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Il ritorno del verjus: cos’è e perché sempre più cocktail bar lo stanno utilizzando

Un succo d’uva acerba che riscopre le sue radici e conquista sempre più bartender.

È probabile che lo stiate leggendo sempre più spesso sui menu dei cocktail bar in giro per l’Italia, tra gli ingredienti dei drink più disparati: ma che cos’è il verjus? Si tratta di un antichissimo succo analcolico ottenuto da uve non mature che sta vivendo una seconda giovinezza, sia in cucina sia in mixology, perché è versatile, senza alcol e soprattutto delizioso.

Ha un sapore un po’ acidulo, si ricava dalla spremitura a freddo di uve acerbe oppure occasionalmente da mele acerbe o altra frutta acida. Sappiate però che quando leggete il termine “verjus”, senza altri riferimenti, si tratta esclusivamente di un succo di uva acerba. Se il liquido viene ottenuto da qualsiasi altro prodotto ha bisogno di una specifica a parte (come il verjus di mela).

Pur essendo altamente acido, il suo sapore è più delicato rispetto al limone o all’aceto, con note fruttate e una leggera dolcezza naturale. Storicamente utilizzato per insaporire, sin dall’antichità e soprattutto nel Medioevo si impiega regolarmente nella cucina europea. Col tempo questo prodotto si è perso ed è scomparso dalle cucine di tutto il mondo fino a qualche anno fa. Andiamo alla scoperta di questo prodotto eccezionale.

La storia del verjus: il primordiale sostituto dei limoni

Dal Medioevo al Rinascimento il verjus è stato ampiamente utilizzato in tutta l’Europa occidentale come ingrediente nelle salse, come condimento o per sgrassare le preparazioni. Le prime attestazioni del consumo di succo d’uva acerba risalgono all’antica Grecia e alla Roma imperiale. Il medico greco Ippocrate ne descrive le qualità medicamentose già intorno al 400  a.C. ed è un fatto non da poco: questo succo nasce come sottoprodotto dell’industria vinicola prima ancora che l’industria vinicola esistesse.

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Due uomini intenti a fare il verjus. Tacuinum Sanitatis (1474). Esposto alla Bibliothèque nationale di Parigi

L’uso si consolida nel Medioevo, soprattutto in Nord Europa perché per far tornare i limoni in questo territorio bisogna aspettare la fine delle crociate. Troviamo il verjus nei ricettari catalani e francesi del XIV e XV secolo, dove compare con una certa frequenza come nel Libre de Sent Sovi (1324) e nel Ménagier de Paris (1393), mentre il cuoco svizzero‑tedesco Manuel Chiquart lo usa per dei brodi speziati già nel 1420. Il gusto dolce-aspro è molto di moda in questo periodo storico e quindi il verjus è considerato uno dei simboli della cucina medievale perché è in grado di caratterizzare moltissimo i piatti.

Durante il Rinascimento, chef come François Pierre de La Varenne, nel suo Le Cuisinier François (1651), descrivono l’uso del verjus per dare acidità ai brodi, con la stessa efficacia del vino o dell’aceto.

Con l’espansione del commercio e l’arrivo, dopo le crociate, di molti agrumi in Europa, la produzione domestica del verjus hanno iniziato a sfiorire. Già nel XVIII secolo diventa un ingrediente di nicchia perché i limoni sono più pratici e il costo della produzione del verjus lo rende sempre meno diffuso. Paradossalmente questo prodotto si sposta dal Nord Europa al Medioriente: Il verjus è chiamato husroum (حصرم) in arabo ed è ampiamente utilizzato nella cucina libanese e siriana; noto come ab-ghooreh (آب‌غوره) in persiano ed è apprezzato in questa cucina: piatto simbolo è l’insalata shirazita, icona della gastronomia dell’Iran.

Per i successivi 300 anni il verjus diventa sempre più introvabile fino all’arrivo di una nuova ondata di chef e bartender che ne hanno riscoperto l’incredibile gusto. Negli anni 2000 Blumenthal lo usa nei propri piatti, in Italia lo ritroviamo nella cucina di Norbert Niederkofler già da molti anni e di tanti altri colleghi che hanno imparato a sfruttare al meglio questo ingrediente. Molto lo dobbiamo a Maggie Beer, una cuoca e viticoltrice australiana: nel 1984 si ritrova con un raccolto di Riesling renano che non può essere venduto. Non si perde d’animo e chiede aiuto a un amico produttore di vino che le fa riscoprire questo sapore. All’inizio è difficile imporre il verjus sul mercato australiano ma dopo circa un lustro comincia a ingranare e nel 1999 la Beer porta il suo prodotto negli Stati Uniti e in Giappone prima di arrivare in Francia e poi nel resto d’Europa. La consacrazione la sta trovando però dietro il bancone: il verjus sta diventando onnipresente nelle drink list dei migliori bar al mondo.

Come si prepara il verjus

Il verjus si ottiene da uve lasciate crescere fino al momento della veraison, ovvero la fase in cui iniziano a cambiare colore e maturano parzialmente. In questa fase la polpa mantiene un alto grado di acidità e moderata presenza zuccherina, ideale per ottenere un succo fresco, intenso e bilanciato. Questa tecnica sfrutta spesso le uve eliminate durante il diradamento, pratica agronomica comune nei vigneti di alto livello per migliorare la qualità delle uve rimanenti.

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Foto di Labellepatine

Dopo la raccolta precoce (in genere a fine estate), i grappoli vengono diraspati e sottoposti a pressatura a freddo. Questa operazione preserva gli aromi delicati e riduce il rischio di estrazione di composti vegetali amari. Il succo estratto viene successivamente filtrato, spesso in più passaggi, per eliminare particelle solide e ottenere un prodotto limpido. In seguito può essere sottoposto a pastorizzazione o aggiunta di conservanti naturali come anidride solforosa o acido citrico, garantendo stabilità microbiologica e shelf life adeguata .

Esistono versioni bianche e rosse di verjus, ottenute da uve diverse che conferiscono nuance sensoriali differenti: quelle bianche risultano più leggere e fresche, le rosse tendono a essere più fruttate, talvolta floreali o persistenti. Il verjus più comune è comunque quello di uva bianca perché è naturalmente più acida.

Altro fattore da non trascurare: il verjus è anche estremamente sostenibile. Riduce lo spreco e può integrare l’economia del vigneto offrendo un’alternativa di reddito. Studi come quello condotto in Texas sottolineano il valore tecnico, economico e sensoriale del verjus, evidenziando come possa sostituire acidificanti in agricoltura sostenibile.

Mixology e verjus: l’acidità alternativa

Il verjus sta emergendo come valida alternativa all’acidità del limone e come prodotto analcolico di tendenza nelle creazioni dei bartender. Oltre ad aggiungere una nota fresca e agrumata, offre una piacevolezza meno aggressiva, rispettando equilibrio e delicatezza del drink. 

Molti bartender guardano al verjus come a un elemento ecologico perfetto per cocktail a base di vino (come il French 75, Sidecar o Spritz) e mocktail che richiedono acidità senza ricorrere agli agrumi. Viene usato soprattutto come sostituto di limone e lime ma è ottimo anche per bilanciare l’eccessiva dolcezza di alcuni cocktail, aggiungendo un tocco di freschezza e un sapore più equilibrato. Oltre ai citati drink col vino, dovreste provarlo anche in altri classici: qualche goccia di verjus nel Gin Tonic, ad esempio, arricchisce enormemente il sapore di questo semplice cocktail, donando una nota acidula che si accoppia alla perfezione col chinino dell’acqua tonica.

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