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Borsch

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Fate la zuppa, non fate la guerra

Cosa dobbiamo sapere del borsch, la tipica minestra ucraina che unisce i popoli. Come tutto ciò che diventa tradizione è stata soggetta a revisionismi culinari (oltre che storici), ma ci sono alcuni comuni denominatori: il brodo, la rapa rossa e una cottura paziente che sa di rivoluzione. A Roma potrete assaggiare quella più buona della vostra vita.

“Ci sono molti modi per sostenere l’Ucraina. Ma per cominciare: cucina, assaggia, senti e condividi”. Questo (in parte) il post Instagram pubblicato recentemente dall’ucraino Evgen Klopotenko, vincitore di MasterChef Ucraina, che fino a 15 giorni fa era “solo” uno dei giovani chef più talentuosi al mondo. Oggi raziona pasti caldi ai suoi concittadini di Kiev dopo aver convertito il proprio ristorante a rifugio per i civili e bunker per i militari che si stanno opponendo a una coraggiosa resistenza. “Cuciniamo il borsch anche adesso, quando le bombe cadono sulle nostre strade e sentiamo il rumore degli aerei da guerra”.
Il borsch (conosciuto anche come borscht o boršč) è molto antico e con le dovute differenze si mangia anche in Bielorussia, Moldavia, Polonia e nei paesi baltici. È lo stesso cibo che ha fatto litigare russi e ucraini a causa del tentativo di appropriazione culturale da parte di Mosca, una vicenda che ricorda un po’ “la guerra dell’hummus” tra Libano e Israele, una minestra per cui ancora oggi l’Ucraina rivendica la paternità di fronte all’Unesco.

È la consolazione salata di Nataliya Horodetska, sociologa ucraina prestata alla ristorazione, che prepara il borsch più buono di Roma, anche perché è l’unica in città a battere bandiera color “cielo blu sopra i campi di grano” con la sua insegna. «Quando vai al ristorante all’estero è presentato come piatto russo, ma le prime apparizioni di borsch risalgono al 1584 nei quaderni di Martin Grunverg, un viaggiatore tedesco di passaggio a Kiev». Al ristorante Kniazhyi Dvir nel quartiere Appio-Latino Nataliya è una di quattro soci, insieme a suo marito e un’altra coppia di connazionali; tra di loro, Volodymyr Borovik – omonimo del presidente ucraino -, che lo  scorso febbraio è partito per la guerra in veste di volontario. Aperto a ridosso del primissimo lockdown, pur non avendo ancora una vera e propria memoria storica, è stato l’indirizzo dove negli ultimi due anni gli ucraini – e non solo – sono andati a mangiare (bene) ucraino a Roma. Difficile farla arrossire, ma tra i complimenti che le hanno dato il segnale che le cose stessero andando nel verso giusto quello di un compatriota gourmand giramondo e residente a Monaco che una sera fece una doppietta per assaggiare tutto il menu e definirlo migliore dell’iconico Veselka nell’East Village di New York. «La nostra è una cucina casalinga e il piatto più famoso è, appunto, il borsch che in Italia chiamiamo impropriamente zuppa, a base di ingredienti comuni a molte altre nostre ricette. Quindi, patate, cavolo, cipolla, carote e soprattutto barbabietola che dà il tipico colore rosso. Poi, ogni famiglia la caratterizza come vuole, chi ci mette il brodo di carne o quello vegetale, e ancora fagioli e tante erbe di stagione. Ah, non manca mai la panna acida per accompagnare. È un piatto che unisce gli ucraini».

Per prepararlo si impiegano dalle 3 alle 5 ore. È abbastanza laborioso e ogni famiglia ha il proprio segreto. Se un ucraino si presentasse a casa vostra a cena, Maryana Zelisko non ha alcun dubbio: preparate il borsch. La pasticcera di Leopoli che a Roma fa dolci campani cucina raramente il borsch ma quello di Nataliya le ha ricordato la sua infanzia. «Insieme ai varenyki, ovvero dei ravioli di pasta acqua e farina, è il cibo più caratteristico delle feste. In questi giorni sto ospitando i miei nipoti, Roman e Olena, fuggiti dalle bombe, e loro una sera hanno organizzato una sorpresa per me, chiudendo a mano queste mezzelune ripiene di patate». La zuppa è toccata a lei: stava là, sul tavolo, a commuovere lo stomaco e i pensieri, come una colata di lava in ingresso che cerca di cancellare freddo, tristezza e paura.

Ad appassionarsi a questa tradizione anche l’italiano Cristiano Sabatini, alias @bike_chef, secondo cui la pace con la Russia passa per il borsch, almeno così dichiarava nella giornata internazionale dedicata all’amore. Il cuoco cinquantenne di Orvieto che viaggia su due ruote e ha cucinato la carbonara sull’Everest o al circolo polare artico, lo scorso novembre ha pedalato fino a Chernobyl per amalgamare i prodotti tipici del territorio al posto di uova, guanciale e pecorino: quindi, barbabietole, salo, ovvero del lardo autoctono, e vodka per sfumare un ricordo di borsch che quando la Russia ammetterà come ucraino allora sì che sarà il primo passo verso la libertà, almeno gastronomica.

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Foto copertina: Shutterstock

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