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The Comfort Food Chronicles – Un po’ per uno

Il miglior conforto è quello non richiesto. Quello che, semplicemente, arriva inaspettato.

Per un certo tipo di persona (me, ad esempio) una delle cose più difficili è accettare aiuto — tanto da sconosciuti quanto da amici. Quelli come me, se cadono in un burrone durante una camminata e si rompono una gamba, urlano agli altri da là in fondo: «Tutto a posto! È solo una distorsione, andate pure avanti senza di me». Inoltre io sono portata a considerare gli altri molto forti, forse troppo. A pensare che non abbiano bisogno di me. Quindi ho spesso timore che la mia natura non sia quella di dare il mio contributo. Con l’eccezione della cucina. Nessuno mi ha mai detto: «Emily, sono così triste. Sono stanco. Potresti cucinare qualcosa di buono per tirarmi su il morale?». Eppure, mi sono presentata davanti a innumerevoli porte con una pietanza in mano coperta da uno strofinaccio, sperando in cuor mio che questa potesse risolvere per incanto i problemi di quella casa. Io credo segretamente che le persone abbiano un bisogno disperato del mio aiuto, pur non chiedendolo mai apertamente. Credo anche che il miglior conforto sia quello non richiesto. Quello che, semplicemente, arriva inaspettato.

A me ne è arrivato un bel po’, di conforto inaspettato, quest’anno, dopo che mi avevano diagnosticato una rara forma di tumore, mentre stavo visitando mia cugina Toni ad Atlanta. (Va tutto bene! Non dobbiamo parlarne! Andiamo avanti).
Amici, alcuni dei quali non vedevo da decine di anni, sono venuti a trovarmi di sorpresa, spesso portando del cibo. Una mia ex compagna d’università voleva consegnarmi un manicaretto direttamente nel reparto tumori dell’ospedale. E, più tardi, quando il mio appetito era scomparso da giorni, un panino al prosciutto e formaggio fatto in casa da Toni e portato in ospedale mi è parso così delizioso e miracoloso da indurmi a fotografarlo. È stata sicuramente la cosa più buona che io abbia mai mangiato.

Quando sono finalmente uscita ho espresso la mia felicità di essere viva cucinando immediatamente due tipi di risotto per Toni e i suoi figli. Cucinare mi ha reso felice. Sfortunatamente, nei mesi seguenti sono dovuta tornare per due volte in quel temutissimo ospedale. La prima volta Toni era piuttosto malata, così ho guidato dalla mia casa in Carolina del Nord fino ad Atlanta per stare con lei. Due mesi dopo, quando mi trovavo nuovamente in visita ad Atlanta, ho portato là sua madre, mia zia Mariah, per un piccolo intervento d’emergenza, dopo il quale lei non poteva masticare.

Ma cosa stava succedendo? Cominciavo a pensare che avrei dovuto direttamente andare a vivere in quell’ospedale, come se fosse un hotel. Ma soprattutto, mi sono resa conto di quanto sia importante avere nel proprio repertorio una ricetta semplice e deliziosa al tempo stesso, qualcosa da offrire a chi è in difficoltà fisica o emotiva (che lo richiedano o meno).

Per me, si tratta di questa zuppa, che piace a tutti quelli a cui viene offerta. Si può modificare in base ai gusti di ognuno, in modo che tutti la mangino, e volentieri, in qualunque condizione si trovino. Ma non è cibo da malati. Può diventare anche elegante (frullata con la panna e un pizzico di noce moscata, che è come l’ho preparata per zia Mariah, così che potesse sorbirla). E, se la facilità di consumo la rende ideale per una persona giù di corda o malata, può altrettanto facilmente essere resa più ricca e colorata, ad esempio aggiungendo mais fresco, peperoncini tritati e perfino una manciata di coriandolo fresco prima di servirla. Potete utilizzare delle cipolle, per semplicità, oppure decidere per dei più raffinati porri. Io la chiamo zuppa per tutti. A proposito: noi stiamo tutti bene, finalmente.

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Foto di Victor Protasio

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