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Lambrusco Sorbara la cantina di Cleto Chiarli

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Sorbara: il Lambrusco che ha voltato pagina

Acidulo e verticale, elegante, brioso, figlio dei metodi ancestrale, Martinotti, classico: vecchie e nuove strade del più nobile tra i frizzanti modenesi.

Le terre del Sorbara sono affascinanti anche d’inverno, o in certe stagioni di mezzo in cui la nebbia unisce al cielo questa campagna fertile, pianeggiante, una linea dritta alterata soltanto da borghi e capannoni, dal brulicare della sua umanità. Dai campi svettano alberi di pere come miriadi di cristi crocefissi, ordinati, e certi vigneti dimessi, in attesa, lontani parenti della gioia che le loro uve possono convogliare nel bicchiere: il sorso fresco, fruttato e frizzante, conviviale, di un vino che in passato, col suo successo planetario, ha rischiato di smarrire la strada di genuinità e qualità. Fortuna che c’è sempre chi cammina in direzione contraria. La zona storicamente più vocata per il Sorbara si ritaglia tra i fiumi Panaro e Secchia, la Doc premia dal 1970 i comuni di Bastiglia, Bomporto, Nonantola, Ravarino, San Prospero, frazioni di Campogalliano e Camposanto, Carpi, Castelfranco Emilia, San Cesario sul Panaro, Soliera e dello stesso capoluogo di provincia, Modena. Parliamo di terreni a carattere alluvionale, di suoli sabbiosi, generosi, dove meglio si è addomesticata la vitis labrusca, forse la più autoctona tra le autoctone, che spontaneamente cresceva nelle terre emiliane. Vigorosa ma scorbutica in vigna, a causa della sterilità del polline, l’uva di Sorbara soffre problemi di allegagione e tende all’acinellatura, così che molti chicchi rischiano di restare minuscoli; la si trova quindi coltivata assieme al lambrusco Salamino, un prestante “fecondatore” tradizionalmente suo partner anche in bottiglia. Ma è in solitaria che il Sorbara esprime al meglio la nobile eleganza, la nota acidula e delicata ma al contempo contadina, terragna, i tratti che ne svelano le sorprendenti potenzialità. Perché all’ingordigia del mercato dei numeri, che portò nel mondo ettolitri di vini sempre più dolci e beverini, talvolta simili a bevande gassate, si è anteposto chi utilizza conoscenza e innovazione per dare nuova luce a una delle tradizioni vitivinicole più preziose del nostro Paese. Rilanciandola nel futuro.

La storia del lambrusco

«Il lambrusco è un grande vino, sta a noi dimostrare quanto». La storia del lambrusco è quella della famiglia Chiarli, che nel 1860 fondò la più antica azienda regionale (non solo vitivinicola) tuttora in attività. Ai tempi il vino era soltanto rosso, secco, la fermentazione era ancestrale per circostanza: «Vuoi per le caratteristiche del vitigno, del clima, per la tendenza a vendemmiare tardi nella speranza di ottenere più alcol, fatto sta che col freddo le fermentazioni si bloccavano e ripartivano in primavera, in bottiglia», dove il lambrusco diventava frizzante e acquisiva la sua proverbiale spuma. I tappi erano legati con lo spago (e spesso saltavano ugualmente), i risultati erano alterni fino all’arrivo delle autoclavi, negli anni ‘50, che fecero volare il marchio sui numeri di adesso. Al percorso di Chiarli 1860, Anselmo e il fratello Mauro, oggi coadiuvati dai figli Tommaso e Carlo, affiancano dal 2001 quello di Tenute Agricole Cleto Chiarli (dal nome del capostipite), con l’intento di valorizzare vecchi e preziosi cloni, gestendo in proprio ogni passaggio dalla vigna all’imbottigliamento. «Il Sorbara dovrebbe sempre mantenersi così, esile, nobile ed elegante – ricorda Anselmo – del resto già nell’Ottocento era sinonimo di qualità». Il loro vigneto varietale si trova in località Sozzigalli, nel comune di Soliera, sulla sponda sinistra del Secchia, e dà vita ai due Sorbara in purezza, il mitico Vecchia Modena Premium «che è un lampo a cielo aperto, leggero, fresco e profumato», nonché il Lambrusco del Fondatore, che recupera il filo della storia e rifermenta in bottiglia, «più complesso e consistente, sa di vero». Intanto, con la quinta generazione in pista, Quinto Passo è il nuovo marchio dedicato agli spumanti Metodo Classico: «il Sorbara ha grande potenzialità anche in questo campo – racconta Tommaso Chiarli – vinificato in purezza o quale preziosa spalla dello chardonnay», come avviene nei loro brut e pas dosé, ammalianti fin da un primo sguardo.

Champagne nel modenese

Se parliamo di Metodo Classico in terre emiliane parliamo di famiglia Bellei, di Francesco che avviò l’azienda nel 1920, di Beppe che in località Riccò (a 650 metri di altitudine) impiantò chardonnay e pinot nero per produrre spumante Metodo Classico: un precursore, nonché un visionario, più spicciamente soprannominato “il matto”. E parliamo di suo figlio Christian, che dal 2009 conduce a Bomporto Cantina della Volta, esaltando il Sorbara con lo sguardo fisso alle bollicine d’oltralpe. «Sono figlio del metodo più che della varietà», confessa, «più dello Champagne che del nostro territorio». Racconta la difficoltà di divulgare un prodotto di qualità mentre la vulgata lo associa al basso costo, in una zona dove la ricerca stenta mentre già suo padre faceva spola con la Francia a caccia di tappi adeguati. Racconta dei rifermentati in bottiglia, oggi una moda, da lui abbandonati e poi recuperati al cospetto di «ciò che il Metodo Classico mi ha insegnato, in una cantina dove un’autoclave non è mai entrata». Basse rese, uva raccolta a mano da vigne allevate col vecchio sistema Bellussi, pressatura soffice e lieviti selezionati come fidi scudieri: niente è lasciato al caso e i risultati si apprezzano. Declinato in tre versioni, dal Christian Bellei al rosso Trentasei, è nel Rosé che il Sorbara da Metodo Classico trova per Bellei il punto di equilibrio, «non troppo esile, non troppo strutturato, comunica al meglio le caratteristiche varietali», Quelle che ritroviamo appieno nel Rimosso, un rifermentato più vinoso e sapido, più fragrante, impeccabile e virtuoso come tutti i vini di Cantina della Volta.

La via della purezza

Se parliamo di Sorbara in purezza parliamo innanzitutto di Cantina Paltrinieri, di Alberto che con la moglie Barbara conduce l’azienda ereditata dal padre Gianfranco ma avviata dal nonno Achille, nel 1926. Ci troviamo al Cristo di Sorbara, «un nome non a caso», su terreni sciolti, limosi, compressi tra i fiumi Secchia e Panaro, culla ideale per la varietà. «Siamo stati i primi a indicare Sorbara in purezza, nel 1998», su quell’etichetta bianca che nel 2010 si è trasformata nel Radice, rifermentato in bottiglia che è un riferimento per la tipologia. «Ma che fatica all’inizio – ricorda Alberto – quando i clienti ammonivano l’è tropp’ cier, riferendosi al colore troppo chiaro». Tracciando la linea dell’innovazione nel lambrusco, con Paltrinieri ripercorriamo diverse tappe, «dall’avvento del metodo Martinotti al ritorno dei rifermentati quasi fossero una novità, fino all’ultima frontiera del Metodo Classico». Il loro approccio al Sorbara offre oggi un ventaglio ampio e profondo, al Radice si aggiunge il Sant’Agata, nella nuova etichetta che celebra il passaggio al biologico, e dunque Leclisse, pluripremiato scudiero dal gusto tagliente e pulito. Senza dimenticare il Grosso, un Metodo Classico fresco, sapido, orgogliosamente Sorbara. «E così valorizziamo tutte le sue peculiarità, la grazia, l’acidità, ma anche un’insospettabile longevità. Andiamo avanti col territorio nel cuore, un passo alla volta consapevoli della nostra storia, confidando che i figli sappiano compiere il successivo».

Ripartendo dalla barbatella

In quel di San Lorenzo l’azienda Vinicola Zucchi opera nella tradizione da metà ‘900, ma è dal 2010 che la giovane Silvia presta il suo carico di passione e competenze forgiate con gli studi a Conegliano, poi col pellegrinaggio tra realtà italiane ed europee. Cura del dettaglio e massima attenzione in cantina come in vigna, dove un progetto la porta «al passo indietro che guarda al futuro»: affiancata da una vivaista francese, Silvia Zucchi ha avviato una selezione per il recupero di vecchi cloni, biotipi che permetteranno il ritorno al vecchio sistema Bellussi, sesti d’impianto assai ampi con viti che guardano al cielo, alte e vigorose. «Ripartiamo dalla barbatella, dai piedi, per poter camminare avanti: troppo spesso ci si era spinti a esaurire le vigne in pochi anni, mentre longevità e regolarità in campagna si ritrovano poi nella bottiglia, a dispetto di certi vini spenti che sono la negazione del Sorbara». Alla sua decima vendemmia, Silvia Zucchi ha battezzato una linea “più estrema” che porta il suo nome e prevede quattro versioni di Sorbara, «puntando a freschezza, sapidità, acidità»: sono due gli spumanti Martinotti e noi citiamo In Purezza, «quello che più valorizza i profumi, i sentori varietali»; seguono un rifermentato in bottiglia denominato Infondo, dove si coglie «tutto il potenziale evolutivo del nostro lambrusco», e non ultimo il Metodo Classico Dosaggio Zero, 36 mesi sui lieviti e grande impatto gustativo.

Vigneto come un dipinto

Ravarino è invece teatro d’opera per Angelo Marchesi, che nel 2010 acquisì un appezzamento «come si acquisterebbe un dipinto, estasiato da questi campi che i romani avevano diviso in centurie»: rettangoli di terra che ai loro vertici rompono la piattezza del paesaggio per elevarsi in quattro collinette, ai tempi destinate alle sentinelle. La vite vi aveva già trovato casa per mano delle più importanti famiglie del territorio succedutosi nei secoli, ma adesso non c’era più niente ed è servita la passione del figlio Nicola per ricominciare: «Una volta deciso di diventare enologo ho viaggiato e studiato per formare al meglio il mio bagaglio». Oggi Marchesi di Ravarino raccoglie a mano le proprie uve biologiche e le vinifica «secondo il tradizionale metodo ancestrale, senza rinunciare alla tecnologia che ci permette di compiere meno errori». Angelo definisce il Sorbara «un biondo magro, slanciato e con gli occhi azzurri, in una famiglia di mori tracagnotti» che è quella dei lambruschi. La loro versione in purezza si chiama Magnum perché nelle magnum «i vini sono più buoni, questione di spazio e ossigeno»; già all’esordio uscirono con una prevalenza di questo formato e tuttora ne sono i maggiori produttori del consorzio, ragion per cui la classica bottiglia da 75cl si chiama Baby Magnum. Ne sgorga un Sorbara chiaro, dai profumi autentici, franco e territoriale ma al contempo poliedrico, godereccio anche nella sua sorprendente versatilità.

Verso carpi e Campogalliano

Gianluca Bergianti è l’alfiere del vino in Terrevive, azienda biodinamica certificata (condotta con la moglie Simona) che produce ortaggi, erbe aromatiche, cereali e frutta, affiancandovi una sempre più nutrita fattoria didattica. Sulla diagonale Gargallo-Santa Croce, vicino Carpi, ha scovato questa striscia di terra dal medio impasto, ricca di sabbia e di limo, «in cui il sovescio e il letame dei nostri animali rivitalizzano una terra fertile, meravigliosa». Ne escono uve altrettanto «sane, vive, da accompagnare alla vinificazione senza alcun intervento enologico», perché qua sono banditi lieviti selezionati e filtrazioni, così come ogni altro coadiuvante. Da sempre Gianluca si dichiara amante dei vini verticali, croccanti, va da sé che il Sorbara trova luogo d’elezione traducendosi in due proposte: Il San Vincent prende nome «da un viaggio nelle terre dello Champagne, durante la festività del patrono dei vignaioli», ed è un rifermentato tagliente come una lama, con bei sentori di lampone; il Fine è invece un Metodo Classico da lungo affinamento eppure fresco, divertente e “vero”, vessillo perfetto per la filosofia di Terrevive. Tra le realtà più giovani e interessanti troviamo infine Podere il Saliceto di Gian Paolo Isabella e Marcello Righi, con sede a Campogalliano, accanto all’area naturalistica delle Casse di Espansione del Secchia e dei Laghi Curiel. Entrambi figli di altri percorsi, i due amici hanno iniziato nel 2005 «senza esperienza né viticoltori in famiglia, ma sempre in cerca di una sfida», come ricorda Gian Paolo, ex ottico ma soprattutto praticante di pugilato e boxe tailandese. Partirono da zero, un pezzo di terra e diversi alberi di pere come primo sostegno, quindi filari di Salamino, di Trebbiano modenese e Malbo Gentile, «piantando e allevando con crismi diversi da quelli tipici della zona», alta densità di piante e rese assai ridotte. Nel loro paniere non manca il Sorbara, anzi, trova corpo e compattezza senza rinunciare all’agilità: si chiama Falistra, che in dialetto significa scintilla, «quella riscontrabile nel colore e nello schiocco della beva».

Un vino rigenerato

Non allarghiamo ulteriormente lo sguardo ma potremmo ben farlo, a raccogliere la voce di altre famiglie depositarie di storia e propense al rinnovamento, impegnate quotidianamente a tenere in linea mercato, qualità, sostenibilità. Potremmo addentrarci nell’universo delle più piccole, microscopiche realtà, di commoventi vin de garage che emozionano fino all’ultimo sorso, anche nell’imperfezione, o al contrario osservare come certi giganti da milioni di bottiglie investano con efficacia nel segmento del Sorbara in purezza, anche rifermentato in bottiglia: Cavicchioli, fondata nel 1928 e oggi in Gruppo Italiano Vini, stante la sua caleidoscopica gamma non rinuncia al frutto della mitica vigna del Cristo, valorizzata nel classico Sorbara Doc e dell’ambizioso Rosé del Cristo, «l’altra faccia del lambrusco possibile, lo spumante e la ricerca della perfezione». Ovunque ci si volti cogliamo i segnali di un vino rigenerato nella veste e nella sostanza, buono da bere, bello da guardare, oggi anche intrigante e moderno, neppure lontano parente di quel prodotto dozzinale che di lambrusco conservava soltanto il nome, appannaggio di un consumo sragionato, spesso estero, spesso ostile alla propria identità. Diciamo evviva, dunque, evviva il Sorbara e chi lo sta traghettando nella sua nuova, meritata, luminosissima dimensione.

L’essenza del lambrusco reggiano

Lasciandosi alle spalle le terre del Sorbara, nonché i colli modenesi di Castelvetro dove troneggia il Grasparossa, le varietà si moltiplicano sulle strade del lambrusco reggiano. Si veda la storia di Medici Ermete, nata da tre osterie e una cantina nel 1890, proprio sulla via Emilia. Il marchio fu protagonista nella conquista dei mercati esteri e nella rivoluzione di quello locale, dopo che sul finire degli anni ’80 l’intero comparto annegò nell’oceano del lambrusco dolce, un prodotto industriale e fin troppo economico che violentava la propria storia. In Medici Ermete si reimpiantarono i vigneti e si cambiò il sistema di allevamento, si abbatterono le rese e si giunse all’epico Concerto, il cru da solo Salamino che dal 1993 segna una storica svolta per la tipologia. Oggi questa varietà si esalta anche in un Granconcerto versione spumante, ed è adeguata spalla del lambrusco Ancillotta nell’etichetta Assolo. Sulle Colline Matildiche troviamo invece la famiglia Prestia che dal 2015 rilancia lo storico marchio Venturini Baldini: più di 30 ettari di vigneti in regime biologico per una tenuta familiare che mette al primo posto il rispetto della natura e il legame con la tradizione, mentre uno spirito di innovazione guida alla valorizzazione di vitigni autoctoni recuperati. Si vedano in tal senso etichette come Marchese Manodori da uve Marani, Maestri, Salamino, Grasparossa, oppure il corposo e sapido Quaranta che arruola anche varietà come Montericco e Malbo Gentile. Chiudiamo con una cooperativa nata per raggruppare diverse aziende del reggiano, ovvero Cantina di Arceto, Cantina di Correggio e di Prato di Correggio oltre alla secolare Casali Viticultori: il logo di Emilia Wine si ispira al ponte progettato da Santiago Calatrava (subito all’occhio percorrendo l’A1) che «richiama anche, simbolicamente, il significato dell’unione, un valore fondamentale per le realtà che si sono unite in questo progetto»: sono più di 700 soci a curare oltre 2mila ettari vitati tra il Po e l’Appennino, con una produzione che è l’enciclopedia in divenire del vino reggiano. A cominciare dal lambrusco.

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Foto di copertina: la cantina di Cleto Chiarli.

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