Il trionfo del Bar Leone come miglior cocktail bar al mondo mi ha fatto sorridere e mi ha reso felice perché, pur non conoscendo né Antinori (il fondatore) né nessun altro che fa parte del team, mi ha fatto ben sperare per il futuro. Vedere lassù in cima un bar con i gagliardetti della Roma, le foto di Mazzone, Pruzzo e Sergio Leone, un locale in cui perfino i colletti delle divise sono ispirati alla squadra capitolina non può far altro che rendere felice un appassionato di calcio, anche se tifa per una squadra rivale. Su Instagram il tagline recita il claim “Cocktail popolari” con i cerchietti rossi e arancioni che rimandano alla Roma. Perché questo è il bar all’italiana: prima ancora dei Negroni, delle olive e dei tarallini; il bar all’italiana è polemica, è scontro ideologico, è una polis in cui ti incontri con uno sconosciuto e dopo qualche minuto gli chiedi un lavoro se non ce l’hai. È dove incontri il politico locale da rimbeccare e fai le prime uscite con tuo figlio perché ce l’hai sotto casa e tutti lo vogliono vedere. È dove vai con la fidanzata non alla prima uscita, ma dopo un paio di appuntamenti perché ti senti a casa e vuoi che ci si senti anche lei. Il bar all’italiana è il bar sport di Stefano Benni. Ma sono sicuro che ciò che vi ho descritto vi sembra al contempo familiare e nostalgico. Sapete perché? Perché il bar all’italiana non esiste più. Il Bar Leone è un fantasma che girovaga per casa nostra alla ricerca di una collocazione che non trova ma di cui sente la necessità.
Il canto del cigno della mixology italiana
Per anni, la mixology ci ha abituati a un’idea sempre più cerebrale, complessa, a tratti persino ostentata. Abbiamo assistito all’ascesa di cocktail bar minimalisti, laboratori di ridistillazione spinta, spazi dove il bancone appariva più un altare asettico che un punto di incontro conviviale. Per me l’innovazione è un pilastro, ma non al prezzo di sacrificare l’identità fondamentale del luogo.

L’annuncio che il Bar Leone di Hong Kong fosse il fresco vincitore della 50 Best Bars è arrivato come un colpo di scena anche se se lo aspettavano in molti. Sarà il “miglior bar al mondo”? Difficile da dire e personalmente non credo molto alle classifiche come senso assoluto: per restare sul tema calcistico, si può discutere su chi sia il migliore tra Maradona e Messi ed entrambe le fazioni avrebbero ragione quindi classificare in maniera netta e decisa delle attività imprenditoriali è esercizio arduo se non impossibile. Però le classifiche spesso dettano i trend e in particolare questa, di solito lo fa per dire qualcosa.
Dopo un decennio dominato dai concept bar dalla natura complicatissima, da garnish edibili e da alchimie spinte, il fatto che il vincitore sia la versione moderna di un bar all’italiana anni ’70— completo di convivialità rumorosa, cocktail facili e iconici come il Negroni, e l’immancabile Italian foodporn come il panino con la mortadella (dedicato a Gabriel Omar Batistuta) — trasmette un messaggio inequivocabile: l’essenza popolare, diretta e senza fronzoli del bar è tornata in primo piano.
L’estetica del desueto del Bar Leone
L’operazione del Bar Leone non è una mera innovazione, ma una riscoperta radicale. Il loro successo poggia su un’estetica che, nel panorama italiano, è tragicamente scomparsa. Mi riferisco a quell’aura, a quell’odore di pelle, caffè e alcol, a quei poster sul calcio e al gagliardetto col lupetto ideato da Piero Gratton, a quei banconi vissuti che narrano decenni di storie (eppure il Bar Leone è nato nel 2023). È un’immagine di una potenza evocativa disarmante.

Il menu è notevole nella sua semplicità: drink iconici eseguiti tecnicamente alla perfezione. Il piatto simbolo è il panino con la mortadella e potete trovare cornetti o maritozzi sotto la classica campana trasparente di porcellana. È un bar diretto, senza sovrastrutture. Questo ci pone davanti a una domanda cruciale: se un’idea così intrinseca, così pura, viene premiata a livello globale da un locale situato a migliaia di chilometri da Roma o Milano, qual è lo stato di salute dei nostri esercizi? Purtroppo non so dare una risposta perché probabilmente un bar del genere in Italia fallirebbe miseramente.
Il problema non è la carenza di talento – che, anzi, fiorisce in diverse eccellenze proprio in questa classifica con oltre 10 italiani a capo dei bar nei primi 50 posti– ma la perdita di identità di quel tessuto sociale che un tempo era il bar di quartiere.
Il Bar Leone è lo spettro che aleggia sui nostri locali. I bar che dovrebbero incarnare questa estetica, i nostri autentici “bar all’italiana”, sono spesso desueti e bloccati in un inerte limbo temporale. Sono gestiti in gran parte da eredi che hanno ricevuto l’attività dai nonni ma che, per stanchezza imprenditoriale, mancanza di visione o timore del cambiamento, non l’hanno mai innovata. Hanno proseguito con un approccio inerziale, trasformando la tradizione in un passatismo stantio.
Così facendo, l’anima stessa del locale viene soffocata. Il Martini è preparato con svogliatezza, quasi come fosse un favore. Lo Spritz è di un inquietante colore arancione fosforescente. E non parliamo del Gin Tonic. Il panino è un tramezzino privo di carattere, ai limiti dell’HACCP. L’estetica da luogo vissuto degenera in trascuratezza e obsolescenza. La mancata capacità di prendere la solida base tradizionale e iniettarle la linfa vitale della mixology moderna (non stravolgendola, ma elevandola) ha reso i nostri bar, in molti casi, luoghi malinconici e irrilevanti.
La vittoria del Bar Leone non è solo una classifica: è il canto del cigno per un certo sistema di fare e giudicare i bar. Il collega Andrea Strafile sui social si chiede quale sarà lo scenario futuro? Come si potrà mai superare, in termini di purezza concettuale, l’idea di bar che questo locale di Hong Kong incarna? Secondo Strafile non si può e anche la mia conclusione è così netta perché, cito testualmente, «non è possibile sconfiggere un’idea così pura di socialità, qualità e semplicità».
Portando questa idea in vetta, il sistema dei Best Bars ha paradossalmente messo in crisi la sua stessa logica: qualsiasi vittoria futura, basata su concetti iper-strutturati o su servizi esageratamente asettici, «non avrà mai la stessa risonanza o lo stesso senso di questa» conclude il collega. La strada delle complicazioni insensate ha toccato il suo punto di rottura.
L’Italia ha abdicato al suo bar più autentico e ora deve guardare all’Asia per ritrovarne la vera essenza. Dobbiamo comprendere che la vera innovazione non risiede nell’aggiungere, ma nel sottrarre l’eccesso e nell’esaltare l’autentico. Bar Leone è la prova lampante che la qualità onesta e l’umanità del servizio trionfano sempre sull’artificio. È ora che i nostri operatori colgano il segnale per un’urgente e necessaria rigenerazione del nostro spirito.