Il sugolo è un dolce antico della tradizione contadina del Nord Italia, preparato durante la vendemmia con mosto d’uva (talvolta uva fragola o Lambrusco) legato con farina, senza latte né altri prodotti caseari, spesso senza zuccheri aggiunti, salvo in versioni recenti. È una crema densa, dal colore vivo – violaceo o rossastro se si usa uva scura – dal sapore dolce-aspro, profondo, che richiama immediatamente l’aroma del mosto fresco. Viene consumato freddo o a temperatura ambiente, spesso come dessert al cucchiaio, come merenda, oppure come companatico, ovvero abbinato al pane o a dolci tipici locali.
La storia del sugolo
Il sugolo nasce nei contesti rurali lungo il fiume Po, dalle campagne del Mantovano, del Polesine, del Ferrarese, con varianti che si estendono anche in Emilia-Romagna. Agli antenati del sugolo si attribuisce una funzione pratica: nulla andava sprecato durante la vendemmia, e il mosto avanzato, non adatto sempre alla vinificazione, diventava materia prima per un dolce che assicurava calorie e gusto nei mesi freddi.
In molti casi il sugolo è stato anche merce di condivisione sociale e memoria familiare: veniva prodotto dalle massaie nelle case, tramandato di generazione in generazione, con nomi diversi a seconda del dialetto: sugol, sugal, sugoli. Un documento del 1691 custodito a Mantova descrive il sugolo come “nettare degli dei… licor, se non divino, almeno di mosto… elisir della vita”.

Nel territorio mantovano, il sügol ha ottenuto dallo stato comunale d’origine (De.C.O.) nel 2021, con una designazione che ne salva la ricetta tradizionale e le varianti locali, inclusa quella chiamata “crepada”, ovvero fatta con uva che “crepa” durante la bollitura (cioè gli acini si spaccano) conferendo colore e profumo più intensi.
Come si fa il sugolo
La ricetta più classica richiede pochi elementi: mosto d’uva (preferibilmente uva nera o uva fragola), farina (bianca, 00, oppure miscelata con farine locali in alcune varianti), acqua solo involontariamente presente nei componenti dell’uva. Lo zucchero aggiunto è assente in molte versioni antiche, perché il grado di dolcezza è fornito dall’uva stessa; tuttavia versioni moderne ammettono piccole aggiunte di zucchero per bilanciare l’acidità.
Nel procedimento tipico si lavano gli acini, si mettono sul fuoco finché la buccia non “crepa” (da cui “crepada” in alcune versioni), poi si schiacciano o si passano per ottenere il mosto. Si stempera la farina nel mosto, mescolando bene per evitare grumi, si cuoce lentamente finché il composto non si addensa. Una volta tolto dal fuoco, si lascia raffreddare in ciotole o contenitori, spesso esposto al freddo naturale. Se conservato, può svilupparsi sulla superficie una sottile pellicola bianca (o una muffa non dannosa secondo la tradizione), che alcuni intenditori considerano parte del fascino e della autenticità.
Le varianti sono però numerose, locali, e legate al dialetto, all’uva disponibile, alle abitudini domestiche. Alcune versioni utilizzano uve bianche; altre miscele di farine, anche farine rustiche o di mais. Talvolta si aggiunge pangrattato in alcune zone (per struttura più ruvida) o si combina con farina di mais.