamo un’emulsione di peperoni molto densa, per il risotto ai piselli prepariamo una “maionese” di piselli a base di olio di semi di girasole», dice. I fratelli sono soliti aggiungere l’aroma principale a metà cottura. «Il riso è come una spugna: assorbe tutti gli aromi, quindi se volete preservare i colori e i sapori dei vostri condimenti, non aggiungeteli troppo presto».

Alice Delcourt, chef e proprietaria del ristorante Erba Brusca di Milano, è un’altra delle interpreti del risotto più rispettate e creative: «Il risotto è uno dei piatti più tradizionali, per cui un tempo c’era questo canone piuttosto rigido rispetto a ciò che era consentito utilizzare per la preparazione. Al massimo zafferano, zucca, funghi porcini e parmigiano. Poca complessità di sapore». Ora, spiega, si usa il riso come una tela bianca. «Poiché è cremoso con un sapore quasi neutro, io cerco di preservare la spinta golosa della tradizione ma al tempo stesso di aggiungere qualche nota fresca con un mix di sapori inaspettati, speziati e aciduli. Per esempio, una settimana ho preparato un risotto con ricotta affumicata e barbabietole fermentate. Quella prima, invece, abbiamo abbrustolito gli scarti dei vegetali, li abbiamo frullati e infine usato la polvere ottenuta per stratificare i sapori».

Molti maestri di questa nuova leva del risotto indicano i produttori del loro riso sui menu – perché si sa, non può esistere un risotto eccezionale senza un riso che lo sia a sua volta. Anche su questo fronte sono cambiate molte cose. «Dopo un periodo di agricoltura intensiva e di produzione di massa, siamo finalmente entrati in un’era di gestione del riso decisamente più consapevole –afferma Battisti –. La qualità del prodotto è aumentata e la gente ha finalmente compreso che, se trattato come si deve, il riso è un alimento non solo ricco di sapore ma anche sano, come del resto la pasta». Le principali varietà di riso italiane sono il Carnaroli, l’Arborio e il Vialone Nano. Il risotto viene comunemente preparato con il Carnaroli (che gli chef amano per i suoi chicchi amidacei che restano al dente) o con l’Arborio (dai chicchi grandi, che restano meno al dente ma rendono il piatto finale molto cremoso). Il Vialone Nano è invece più adatto, per esempio, per le minestre di riso, come il risi e bisi della tradizione veneta. Ma le numerose sfumature della tavolozza del riso italiano non finiscono qui.
«Il nostro paese vanta un livello eccezionale di biodiversità del riso, oltre 120 cultivar – spiega Battisti –. Oggi, i produttori stanno tornando a coltivare alcune delle vecchie varietà come Bertone, Rosa Marchetti, Dellarole, Baldo, S. Andrea – non tutti sono adatti al risotto, ma sono perfetti per insalate, zuppe e dessert». Dietro ad alcune delle realtà produttive preferite dagli chef, come Riserva San Massimo e Gli Aironi, ci sono giovani imprenditori agricoli che operano nelle roccaforti risicole delle valli del Po e del Ticino, tra Vercelli e Pavia, rese famose dall’immortale figura della mondina, la lavoratrice stagionale delle risaie.
«Mia madre era una mondina – spiega Dino Massignani, direttore di Riserva San Massimo, il principale produttore di riso Carnaroli originario in Italia –. Esistono diverse varietà di riso succedanee che per legge possono essere tutte commercializzate con la denominazione “Carnaroli”. Devo a mia madre la passione per quello autentico: una pianta elegante, alta e difficile, che richiede mani esperte».

Per via del mio lavoro con il pane e il grano, e della mia passione per lo studio sul campo, avevo deciso di indossare degli stivali pesanti e di andare a esplorare personalmente la tenuta. Massignani è stato così gentile da accompagnarmi in giro con il suo pick-up, fermandosi di tanto in tanto per indicarmi le corna di un cervo che spuntavano da dietro un albero o un airone in volo. La Riserva di San Massimo è un’area di oltre 800 ettari, di cui un terzo destinato risaie, il resto un patchwork impressionante di ecosistemi, densamente popolato da fagiani, oche, poiane, ibis e altre specie. «La vedi l’acqua che gorgoglia?», chiede Massignani mentre si china su una delle 44 sorgenti naturali a cui attinge per irrigare i suoi campi.
Una volta raccolto, il riso viene sottoposto a un processo di essiccazione a bassa temperatura e a seguire a una pilatura a pietra a granula fine, l’equivalente della molitura a pietra del grano. Realtà come Riserva San Massimo operano su tre binari paralleli: preservare la salute del suolo attraverso pratiche agricole sostenibili, esplorare il potenziale del riso e il suo sapore attraverso la reintroduzione di varietà antiche e, infine, comunicare il presente del riso attraverso un linguaggio e packaging al passo con i tempi.

Ho visto un approccio analogo anche in Maremma, dove la Tenuta San Carlo, con un’area che si estende per circa 500 ettari di terreno, produce Carnaroli biologico (oltre al Ribe e a una piccola parcella sperimentale di riso da sake). Passeggiando tra i campi – metà dei quali fanno parte di una riserva naturale – Ariane Lotti, pronipote del fondatore della tenuta, Achille, descrive il loro approccio, basato sull’agricoltura rigenerativa, un insieme di pratiche di coltivazione a basso impatto in cui il terreno viene lasciato in gran parte indisturbato e il riso beneficia di tecniche come la pacciamatura.

Altri esempi di notevole ispirazione sono Rosalia Caimo Duc di Terre di Lomellina (una delle prime a coltivare riso biologico in Italia), Igiea Adami di Beni di Busonengo (suo marito, Guido Zampaglione, è un noto produttore di vini naturali) e i fratelli di Una Garlanda. Questi produttori mi ricordano che ciò che mangiamo è sempre il risultato di una catena di persone e prodotti, e che la qualità parte sempre dal primo anello.
Preparare un risotto a casa non dev’essere necessariamente l’equivalente culinario di un triplo salto carpiato. Rassicura Manuel Costardi, «il riso si può fare con quello che si vuole; si sposa bene con tutto ed è questo il suo punto di forza». E ricordate, quando si parla di risotto, le regole, anche quelle più radicate, sono state pensate per essere infrante. Risotto cotto con acqua? Sì. Senza burro? Certamente. Abbinamenti di sapori insoliti? Alla grande. Avete licenza di sperimentare. E mi raccomando: non dimenticate di divertirvi.

Fare e disfare: le regole del risotto

Chi ben comincia

Non è necessario tostare il riso in burro e soffritto, a meno che non stiate optando per un risotto particolarmente ricco. (Nella maggior parte dei casi, il soffritto non si percepisce al palato nel piatto finito). Provate invece a ricoprire il fondo della pentola con un olio d’oliva non troppo robusto e a tostare il riso fino a quando non diventi traslucido (o quando i chicchi siano troppo caldi per essere tenuti nel palmo della mano).

Il momento del vino

Alcuni chef usano il vino per sfumare il risotto prima di iniziare ad aggiungere il liquido: può essere aggiunto subito dopo la cottura del soffritto, se lo si usa, oppure una volta tostato il riso. Questo passaggio conferisce una piacevole nota acida che può alleggerire le versioni più rotonde e grasse del piatto. Preferite un vino bianco secco non aromatico. Si può usare anche il vino rosso, ma solo per risotti sostanziosi come quello con fagioli borlotti e salsiccia, che richiedono un barbera: ricordate che, oltre al sapore, conferirà anche colore ai chicchi. L’aceto è una valida alternativa ma in quanto più acido del vino sarà meglio aggiungerlo alla fine.

No brodo, no problem

Per un risotto super delicato non è necessario un brodo di manzo o di pollo (finirebbero per sovrastare il sapore principale del piatto). Optate per un brodo vegetale o usate semplicemente dell’acqua. Continuate a versare il liquido un mestolo alla volta, ma senza esagerare: ad aggiungere si fa sempre in tempo, ma togliere è impossibile.

La regola dei 13 minuti

Un Carnaroli di buona qualità cuocerà per circa 13 minuti dal momento in cui si inizierà ad aggiungere la componente liquida. Continuate a mescolare e a versare il liquido e infine assaggiate il riso. Quando è cotto ma ancora al dente, spegnete il fuoco. Alcune marche potrebbero impiegare più o meno tempo di quanto indicato sulla confezione: verificate sempre la consistenza e regolatevi di conseguenza.

Mantecatura magistrale

Simile ad altre tecniche di emulsione, consiste nel cercare di far ripiegare il riso su sé stesso, muovendo la pentola con una serie di colpi secchi (o mescolando energicamente), così da far incorporare il grasso freddo nell’amido caldo, e anche aria, per ottenere un risotto cremoso. Se optate per il formaggio, usate un parmigiano meno stagionato, perché si scioglierà più facilmente, oppure scegliete un formaggio cremoso, come la robiola o il caprino.

Meritato riposo

Appena prima della fase di mantecatura, lasciate riposare il risotto, coperto, per un minuto a fuoco spento. Questo aiuterà a raggiungere la consistenza perfetta, in quanto anche l’ultima parte di liquido rimasta si assorbirà. Così facendo, inoltre, il risotto non sarà bollente quando verrà aggiunto il burro freddo, e si legherà alla perfezione.

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