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Pieropan Soave

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Calvarino, l’inno di Pieropan al Soave “autentico”

La cantina nata tra le mura della città-rocca e oggi scavata nelle colline fuoriporta celebra quest’anno i cinquant’anni di un’etichetta che ha fatto storia. L’assaggio in verticale ne conferma la longevità (senza legno).

Il vino bianco ha bisogno del legno per guadagnare longevità? Per la verità, si tratta di un preconcetto che (troppo spesso) spinge enologi e vignaioli a sovrascrivere la natura di alcuni vini con una tessitura aromatica derivata dall’affinamento in legno. E se quell’arrotondamento pacato che offre la botte grande, magari non nuova, consente di preservarne la struttura, spesso l’utilizzo di barrique (soprattutto se nuove) aggiunge nel calice speziature e burrosità che poco hanno a che fare con il vitigno. Da dove nascono i dubbi sulla necessità di questo intervento? Plausibilmente dall’esperienza. A testimoniarlo senza enfasi, ma con il garbo che esprime nel calice, è un gioiello enoico che porta la firma indelebile di Leonildo Pieropan. Compie infatti cinquant’anni il Calvarino, etichetta storica di Pieropan (tra le nostre 50 Cantine Top 2022) che gioca le sue carte dopo aver assunto una maturità piena. E assaggiato in verticale dimostra non solo una tenuta strepitosa, ma anzi una espressività che rende giustizia a quella spinta acida che ne caratterizza gli anni giovanili.

Dal cemento al vetro

Il Calvarino racconta dunque una storia differente perché, fin dall’inizio, la scelta di Leonildo Pieropan è stata di preservare il vino dall’influenza lignea, utilizzando esclusivamente cemento e vetro per l’affinamento. Risultato? Un vino capace di restituire l’essenza di un territorio, di due vitigni, ma soprattutto capace di incarnare un’identità forte. Se infatti si possono utilizzare spunti comparativi con Riesling o Montrachet – che in generale rappresentano un confronto lusinghiero – per suggerire il livello di complessità o l’evoluzione verso richiami idrocarburici, rimane indiscutibile il carattere peculiare di un vino figlio di Garganega e Trebbiano di Soave nato da terreni vulcanici. Forse allora non sono interventi esterni a dare longevità a un vino, ma piuttosto la natura stessa del vitigno accompagnata con rispetto a esprimersi appieno. Qual è allora il segreto di questo vino che ha fatto la storia del Soave e di Soave? Innanzitutto la terra, dunque il vigneto. E ne era ben consapevole Leonildo Pieropan che nel 1971, spinto anche da Luigi Veronelli, decide di etichettare come “Vigneto Calvarino” il vino proveniente dal fondo proprietà di famiglia dal 1901, un piccolo “Calvario” difficile da lavorare a causa delle pendenze importanti e del suolo ricco di roccia basaltica. Oggi sembra una cosa scontata, ma Pieropan è stato tra i primi in Italia a utilizzare il nome dell’appezzamento.

“Bevi il vino e conosci chi lo fa”

Grazie al Calvarino, Leonildo e Teresita Pieropan riescono a far capire le potenzialità di questo territorio, iniziando a farlo conoscere al mondo e facendo da apripista alla valorizzazione delle singole parcelle, ognuna intesa come un’espressione unica e identitaria. «Mio marito era un visionario – dice la moglie di Leonildo, Teresita Pieropan – e ha sempre detto che il Calvarino è il vero Soave, perché incarna il territorio e rispetta la voce del vino senza compromessi. E spesso ripeteva una cosa: “Quando bevi un vino, conosci la persona che lo fa”. Ecco perché nel Calvarino trovi la sua sincerità, l’integrità di un uomo che ha sempre creduto nel potenziale del Soave». Restio alle mode, «Leonildo snobbava i premi quando venivano assegnati ai vini affinati in legno – rivela Teresita – e ha sempre voluto rimanere fedele alla scelta di valorizzare il vino come nasce». Per dare “voce” al terroir, Leonildo scelse di giocare sul potenziale evolutivo e ponderò un lungo affinamento, più di un anno a contatto con le fecce fini. E grazie a un’intuizione del figlio Dario (oggi l’enologo della cantina) dal 2003 esce sul mercato un anno dopo.

Calvarino da cinquant’anni

Oggi vigneto Calvarino si sviluppa su 8 ettari e porta alla produzione di circa 70mila bottiglie. E con 50 vendemmie alle spalle, può giocare il ruolo di vino-bandiera per Pieropan. «Questo per noi è un anniversario molto importante – spiega Andrea Pieropan che con il fratello Dario rappresenta la quarta generazione – Vigneto Calvarino ha segnato una svolta nel panorama del vino bianco italiano, perché con esso si è capita l’importanza dell’interpretazione di un terroir. Papà ha saputo e voluto armonizzare il rapporto uomo, territorio e vitigno in un vino unico ed esemplare, ponendo una pietra miliare per l’enologia italiana». Dario Pieropan aggiunge: «Vigneto Calvarino è per noi il vino di famiglia e continuiamo a seguire quanto mio padre ci ha insegnato. L’uso sapiente del cemento e il lungo affinamento hanno reso questo vino, nato cinquant’anni fa, ancora straordinariamente moderno e vitale».

Longevità da scoprire (e prezzare)

L’assaggio in verticale conferma il carattere del Calvarino, connotato da una tensione affilata e da evoluzioni legate ai suoli vulcanici che confermano una longevità strepitosa. Gli anni più recenti già esprimono un tessuto affascinante. Dalla freschezza acida del 2021, con un calice che restituisce fiori bianchi essiccati, pietra bagnata, mandorla e miele di acacia, all’austerità materica del 2016, già più evoluto verso l’idrocarburo pur se addolcito da toni di mandorla e bergamotto. Arretrando però al 2010 l’acidità cremosa e l’idrocarburo danno slancio al vino, in cui sentori agrumati e di fiori umidi danno respiro alla mineralità, mentre il 2005 è un mix esplosivo di fiori gialli, dolcezze balsamiche e tensione citrica. Stupiscono poi gli anni 90, con un 1992 in equilibrio verticale tra goudron, roccia e marzapane, con un finale dalla densità oleosa e nitida, ma anche un 1990 dove l’ossidazione mostra il suo lato più affascinante, con spunti erbacei che lo rendono elegantemente delizioso per palati particolari. Per arrivare a un 1987 che denuncia la longevità assoluta del Calvarino, con acidità ancora spiccata e idrocarburo elegante, una splendida tensione che sfumature erbacee aiutano a rendere intrigante. Difetti? Forse lo scarto tra la natura del vino – che potrebbe esser annoverato tra i fine wines italiani – e il prezzo “imbarazzante” al pubblico, che per le nuove annate sul mercato rimane vicino ai 25 euro.
Qualcosa però sta cambiando: l’attenzione verso le annate più vecchie sta crescendo – soprattutto tra i ristoranti di livello – e da qualche anno la cantina accantona 1500 bottiglie per ogni annata, destinate al rilascio successivo, disponendo dunque attualmente di una library di 24mila bottiglie.

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