Grappoli di Pinot Nero tra i filari di Tenuta Cafaggiolo

Viaggio sentimentale nel Pinot Nero di Toscana

La sfida del più aristocratico vitigno d’oltralpe nella terra del Sangiovese e del Chianti, tra aneddoti e personaggi.

Il seme fu gettato a metà Ottocento nella fattoria di Pomino, frazione collinare del comune fiorentino di Rufina che domina la Val di Sieve dai suoi 500 metri di altitudine: «Gemma nascosta della Toscana», come dice Lamberto Frescobaldi nel condurre l’eredità di quella storia, «un luogo che splende per la sua luminosità, si esprime attraverso la mineralità e incanta con un tocco di eleganza femminile».

Autore del gesto primario fu il visionario Vittorio degli Albizi, convintosi che la qualità dei vini dipendesse innanzitutto da un’ottimale maturazione delle uve. Iniziò a sperimentare varietà mai allevate in zona, cercando fra i vitigni più precoci «un futuro sostituto alle viti della nostra provincia, tutte di tardiva maturazione», come scrisse al barone Bettino Ricasoli, per suo conto impegnato a cercare nuove formulazioni per il Chianti. «Relazioni e circostanze fortuite mi portarono a prescegliere nel tentativo alcuni fra i migliori vitigni della Francia», riporta Zeffiro Ciuffoletti nel saggio Vittorio degli Albizi e “L’arte di far bene il vino” nella Toscana dell’Ottocento (su storiaagricoltura.it). Fu così che Vittorio, assieme alla sorella Leonia, importò dalla Borgogna le prime barbatelle di Pinot Nero messe a dimora in Toscana.

Era l’inizio di un romanzo avvincente, anarchico quanto appassionato: quello che oggi disegna uno scenario surreale nella regione del Sangiovese e del Chianti, del Canaiolo o del Colorino, dove il ruolo dell’intruso era al tempo giocato (al più) dal suadente Merlot o dai coriacei Cabernet. Al Castello di Pomino «l’uomo non domina la natura ma la ascolta e la accompagna», per usare le parole del marchese Lamberto; i Frescobaldi continuano a investire sul Pinot Nero, «straordinario ambasciatore del territorio, capace di trasferire in ogni bottiglia l’essenza autentica della Tenuta», si tratti degli spumanti Leonia o della leggiadra versione in rosso Pomino Frescobaldi, l’unica che in Toscana può fregiarsi della Doc.

La tenuta di Castello di Pomino di proprietà di Frescobaldi

Intanto, nel resto della regione, nel corso dei decenni, la più elegante delle varietà transalpine ha tessuto trame e sottotrame al cospetto di altri, straordinari protagonisti.

Il fortunato errore dei Pancrazi

Giuseppe Pancrazi guida la solida realtà dell’Azienda Agricola Marchesi Pancrazi, con base nella frazione di Bagnolo a Montemurlo, in provincia di Prato: «Monte Ferrato alle spalle e colline del Carmignano all’orizzonte. Cerchiamo di conservare al meglio l’identità della nostra villa-fattoria toscana», fondata dagli Strozzi nel Cinquecento. Ed è incredibile a dirsi ma il successo, tutto riconducibile all’unico vitigno coltivato, il Pinot Nero, nasce da un vero e proprio errore. «Negli anni Settanta mio zio Vittorio decise di reimpiantare un ettaro di vigna, ma per uno sbaglio del vivaista invece del Sangiovese venne innestato Pinot Nero».

Pinot Nero di Toscana di Marchesi Pancrazi

Per anni nessuno se ne accorse: «Purtroppo non c’erano le adeguate conoscenze scientifiche. Di certo ci si chiedeva il perché di una produzione tanto anomala, grappoli piccoli che maturavano precocemente». A metà anni Ottanta si pensava di espiantare nuovamente il vigneto quando l’enologo Nicolò D’Afflitto, ai tempi fresco di laurea in quel di Bordeaux, riconobbe la varietà e fece valere le sue conoscenze. «Con lui avviammo l’inversione di rotta», una vera rivoluzione. «Tutti gli impianti vennero convertiti a Pinot Nero selezionando i cloni più adeguati al nostro territorio. Peraltro rivelatosi fortunatissimo nel valorizzare la nobile varietà francese».

Pioneristici nei modi e nei tempi: la prima bottiglia del Villa di Bagnolo è datata 1989, mentre nel 2001 nasce l’elegante e longevo Vigna Baragazza, cru da unico clone coltivato più in alto, vicino al bosco, pur restando essenzialmente in pianura. «Ci aiuta l’umidità dei suoli, ricchi di minerali, come pure la buona escursione termica. L’uva matura bene, possiamo vendemmiarla a inizio agosto evitando le bizzarrie del clima. E in cantina ci mettiamo del nostro, semplicemente rispettandola al meglio».

Un orafo pioniere nel Mugello

Paolo Cerrini cominciò a pedalare a Firenze, per effettuare le consegne della bottega di alimentari del padre. Poi il manubrio divenne curvo, la bicicletta si fece da corsa e il tempo per allenarsi non gli bastava più. Si impiegò come orafo presso un artigiano, imparò il mestiere, nei primi anni Settanta aprì un laboratorio in proprio, ebbe successo, rimase un umile sognatore, non smise di pedalare e quando una fuga lo portò più lontano si fermò a Vicchio del Mugello, località Molezzano, un rudere e qualche ettaro da coltivare.

Paolo Cerrini di Rio Cerrini insieme alla moglie Manuela Villimburgo

«Fu Marco De Grazia», racconta riferendosi al vignaiolo già mentore dei Barolo Boys e poi capofila nell’affermazione dell’Etna, «a consigliarmi di impiantare Pinot Nero», che nessuno coltivava nei paraggi. «Mi avesse detto di mettere cavolini di Bruxelles, gli avrei dato retta lo stesso». Con la pazienza e la dedizione di un fiero autodidatta, complice la moglie Manuela Villimburgo, Cerrini non cesserà di «studiare, sperimentare, sbagliare, senza mai perdere l’occasione di rompere le scatole ad amici e colleghi».

Il solo fine è quello di interpretare al meglio quella varietà difficile quanto affascinante, che ben si è adattata a suoli argillosi, estati brevi e importanti escursioni termiche dell’avamposto mugellano. L’azienda Il Rio di Paolo e Manuela è diventata un riferimento, il loro Ventisei (prima bottiglia datata 2001) è oggi uno dei Pinot Nero più buoni d’Italia e non teme confronti con i cugini francesi: terragno quanto elegante, evocativo, è un vino apripista per l’Appennino toscano che col passare degli anni ha visto aumentare la sua produzione enologica. Perlopiù fondata proprio sul Pinot.

Eccopinò, vignaioli dell’Appennino

C’è anche l’appena citata coppia de Il Rio tra i fondatori dell’associazione Appennino toscano – Vignaioli di Pinot Nero, che nell’ultimo annuale appuntamento di Eccopinò ha offerto un’eccellente fotografia del Pinot Nero prodotto in un territorio tanto vasto quanto vario, che vede esaltare talvolta il fiore e talaltra il frutto, qua il nerbo e là la carezza.

«Riportiamo al centro il sapere agricolo ma ancor prima la qualità delle relazioni umane», come ricordano il primo punto dello statuto e il portavoce Cipriano “Cipo” Bersanti. La sua azienda Macea «strappa lingue di vigneto alla roccia» tra l’Appennino e le Apuane, tra Lucca e la Garfagnana, ogni segmento della produzione si affida a «tecniche minimaliste ispirate da ancestrali saperi», per vini che portano nel bicchiere l’essenza del frutto trovando uno stile assai originale. Il fronte settentrionale dell’arco appenninico è presidiato dall’azienda Casteldelpiano, in Lunigiana, e si specchia nel lieve e verticale Pinot Nero Melampo, mentre quello meridionale vede protagonisti il Casentino (citiamo il lavoro di Marco Biagioli con Ornina) e la Valtiberina (impressiona il Sopra firmato Brena, dai 700 metri della montagna cortonese).

Bottiglie di Pinot Nero di Macea

Tornando verso il Mugello, in quel di Dicomano (già area di Chianti Rufina) troviamo il gioioso Pinot Nero di Borgo Macereto, i sentori ematici espressi dalla fattoria Il Lago e quelli più “sangiovesizzanti” di Frascole. A Vicchio c’è la giovane storia di Bacco del Monte, a Borgo San Lorenzo il Baccarosso di Tenuta Baccanella (avventura innescata da un viaggio in Borgogna), a San Piero a Sieve lo spumante Primum della Fattoria di Cortevecchia, solo Pinot Nero per un tripudio di freschezza e sapidità.

«Per quanto decennale, l’avventura del Pinot Nero d’Appennino si può dire appena cominciata», ricorda Michele Lorenzetti di Terre di Giotto. «E parliamo di una varietà complessa, che chiede tempo, conoscenza, lavoro, ancor più con le attuali variazioni climatiche: ogni vendemmia va saputa interpretare diversamente». Lui a Vicchio del Mugello c’è arrivato da Frascati, ipnotizzato «dal tono brillante di questa luce e dai tanti progetti di biodinamica», che può seguire in qualità di enologo; Gattaia è il suo Pinot Nero profondo e sfaccettato, minerale, in parte vinificato coi raspi, evoluto in cemento e barrique.

Dal castello mediceo alla vigna in altura

Testimone di una storia secolare è la magnifica Tenuta Cafaggiolo, nell’omonima località di Barberino del Mugello, valorizzata dal cuore e dagli investimenti dell’imprenditore argentino Alfredo Lowenstein, affiancato dalla moglie Diana. Centrale la ristrutturazione del castello mediceo (il primo certificato fuori dalle mura di Firenze, patrimonio Unesco), non secondaria l’attenzione al fronte vitivinicolo per il quale Lorenzo de’ Medici rendicontava le vendemmie già nella seconda metà del Quattrocento.

Castello di Cafaggiolo e le vigne della tenuta

Biodiversità e agricoltura biologica, per un Pinot Nero tra i primi prodotti in zona che dà vita alle etichette Averardo (da vigne giovani), Fortuni (il cru), Pater Patriae (da selezione di grappoli), La Nencia (rosato). Ultimo ma non ultimo, tra i filari di questi poderi si era formato il giovane Simone Menichetti, che dopo altre esperienze si è ritagliato la sua vigna privata a mille metri di altitudine, «con mio zio che mi scrutava beffardo quando piantavo viti laddove venivano bene solo le patate». Terre Alte di Pietramala corona il sogno di quando Simone era bambino, avere un’azienda tutta sua che prende il nome da una località in prossimità del passo della Raticosa e finisce subito sotto i riflettori. Si punta sul Pinot Nero, «l’unico vitigno che può maturare bene lassù», si veda il Malapietra, vino rosso quasi trasparente, balsamico quanto affilato, specchio dell’annata e della sua indole appenninica.

La corsa è appena cominciata?

Non sarebbe affatto concluso il giro regionale del Pinot Nero, varietà che trova adepti persino nel Chianti Classico: si prenda Il Chiuso del Castello di Ama o La Pineta di Podere Monastero. All’ombra del monte Amiata, Charlotte Horton segue il suo personale percorso con il vigoroso Piropo del Castello di Potentino, mentre l’oasi dell’enologo Federico Staderini si chiama Cuna e produce solo Pinot Nero nel comune di Pratovecchio (Arezzo). Vecchi e nuovi protagonisti accorrono e concorrono, si confrontano e procedono per la loro strada; il romanzo va scrivendosi pagina dopo pagina, mai avaro di sorprese, accompagnandoci in evoluzioni ancora tutte da scoprire.

Maggiori informazioni

In apertura: grappoli di Pinot Nero tra i filari di Tenuta Cafaggiolo

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