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Incuso: immaginare l’olio

Il designer Pasquale Bonsignore progetta nuove filiere agricole per ridare il giusto valore a produzioni di qualità e portare la valle del Belice sulle migliori tavole e banconi d’Italia.

Pasquale Bonsignore non è un contadino. Non è un frantoiano né uno chef e nemmeno un distributore. O forse è un po’ tutto quanto. L’iniziativa di cui si è occupato negli ultimi otto anni — con passione, impegno (e, diciamolo, un po’ di follia), in parallelo alla sua professione “ufficiale” come designer di interni tra Italia e Nord America — raccoglie sotto il nome Incuso diverse anime. Da una parte ci sono riflessioni teoriche, idee e visioni sul comparto agroalimentare e le sue criticità, dall’altro la gestione di una produzione operativa e concreta dell’olio, olive, capperi e conserve che da alcuni angoli di Sicilia e Campania arrivano sulle tavole più interessanti del nostro paese (con, come vedremo, qualche incursione all’estero). Se non lo abbiamo incontrato tra i banchi del mercato o nella sala di un ristorante, ma davanti alle vetrine dell’Adi Design Museum di Milano — che contiene la collezione del premio Compasso d’Oro, nato nel 1954 da un’idea di Gio Ponti — c’è davvero più di un motivo.

«Tra i processi di disegno industriale e i sistemi di creazione di senso e contenuti all’interno del mondo del food le similitudini non mancano — spiega Odo Fioravanti, designer vincitore del premio nel 2011 con la sedia Frida, nonché amico, collega e un po’ anche mentore di Bonsignore —. Il design infatti serve per dare senso e bellezza agli oggetti prodotti industrialmente; a attribuire loro “giustezza” e rendere accessibile il bello». Proprio come le filiere agroalimentari — aggiungiamo noi — dovrebbero essere strutturate, nel migliore dei casi, per garantire la massima qualità dei prodotti a prezzi equi per chi si trova a entrambi gli estremi del percorso. Long story short: il buono, il bello e il ben fatto sono i principi che muovono e orientano le reti di produzione in ambiti solo in apparenza distanti.

Lo conferma la storia del fondatore di Incuso. Nato nel 1982 da padre di Castelvetrano (il ché spiega l’imprinting olivicolo) e madre napoletana, si trasferisce appena sedicenne a Milano per laurearsi in Interior Design al Politecnico. È un viaggio di ritorno in Sicilia, qualche anno più tardi, che lo porta a guardare l’agricoltura attraverso la finestra del paesaggio. Quello della valle del Belice, con le rovine di Selinunte e gli uliveti centenari che condividono lo stesso destino di bellezza e abbandono. Un peccato e un problema da risolvere, in una terra che nell’arte olearia racchiude ancora alcune delle sue potenzialità maggiori. Due criticità su tutte: da un lato contadini carenti di una preparazione che permetta loro di affrontare le sfide del contemporaneo, dall’altro una distribuzione iniqua del valore lungo la filiera, che si ripercuote su un’inadeguata retribuzione dei produttori. È qui che entrano in gioco le competenze di Bonsignore come progettista, perché se è vero che il design è “la capacità di unire i puntini e generare valore e contenuto” allora in questo contesto potrebbe non servire altro. Nel 2011 iniziano le ricognizioni e ricerche che permettono di lanciare il piano solido e ponderato che nel 2014 mutua il nome della tecnica con cui, all’epoca della colonia greca di Selinunte, si batteva moneta. La facoltà del conio marcava l’indipendenza dalla madrepatria e l’inizio di un percorso di autodeterminazione «esattamente come un lavoro dignitoso e una paga adeguata consentono all’uomo di sostenersi, di essere libero e di avere un ruolo nella società», spiega Bonsignore a proposito del naming del marchio, e aggiunge: «I prodotti agroalimentari, se provenienti da sistemi sostenibili che danno il giusto riconoscimento a chi della terra si prende cura, possono agire da moneta circolante e diventare uno dei motori del rilancio di aree depresse». In Incuso quindi si applica al mondo agricolo l’approccio progettuale e si disegnano nuove reti: sono stati ingaggiati alcuni produttori e trasformatori locali, con i quali il confronto è costante, e si è offerta loro una prospettiva alternativa, servizi di supporto alla produzione e nuovi protocolli di lavorazione. Il risultato? Una profonda ristrutturazione dell’intero processo produttivo, dalla gestione del campo alla lavorazione del prodotto, fino al confezionamento finale, con l’introduzione di elementi di novità in ogni snodo e la creazione di un valore maggiore da proporre al mercato per far sì che i primi anelli della catena ricevano un compenso adeguato.

Partito dalle olive e dall’olio extravergine di oliva della valle del Belice — con le due linee Mozzafiato ed Etichetta Nera che anticipano di varie settimane e fino a oltre un mese il momento della raccolta, diminuendo la resa ma concentrando gli aromi — in pochi anni il progetto si è esteso alla filiera dei pomodori campani, e a quelle dei capperi, dell’origano e dell’uva passa dall’isola di Pantelleria. Ognuno di questi è stato assaggiato da chef e ristoratori già in contatto con Bonsignore, diventati clienti Incuso sia per il gusto e la qualità dei prodotti che per precisa scelta di principio (per ora i prodotti sono distribuiti a ristornati e gastronomie specializzate soltanto tramite canale diretto). Un gruppo numeroso di nomi di spicco distribuiti da Nord a Sud, che comprende Carlo Cracco, Ciccio Sultano, il tristellato Niko Romito e i più giovani Diego Rossi e Antonio Ziantoni, oltre a esponenti del mondo mixology come Flavio Angiolillo; e non solo.

C’è ad esempio anche Giovanni Passerini, che dal suo ristorante e pastificio di Parigi racconta: «Lavoro con Incuso perché ne condivido l’etica professionale e l’idea che per fare un buon lavoro siano necessarie competenze specifiche e corali. Non ci si inventa contadini o trasformatori; Pasquale lo sa e si avvale della cultura ancestrale di persone che sono in grado di coltivare i prodotti della terra, secondo tecniche e gesti antichi. Mi piace l’idea che si possa essere bravi a selezionare le persone con le competenze giuste e beneficiare della loro esperienza. Tengo molto a questo concetto e lo applico anche io nel mio ristorante, dove ad esempio preferisco non fare il pane ma acquistarlo da chi conosce il mestiere. Infine, mi piace collaborare con loro per un motivo banale: i prodotti sono buoni! Quello di punta per me è l’olio: ne sono innamorato perché ha un gusto “verde”, quello delle olive spremute presto».

A Milano, nel cocktail bar Carico il patron Domenico Carella serve le olive da mensa Incuso per accompagnare gli aperitivi. La ricetta del suo Bloody Mary signature, inoltre, prevede pomodori Incuso in conserva gialli e rossi. «Quando Pasquale mi ha raccontato la sua visione ne sono subito rimasto colpito. Poi ho provato i prodotti e il colpo di fulmine è stato del tutto confermato. Nel mio locale cerco di offrire il meglio sia per quanto riguarda la miscelazione che la proposta gastronomica e quindi anche un piccolo accompagnamento come la ciotola di olive non è un dettaglio da poco. Le Nocellara che ho scelto sono una specie di “punto di non ritorno”; una volta che le hai provate è difficile tornare a consumarne altre. Hanno un gusto naturale e bilanciato piuttosto unico. La verità è che in qualsiasi bar si servono olive di qualità generica e a volte non ci si rende nemmeno bene conto di quale dovrebbe essere il loro sapore autentico. Da Carico usiamo le due etichette di olio per la linea di cucina come anche per alcuni fat wash. Poi ancora le foglie di cappero in salamoia che conferiscono una bella sferzata acetica alla nostra variante del Gibson Martini».

Maggiori informazioni

Foto di copertina: olive Nocellara 

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