C’è una scena di Peaky Blinders, in cui Tommy Shelby, il protagonista, scruta il fuoco che arde nel camino del Garrison Pub. È uno sguardo perso e vigile insieme, come se dentro a quelle fiamme si agitassero le stesse contraddizioni della sua anima irrequieta. È quella fiamma a raccontare la sua personalità più di mille parole. Così è in cucina: il fuoco vivo è da sempre l’antieroe del fine dining, un protagonista che sfugge al controllo, che brucia, che impone rispetto e non perdona la distrazione. Ma proprio come gli antieroi più riusciti di letteratura e cinema – da Edmond Dantès a Paperino – è quell’imperfezione, quella ribellione al prevedibile, a renderlo vitale e a salvarlo dall’oblio delle repliche.
Oggi, nel cuore di un’alta cucina sempre più perfezionista e ipertecnologica, il fuoco riconquista spazio, non come nostalgia da folklore ma come atto consapevole. Un ingrediente vero, vivo, per cuochi che sanno di non poterlo dominare del tutto. È fuoco di brace, di legna, di fiamma viva: un fuoco che cuoce, affumica, trasforma e tradisce, ma che regala suggestioni irripetibili, accendendo ricordi e sapori profondi. Lo sanno bene molti chef che del fuoco hanno fatto strumento di ricerca, di memoria e di racconto. A loro abbiamo chiesto di parlarci di questo elemento che sfugge a ogni standardizzazione.
Non cambia solo la texture, agisce sul ricordo
Recanati è forse il capostipite di questa generazione appassionata di fiamme. Per lo chef di Andreina a Loreto, il fuoco è un ingrediente tanto quanto l’olio o il burro. Questa affermazione va ben oltre la semplice metafora: il carbone e il legno, con le loro essenze aromatiche, le loro combustioni lente o vivaci, non sono più visti solo come mero mezzo inerte, “freddo” per così dire, ma come elementi attivi, vibranti, che vivono e respirano, conferendo ai piatti sfumature aromatiche, sentori affumicati e consistenze rotonde o croccanti impossibili da replicare con altre tecniche. «Uso il carbone come materia viva: non è solo un metodo d’accensione, è un elemento aromatico che cambia a seconda della stagione e della legna che si brucia» prosegue Recanati. Ogni volta è diverso, unico. «Il fuoco non garantisce replicabilità. Eppure, lavorandoci, impari a sentirlo, a rispettarlo e usarlo per esaltare una materia prima senza snaturarla».

Secondo lo chef di Andreina il fuoco cambia tutto, soprattutto nel concetto: «In Italia abbiamo ancora i vecchietti che arrostiscono sull’arrosticella; la costoletta di maiale è uno dei ricordi indelebili di ogni essere umano. Più che nella texture, la griglia agisce sul ricordo». Per Recanati il rispetto, l’esperienza e la sensibilità possono sopperire alla violenza del fuoco anche perché «il concetto di standardizzazione lo userei per un tubo d’acciaio, non certo per una materia viva come il cibo. È proprio la forza della fiamma a esaltare gli ingredienti che traggono il meglio da questo tipo di cottura. Non a caso alla brace faccio di tutto: frutta, verdura, pasta, oltre ai classici carne e pesce. Tranne i camerieri, ci metto ogni cosa» dice scherzando lo chef. D’altra parte la ricetta simbolo di Andreina non è una bella bistecca alla brace o un pesce alla griglia ma un primo piatto: una rivisitazione della Cacio e pepe, precotta in acqua come da tradizione e finita poi sulla griglia con la cosiddetta “tecnica del cappello” inventata dal titolare di Andreina, ovvero coperta da una sorta di coperchio per non far fuoriuscire il calore. Altra caratteristica importante dei “signori del fuoco” è la capacità d’attesa: Recanati, ad esempio, fa un cavolfiore straordinario cotto confit nel burro per una notte e poi appeso al camino acceso per qualche ora così da conferirgli una caramellizzazione nella parte inferiore, quella rivolta verso la brace, lasciando intatto l’interno.
La forza dell’aggregazione
I professionisti che scelgono di confrontarsi con il fuoco vivo non cercano la perfezione sterile del controllo totale, quella che potrebbe facilmente sfociare in una cucina asettica e priva di anima, ma abbracciano la sua “umoralità”. Questo approccio implica una resa, una quasi sottomissione alla natura imprevedibile della fiamma, riconoscendola non come un ostacolo da superare, ma come una forza con cui collaborare. Per la canadese Jessica Rosval, chef de Al Gatto Verde e anima di Casa Maria Luigia a Modena (il progetto di Massimo Bottura sull’hospitality), la brace è un atto sociale prima ancora che culinario. «In Canada il barbecue è una festa, un modo per stare insieme, unire le storie intorno al fuoco. Dopo il lockdown ho voluto ricreare quello spirito. È diventato un rito, una cucina fatta di connessione umana. Cucinare sulle fiamme è diventato un atto di guarigione collettiva». Anche per lei, il fascino sta nell’indomabilità della fiamma. «Il fuoco ti costringe a esserci, non puoi demandare a un timer. Devi imparare a leggere il colore della brace, il suono dello sfrigolio, è qualcosa di primordiale e poetico. È un cibo che ha memoria, che ha una storia da raccontare».

La sua filosofia del fuoco è una ricerca continua tra legni di quercia, ciliegio, ulivo, ognuno con la sua voce distinta. «Cerco il chiaroscuro nel piatto, come nella pittura rinascimentale. Ombre di amaro e fumo bilanciate da lampi di acidità e freschezza. Quello che mi emoziona di più è il potenziale che il fuoco svela negli ingredienti più umili». Per la cuoca nordamericana questo tipo di cotture migliora enormemente il sapore dei piatti poveri: «Un porro, arrostito lentamente sotto le braci, diventa fumo e seta. Un pezzo di pane raffermo rinasce come briciola tostata e affumicata. Una mela cotogna, dura e dimenticata, si ammorbidisce e profuma di brace. Non è una questione di lusso, ma di rivelazione. L’aroma del fuoco è primordiale. Legna, zuccheri caramellati, quel profumo sul filo della combustione. Ma ciò che cerco davvero è la spinta e il richiamo: la croccantezza di una pelle bruciata contro la morbidezza della carne, la dolcezza arrostita accanto a qualcosa di crudo e acido. L’aggressività della fiamma contro l’eleganza della presentazione». Ne è un chiaro esempio la focaccia con olio alle erbe, servita bruciacchiata, oppure l’A4 La Serenissima, omaggio all’autostrada che taglia il Nord Italia: Fassona piemontese affumicata e cotta sul fuoco per un giorno intero, per farla diventare scioglievole come un bollito.
La brace come mezzo per far riavvicinare le persone al fine dining
Nella cucina di Podere Belvedere a Pontassieve, in provincia di Firenze, Edoardo Tilli usa solo fuoco vivo. «Non ho gas, niente induzione. Solo legna, brace e vetroceramica. È il modo più brutale, e al tempo stesso romantico, di cucinare». Ogni tizzone racconta una storia: «Il capriolo che mangia erbe selvatiche, lui che è l’unico brucatore purosangue e sceglie accuratamente le foglie da mangiare, lo cuocio accanto a vegetali altrettanto intensi, come la bietola, su una brace arrogante che li violenta e li nobilita insieme». Il fuoco, secondo Tilli, è «l’unica cottura che tutto il mondo usa ogni giorno», un «valore sentimentale inestimabile» che ci riconnette direttamente alla nostra essenza più ancestrale. È il focolare, il punto di ritrovo intorno al quale l’umanità ha mosso i primi passi verso la socializzazione e la cultura, un simbolo di comunità e condivisione.

La cucina sul fuoco non si limita alle classiche rosolature, ma esplora una gamma vastissima di possibilità: l’affumicatura lenta per brodi di profondità straordinaria fatti con gli scarti di carne e pesce, la bruciatura intenzionale per creare amarezze che bilanciano la dolcezza in modo inaspettato, e cotture lente che ammorbidiscono e trasformano i tagli più duri.
Anche per Tilli poi il fuoco è una lezione di attenzione continua. «Cambia la brace, cambia il vento, cambia la carne. Devi essere presente, sempre. È una cucina che non puoi standardizzare. È proprio questo il bello, è romantico: niente è mai uguale. Il fuoco diventa fondamentale nella ricerca della memoria. È sempre stato presente: quando abbiamo scoperto il fuoco, è cominciata la storia della cucina». Edoardo Tilli sottolinea come l’alta cucina, spesso ossessionata dalla replicabilità quasi maniacale, entri inevitabilmente in crisi con il fuoco, un elemento per definizione non replicabile. Ma è proprio la «mancanza d’autenticità» che sta facendo perdere alle persone la voglia di entrare in profondità, di essere travolte da un’esperienza culinaria che non sia puramente funzionale. La sbavatura, se raccontata con sincerità e maestria, diventa una perfetta imperfezione che nutre la relazione con il cibo e con chi lo prepara «anche perché l’alta cucina fatta di perfezione è fatta di spreco, di uno storytelling senza fondamento. La perfezione della tecnica sono in pochi a esprimerla nel mondo. Oggi abbiamo troppe copie». Questo contrasto, questa tensione tra il controllo e l’abbandono, è ciò che eleva la cucina a un’arte vibrante, un’espressione di un legame profondo e autentico tra l’uomo, la natura e il sapore. È una riaffermazione dell’importanza della sensibilità e dell’istinto del cuoco, valori che erano stati oscurati dalla ricerca ossessiva della precisione tecnica.
La necessità di riconnettersi con il primordiale
L’errore, l’esitazione, l’adattamento al momento: questi elementi, seppur non programmati, diventano parte del processo creativo. L’imperfezione, in questo contesto, si eleva a sigillo di autenticità, una firma inimitabile che rende il piatto “reale” e vibrante di vita, molto più di quanto un prodotto standardizzato e tecnicamente impeccabile potrebbe mai fare. Questo è il «brivido dell’irregolarità» che permette al cuoco di «ritrovare sensibilità», una sensibilità che le moderne tecnologie avevano forse sopito. «Poi è ovvio che se un qualcosa mi esce bruciato, non lo porto a tavola», ci rassicura scherzosamente Tommaso Tonioni, giovane chef di Arso. Il ristorante, oggi una promettente nuova apertura a Orvieto, affonda le sue radici in un pop-up di Pulicaro, un’azienda agricola in provincia di Viterbo, in cui Tonioni dava nuova vita all’invenduto. Un esempio emblematico di quegli albori era il Collo di pollo ripieno, scarto principale della macelleria, che qui si nobilitava con l’aggiunta di Scotch eggs, metafora potente del perpetuo danzare tra inizio e fine della vita.

Per Tonioni il fuoco è più che una tecnica: è un modo di vivere la cucina. «La volontà di vendere un cibo consapevole è la prima cosa che mi spinge a portare avanti questo tipo di filosofia. Venivamo da anni di ricette perfette, dove si rincorrevano temperature di precisione chirurgica. Ma l’imperfezione è vita, è reale. Il fuoco ti obbliga a ritrovare sensibilità, a non essere schiavo del tempo ma a fidarti dell’istinto. Questa imprevedibilità, questo equilibrio precario è quello che tiene viva la ristorazione». Lo chef di Arso parla di un «ritorno al passato» non come una mera moda effimera, ma come una vera e propria «necessità». Dopo anni passati alla ricerca di una perfezione talvolta asfissiante, c’è un bisogno profondo di riscoprire la sensibilità perduta nel confronto con un elemento che va «domato in base alla necessità». Tonioni sta tornando alle origini, riscrivendo la storia della sua generazione, quella «del boom dei roner, che per me ci ha fatto andare fuori rotta. Io ho un camino e ogni sera ho quel brivido: non ho griglia all’interno, uso dei mattoni che modulo e cambio in base al cibo che cucino». E Tonioni con la brace ci fa letteralmente di tutto: ne è un esempio la Lattuga alla brace, prugne, zabaione al taleggio tra gli antipasti, quindi un vegetale a foglia verde o la Panna cotta con infusione di carboni che ha un gusto estremamente affumicato.
Un modo per imparare a conoscere se stessi
Un’altra prospettiva affascinante sull’utilizzo del fuoco emerge dalla cucina che fa «un inno alla montagna e alla filosofia rigenerativa» di Riccardo Gaspari del ristorante SanBrite a Cortina d’Ampezzo. Per uno chef profondamente legato al territorio montano il fuoco non è solo un metodo di cottura, ma diventa «gesto e sapore primordiale», un elemento che risuona profondamente con l’ambiente naturale e la sua essenza più pura. «La griglia a me ricorda la montagna, connessione con la natura selvaggia e incontaminata che eleva la cottura a un’esperienza quasi mistica, un atto di rispetto e simbiosi».

La fiamma diventa così un alleato prezioso nell’esaltare la qualità delle materie prime che provengono direttamente dall’azienda del cuoco: animali allevati con rispetto, verdure coltivate con dedizione. La scelta del combustibile diventa un’arte a sé stante: «Usiamo erbe aromatiche per affumicare o per dare quel sentore diverso, o alberi resinosi come larice o abete, per le loro note aromatiche intense». È uno studio meticoloso delle diverse tipologie di legno – dalla solidità della betulla alla complessità delle resine – per ottenere il risultato migliore, sapendo che «legni morbidi come abete o cirmolo, sono più difficili da usare, quindi vanno dosati meglio e impiegati solo con certi alimenti, come gli ortaggi». Contrariamente alla percezione comune che il fuoco sia ideale solo per la carne, molti chef trovano nel vegetale il suo campo di espressione più entusiasmante. «Noi usiamo la griglia per la verdura che ci dà molta soddisfazione: anche la semplice insalata diventa buonissima».
Questo metodo di cottura si inserisce anche nella filosofia zero waste o, come preferisce chiamarla Gaspari «di pulizia del territorio». Bruciare legno che altrimenti verrebbe scartato, o utilizzare foglie di verdura alla brace per dare qualcosa in più, non solo riduce gli sprechi, ma crea una circolarità virtuosa con l’ambiente. È un’etica che si estende dalla montagna al piatto, un ciclo di vita e trasformazione che onora la materia prima in ogni sua parte.
E alla fine… Fuoco fu
In un’epoca che predilige l’uniformità e insegue una perfezione sterile, l’alta cucina sta riscoprendo il valore dell’imperfezione come strada maestra verso l’autenticità più profonda. Il fuoco, con le sue bruciature inattese, le sue caramellizzazioni irregolari e i suoi aromi indomabili, restituisce identità e unicità a ogni singola creazione, trasformando il cibo in una narrazione sensoriale irripetibile. Come gli antieroi più riusciti esso non segue le regole del buon senso o della prevedibilità, ma è proprio questa sua ribelle e magnifica indisciplina a renderlo vitale, insostituibile e a salvarlo dall’oblio delle repliche seriali e senz’anima.
E allora sì, che torni pure il brivido dell’imprevedibile. Perché in un’alta cucina fatta di millesimi e decimali, il fuoco resta il più umano dei gesti, quello che ci spinge oltre le aspettative. E in fondo, è proprio questo che vogliamo dal nostro piatto: essere sorpresi, scoprire sapori e sensazioni inedite e, attraverso di essi, sentirci vivi.