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Il senso del Giappone per l’extravergine

Tra concorsi, eventi e documentari, il Sol Levante presta sempre più attenzione a questo prodotto tipicamente mediterraneo (ma non solo). Che spazi ci sono per i produttori italiani?

Nelle scorse settimane, quasi in contemporanea Tokyo ha ospitato le sessioni di assaggio finali di due concorsi internazionali dedicati all’olio extravergine d’oliva. Olive Japan è organizzato dal 2012 da Toshiya Tada che è anche il fondatore e presidente dell’OSAJ (Olive Oil Sommelier Association of Japan) impegnata nella formazione degli assaggiatori locali, tra cui molti chef e ristoratori oltre ad appassionati e addetti ai lavori; con una prima fase di selezione affidata ai membri esperti dell’associazione e una valutazione finale che coinvolge una giuria internazionale composta da 20 assaggiatori da ogni continente – tra cui anche Osamu Jingūji, batterista della famosa band giapponese Remioromen, disciolta da qualche anno ma in procinto di tornare a lavorare insieme, mentre un altro componente del gruppo dopo aver frequentato il corso OSAJ ha iniziato a produrre olio – quest’anno ha contato un totale di 766 campioni (tra extravergine e oli aromatizzati, che hanno una categoria a parte essendo particolarmente apprezzati dal pubblico giapponese) da 28 nazioni.

Il JOOP, Japan Olive Oil Prize – affiancato dal 2020 anche dal Joop Design Award, che premia le scelte relative alla cura di logo, bottiglie e imballaggio in omaggio alla proverbiale attenzione nipponica alla bellezza e ha visto come giudici di quest’anno Dabbie Millman dagli Stati Uniti, Motoko Ishii dal Giappone, Oliviero Toscani dall’Italia e Shahira Fahmy dall’Egitto – è invece organizzato con la collaborazione della Camera di Commercio Italiana in Giappone e conta una giuria cosmopolita di 11 esperti, tra cui gli italiani Antonio G. Lauro e Barbara Alfei, che quest’anno hanno assaggiato 511 oli provenienti da 27 Paesi.

Non è mancata, in entrambi i casi, la partecipazione italiana che ha visto trionfare soprattutto la potenza della Coratina (quelle pugliesi dell’azienda agricola Maselli e di Mandwinery e quella campana di Fattoria Ambrosio con l’etichetta Crux, che si sono piazzate tra i nove prodotti Premier, mentre quella “toscana” ma proveniente da coltivazioni meridionali di Dievole e quella pugliese di Intini sono rientrate nella selezione personale di Tada, aggiudicandosi lo Special Sommelier Award a suo nome) per Olive Japan. Il JOOP ha incoronato invece il monovarietale marchigiano di Raggia del Frantoio L’Olinda come miglior olio italiano e il Chiaroscuro dell’Azienda De Robertis (ancora una Coratina) come il miglior olio con alto contenuto di polifenoli, altro elemento preso in considerazione dal mercato locale per l’aspetto salutistico.

Essendo parte del panel di assaggio di Olive Japan – in rappresentanza dell’Italia insieme a Francesca Rocchi Barbaria, curatrice regionale della guida extravergini Slow Food – quando racconto della mia esperienza e dei miei viaggi annuali a Tokyo ricevo sempre sguardi perplessi e sorpresi: un concorso di olio in Giappone? Che oli gareggiano? Ma si produce extravergine anche lì?

Ebbene, mentre come dicevo il concorso – come anche il JOOP – è aperto ai prodotti di tutto il mondo, in effetti il Paese asiatico è ormai da qualche decennio anche un produttore, con le coltivazioni concentrate soprattutto sull’isola di Shodoshima, ribattezzata Olive Island. Ma più in generale, l’olio extravergine – del tutto estraneo alla cultura gastronomica giapponese, dove predominano gli oli di sesamo e colza – sta iniziando a riscuotere un discreto successo anche a quelle lontane latitudini. In parte proprio grazie alla visibilità data dai concorsi e all’impegno a lungo termine di chi li organizza, attraverso masterclass, corsi ed eventi promozionali, e in parte probabilmente sulla scia della fascinazione per tutto ciò che riguarda l’Europa e l’Italia in primis.

«A mio parere, il punto di forza degli oli italiani è la diversità unica di sapori e aromi regione per regione. C’è grande differenza, ad esempio, tra le varietà toscane e quelle siciliane, che va di pari passo con il carattere dei cibi locali», commenta Toshiya Tada. «L’olio extravergine è davvero uno degli elementi centrali della cucina italiana, specialmente al centro e al sud del Paese. Noi giapponesi apprezziamo davvero molto questa varietà e iniziamo a provare a utilizzarla anche sui nostri piatti».

Un po’ più scettico, a riguardo, si dichiara Massimo V. Ambrosio, titolare dell’azienda cilentana Fattoria Ambrosio, la cui eccellente Coratina è presenza quasi fissa nella ristretta selezione Premier di Olive Japan: «Sicuramente i premi sono importanti e aiutano a entrare in un mercato per noi lontano, ma secondo me il mercato giapponese ha un potenziale che non è ancora pienamente espresso e che richiede un attento e costante lavoro sul posto, che per noi è difficile fare e va affidato a qualcuno che sia competente. Ma penso che, essendo piuttosto difficile imporre un prodotto in una cultura gastronomica così complessa come quella giapponese dove ancora non ha un suo spazio, sia meglio partire dalla cucina italiana proposta in Giappone, e da chi la fa. In questo ambito, vedo belle possibilità di sviluppo». E se è vero infatti che è facile vedere una bottiglia di – buon – extravergine nostrano in pizzerie e ristoranti italiani (anche gestiti da giapponesi), non avviene così facilmente negli indirizzi locali.

Si tratta certamente di una nicchia, ancora limitata sia per via dei prezzi elevati sia perché il legame con le abitudini culinarie giapponesi non è così immediato e richiede curiosità e conoscenza: doti necessarie, ad esempio, per farsi sorprendere dalla piccola magia creata dall’aggiunta di qualche goccia di un’eccellente Picual spagnola o di un blend di Itrana e Coratina su un piatto di ramen o una Nocellara su un nigiri di tonno. O magari – come mi ha raccontato Saori Takahashi, che collabora con Masami Ogawa nell’attività di importazione e distribuzione di specialità italiane per Oleaclicca – di una gentile Tonda Iblea o un’Itrana in purezza su del tofu fresco di ottima qualità come quello che si può trovare in vendita nella sterminata Food Hall di Isetan, grande magazzino di lusso a due passi dalla stazione di Shinjuku dove c’è anche il piccolo ma fornito banco dell’Oleoteca di Ogawa.

Sugli scaffali, una trentina di etichette di circa 20 aziende italiane, dalla pregiata Taggiasca ligure di Paolo Cassini alla selezione di etichette umbre di Viola, passando per Lazio (con l’Itrana e gli oli aromatizzati di Orsini e una Caninese Dop), Campania (Madonna dell’Olivo), Abruzzo (Frantoio Montecchia), Calabria (la scelta più accessibile) e Sicilia, con diverse aziende, e altro ancora. «I nostri clienti sono quelli di Isetan, dunque esigenti e con una buona disponibilità economica, e molto attenti all’aspetto salutistico», spiega Takahashi. «Per questo a volte chiedono espressamente prodotti particolarmente ricchi di polifenoli, come l’olio di Fonte di Foiano. Però si tratta, in generale, di prodotti molto intensi, difficili da sposare con la cucina giapponese. Mentre varietà come la Tonda Iblea e l’Itrana sono molto apprezzate da tutti, e gli chef locali amano in particolare i prodotti sardi di Masoni Becciu, intensi ma non eccessivi». Fondamentale, conferma, il lavoro di divulgazione e racconto: tutte le collaboratrici di Oleacecca – a cominciare da Takahashi diplomatasi con ONAOO – sono assaggiatrici professioniste e invitano chi passa al banco a provare le diverse etichette suddivise, secondo lo schema di Ogawa, tra “leggero”, “intenso” e “verde”. Proprio l’olio, poi, fa da traino ad altri prodotti italiani “affini”, dall’aceto – incluso quello Balsamico di Reggio Emilia dell’Acetaia San Giacomo – alla pasta artigianale.

Ad ogni modo, è innegabile che l’extravergine stia iniziando a far breccia tra i palati giapponesi. Tanto che, incuriositi anche loro dall’esistenza stessa di un concorso come Olive Japan e dai racconti a riguardo di Johnny Madge – appassionatissimo assaggiatore e divulgatore inglese che, dopo anni trascorsi in Sabina, si è da qualche tempo stabilito a Valencia – la fotografa e regista Leora Bermeister e Lucas Sinclair, della casa di produzione britannica Farelight, si sono imbarcati nella realizzazione di Oribuoiru: prendendo il nome dalla pronuncia giapponese di olive oil, si tratta di un documentario che racconta come l’”oro liquido” stia rivoluzionando la gastronomia giapponese.

Lentamente ma con costanza, una goccia alla volta.

Maggiori informazioni

foto di apertura: Shutterstock

 

Olive Japan

JOOP, Japan Olive Oil Prize

Oribuoiru

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