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Acciughe di Sciacca, oro del Mediterraneo

Storia, numeri e futuro di un’economia che resiste tra crisi della pesca, mancanza di manodopera, export e nuove generazioni.

All’alba, sul porto di Sciacca, nell’agrigentino, il rumore delle barche che rientrano e l’odore di salsedine raccontano una storia che si ripete da generazioni. Qui le acciughe non sono solo un pesce azzurro: sono identità, lavoro, memoria. Un “oro del Mediterraneo” che ha fatto grande questa marineria – seconda flotta peschereccia della Sicilia per tonnellaggio, dopo Mazara del Vallo – e che ancora oggi resiste, nonostante un mare sempre più povero, la fuga dei giovani da un mestiere faticoso e la concorrenza dei colossi stranieri. 

La voce dei pescatori, tra le difficoltà del presente e la nostalgia del passato

«Mi chiamo Accursio Sabella e sono un pescatore di terza generazione». Si presenta così, con orgoglio e un filo di emozione, uno degli ultimi testimoni di una marineria che ha fatto la storia di Sciacca. Suo padre iniziò a solcare il mare nel 1913, quando ancora le barche andavano a vela. Lui, da adolescente, ha seguito la stessa rotta: oggi sono 37 anni che vive di pesca. Ricorda i tempi in cui si portavano a terra anche 150 cassette di gamberi da 12 chili l’una.

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Oggi, in cinque giorni di lavoro, si arriva a 60 o 70. «La mia pesca riguarda soprattutto polpi, totani e gamberi», racconta, «che vendo sia all’ingrosso sia direttamente nelle nostre attività. Le sardine e le acciughe sono sempre più scarse, ed è difficile mantenere un equilibrio in mare». Il mare si è impoverito, le regole europee impongono limiti sempre più rigidi, i giovani non vogliono più salire a bordo. «La vita del pescatore è dura, lontana da casa e con guadagni ridotti», ammette. «Per questo molti ragazzi scelgono altre strade e tante barche restano ferme senza equipaggio. Oggi a Sciacca ci sono circa 45 richieste di demolizione di imbarcazioni, ma ne sono state accettate appena una decina. È il segno di una crisi che pesa su tutta la marineria». Eppure, Sciacca resiste: le barche sono diminuite (attualmente 120 di cui circa 90 di grandi dimensioni), ma la flotta continua a navigare, mentre il mestiere in declino del pescatore si trasforma. E la famiglia di Sabella ne incarna bene l’evoluzione: mentre Accursio resta legato al mare, i figli hanno scelto altre strade. La figlia, con una laurea in economia a Milano, ha riportato innovazione suggerendo l’apertura di un fish bar, un modo più smart e diretto per proporre il pesce. Non più la vita dura di bordo, ma un’idea che chiude la filiera e la porta dal mare al piatto, con una nuova visione generazionale.

Dal mare all’impresa: la qualità artigianale che sfida i mercati

Accanto ai pescatori, Sciacca ha sviluppato un tessuto di aziende ittiche conserviere – ormai 11 appena rispetto alle 50 del passato – che oggi generano circa 20 milioni di euro di fatturato complessivo. Realtà nate spesso in ambito familiare, cresciute mantenendo salda la tradizione artigianale, ma capaci di dialogare con il mercato globale. Tra queste spicca la Scalia, azienda fondata da Benedetto e oggi guidata dai figli Baldo e Maria. Una realtà che ha fatto del connubio tra tradizione e apertura internazionale la propria cifra distintiva.

L’azienda Scalia: tradizione artigianale e sfida globale

«La cosa più importante, quando si lavora il pesce, è la freschezza», afferma Baldo Scalia. «Bisogna lavorare sempre pesce di giornata». Da qui parte tutto: le acciughe, pescate nel Mediterraneo, della specie Engraulis encrasicolus, arrivano fresche in azienda e subito vengono lavorate manualmente. Nessuna macchina per la decapitazione o la sfilettatura: «In un gesto togliamo testa e interiora, e subito dopo avviene la salagione: uno strato di acciughe, uno di sale. È la base di un prodotto che stagiona in ambienti naturali, da sei mesi a un anno».

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Oggi Scalia conta 40 dipendenti (15 dei quali ragazzi extracomunitari con storie di riscatto), esporta in 80 paesi e cinque continenti, e ha raggiunto nel 2024 un fatturato di 9 milioni di euro (+30% rispetto al 2023). La previsione per il 2025 è di superare i 10 milioni. Una crescita controllata, che non dimentica la dimensione familiare.

Baldo ammette con franchezza le criticità: «Oggi non possiamo più fare la filettatura in Italia, per i costi e la manodopera che non c’è. La facciamo fare in Tunisia e Albania, ma solo questa fase: il confezionamento rimane interamente qui, a Sciacca. È una nostra scelta aziendale, perché vogliamo che ogni barattolo che gira nel mondo sia al 100% Made in Italy».

I numeri raccontano lo sforzo: fino a 20mila barattoli al giorno, circa 2 milioni all’anno solo per una referenza. Ogni acciuga è sistemata a mano nel vaso; l’unica automazione riguarda la fase finale, con sottovuoto, tappatura e lavaggio.

Eppure, il costo rimane alto: da un chilo di acciughe fresche (pagato 2,50-3 euro) si ricava solo il 20-25% di prodotto finito. «Alla fine – dice Scalia – il nostro costo reale è 5-6 euro al chilo. Per questo quando vedete un barattolo a 3-4 euro al supermercato, non è caro: dietro c’è un lavoro enorme, manuale e faticoso».

Dai dazi alle sfide del mercato. E le differenze con le acciughe del Cantabrico

Le acciughe vanno oltre Sciacca. L’azienda Scalia, tra le più grandi, ha uffici commerciali a Tokyo, Pennsylvania, Melbourne e Toronto. L’export è strategico: negli Stati Uniti, ad esempio, la società ha affrontato la questione dei dazi con una scelta coraggiosa. «Abbiamo diviso il peso dei dazi con i distributori – racconta Scalia – per non scaricare i costi sul consumatore». Una politica premiata: in sei mesi il fatturato USA è raddoppiato. Oggi l’America vale il 20% del giro d’affari, superando il Giappone, che per anni era stato il primo mercato estero.

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Nel mondo il confronto è con i colossi spagnoli, che detengono il 60-70% del mercato globale. Ma le acciughe di Sciacca continuano a distinguersi: «Le acciughe del Cantabrico e quelle del Mediterraneo, in particolare di Sciacca, non sono la stessa cosa. La differenza si vede già dal metodo di lavorazione: in Spagna usano le pinzette per togliere con precisione tutte le spine, un lavoro certosino che fa salire parecchio il prezzo. Non è che siano molto più grandi, ma hanno una consistenza più carnosa e compatta, più belle da vedere e da mangiare. Il punto vero, però, è il sale – spiega –. Le acciughe del Cantabrico vengono quasi del tutto dissalate: le lavano in acqua per renderle più delicate. Questo però ha un costo in termini di conservazione: al massimo tre mesi di durata, devono restare a temperatura tra 0 e 4 gradi e, una volta aperte, vanno consumate entro due o tre giorni. Le nostre invece no: mantengono tutto il loro sale naturale e per questo si possono conservare anche per anni nei barili. E quando si aprono, restano buone e integre per mesi. È il sale a fare da conservante, senza bisogno di altro. Sul mercato internazionale oggi le acciughe del Cantabrico hanno una presenza enorme. Ma il Mediterraneo resta importante: finché c’è pesce, c’è lavoro e c’è domanda». 

L’acciuga a tavola

L’acciuga, però, non è solo industria. È cultura gastronomica che a Sciacca si vive anche a tavola. Per chi vuole assaporarla c’è il Fish Bar Ammari, oppure ristoranti di nuova apertura come La Vela o storici come La Lampara, dove il pescato viene valorizzato in chiave contemporanea.

E a fine agosto, la città celebra la sua identità con Azzurro Food, la manifestazione che valorizza e promuove le tradizioni culinarie locali, a partire proprio dalla lavorazione delle acciughe. Un momento di convivialità per degustare prodotti tipici, pane cunzato e hamburger di pesce. Una festa del gusto e della memoria, che ricorda come Sciacca continui a resistere, tra fatica e orgoglio, con il mare nel cuore.

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