Partiamo subito col dire che “pacchero” in napoletano significa “schiaffo”, e non un buffetto affettuoso ma un gesto molto violento. Com’è che questo termine è finito sul cibo? I paccheri sono uno dei formati di pasta più riconoscibili e amati della cucina italiana. Tipici della tradizione partenopea, ma ormai diffusi in tutto il Paese, si distinguono per la forma cilindrica e generosa, perfetta per raccogliere sughi densi, condimenti di mare e preparazioni al forno. A Napoli, però, li si chiama spesso “schiaffoni” (per l’appunto), un termine popolare che accompagna la loro storia linguistica e gastronomica. Dietro questi due nomi si nasconde un racconto di lingua, cultura e quotidianità, che attraversa secoli di abitudini alimentari e riflette lo spirito vivace della città.
Paccheri e schiaffoni: due nomi per la stessa pasta
Oggi i termini “paccheri” e “schiaffoni” vengono utilizzati in modo intercambiabile per indicare lo stesso formato di pasta. Entrambi derivano, però, dallo stesso concetto linguistico e fonetico: quello del “colpo” o dello “schiaffo”. Nell’uso colloquiale l’espressione “dare un pacchero” indica una manata o uno schiaffo.
Il collegamento con la pasta nasce dal suono caratteristico che i paccheri producono quando vengono versati nel piatto o mescolati con un sugo abbondante: un rumore secco e deciso, simile a quello di uno schiaffo dato a mano aperta.

Secondo alcune fonti etimologiche, il termine “pacchero” affonda le sue origini nel greco antico, da cui derivano molte parole del dialetto napoletano. Dalla fusione dei termini “pas” (tutto) e “cheir” (mano), nasce l’idea di “colpo dato a mano piena”, un gesto che, nel linguaggio popolare, si è trasformato in “pacca” o “schiaffo”.
Questo passaggio semantico è diventato con il tempo una metafora efficace per descrivere la fisicità e la forza del formato: una pasta “importante”, che si fa sentire nel piatto, capace di rievocare anche nel suono il suo legame con la tradizione napoletana.