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Le uve a bacca rossa alla base del Moscato di Scanzo

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Piccole e belle

Viaggio tra le Doc e Docg più appartate e buone d’Italia.

Luogo che vai, vino che trovi – ecco una delle poche verità che in Italia non teme il contraddittorio. Talvolta si tratta di attraversare confini, provinciali o regionali che siano, di fendere chilometri di pianura o di superare colline, scavallare montagne, talaltra basta svoltare un cantone, guadare un ruscello, fare un giro su se stessi che già i vigneti hanno cambiato di forma e di colore, di sostanza: cambiano le varietà ampelografiche come variano le proprietà dei suoli, l’apporto del sole e del vento, cambia la mente e la mano dell’uomo, si ridisegna il terroir. E il vino sgorga nuovo, ogni qualvolta diverso e fedele a se stesso, inafferrabile quanto fascinoso nella sua indole imperscrutabile. Doc e Docg scandiscono in lungo e in largo il nostro patrimonio vitivinicolo assecondandone tradizione e bizzarrie, radice storica, mutazioni nel tempo; corteggiate, bramate, sedotte e abbandonate, solerti e altrove sorde al cambiamento, le denominazioni sono pur sempre il primo strumento con cui affrontare il viaggio, anche laddove si intenda lasciare le vie maestre per addentrarsi in sentieri meno noti. Magari alla ricerca dell’insolito, del piccolo, perlomeno in termini di superfici vitate ed ettolitri prodotti: ne contiamo a decine di minuscoli distretti certificati, sono giovani e vecchi, belli, brutti, valgono poco o tanto, unendosi assieme parrebbero una goccia al cospetto della briosa marea del Prosecco; possono suonare misconosciuti, impossibili da collocare sulla mappa e altrove rappresentare un’eccellenza mondiale come Bolgheri Sassicaia, la prima Doc italiana riservata a un solo produttore.

Se la montagna è un alleato

Non stupirà, per esempio, che la piccola Valle d’Aosta custodisca una piccola Doc che è anche la più alta d’Europa, là dove tremano pure le aquile: la Blanc de Morgex et de la Salle trae il nome dai due borghi in cui si coltiva l’autoctono priè blanc, 33 ettari a piede franco e in pergole basse, su terrazzamenti tra i 900 e i 1.200 metri d’altitudine. Cruciale il ruolo di una cooperativa a «unire le forze dei vignaioli di montagna, dove le difficoltà e i costi sarebbero insostenibili», racconta Nicola Del Negro, enologo della Cave Mont Blanc; vini bianchi e spumanti affilati come speroni di roccia, eppure profumati quanto la montagna d’estate. Ce n’è uno completamente lavorato sui 2.173 metri del Pavillon, si chiama Cuvée des Guides ed è la prova provata che «temperatura, altitudine e pressione atmosferica rendono finissimo gusto e perlage»; a traino, giungerà la scienza a spiegarcene i motivi. Nel confinante Piemonte sa farsi piccolo anche il gigantesco nebbiolo, specie se lo allontani dal palcoscenico delle Langhe. Si veda il filotto di denominazioni che dal monte Fenera scende verso Novara, da Boca a Ghemme, da Sizzano a Fara, e di là dal fiume Sesia la più nota Gattinara assieme a Bramaterra e Lessona, già in provincia di Vercelli (puntando a nord troveremmo anche i 17 comuni della Doc Valli Ossolane): base “spanna” (così il nebbiolo in loco, forse per la dimensione del grappolo quale unità di misura), coadiuvato da vespolina, croatina, uva rara. Vini eleganti, si direbbe ripidi, nutriti dalle argille o da ciottoli granitici, porfidi, sabbie, mentre il Monte Rosa offre il suo respiro come la sua,protezione. L’altra uva iconica regionale, l’aromatica moscato bianco, è la più coltivata ma può esaltarsi in un piccolo comune astigiano a oltre 400 metri di altitudine, in bilico tra la valle del Bormida e quella del Belbo: Loazzolo (omonima la minuscola Doc) è fucina di un pregiato vino dolce da uve surmature, sovente ammantate da botritys cinerea oppure passite in fruttaio. La famiglia Scaglione di Forteto della Luja ne fu pioniera e ne è tuttora custode, il loro Piasa Rischei nasce «da vigneti ammantati da mandorli e rosmarini, evolve due anni in piccole botti di rovere e si presenta vellutato, con frutto maturo di albicocche», la dolcezza ornata dalle spezie e sorretta da buona spalla acida.

Surmaturazioni e serafiche meditazioni

Nella vicina Liguria un altro passito d’eccellenza, lo Sciacchetrà Doc, è appannaggio degli impervi declivi delle romantiche Cinque Terre, mai così feroci come quando si tratta di curare terrazzamenti e filari di bosco, albarola, vermentino, col solo lavoro di gambe, braccia, cuore, al più aiutati per la vendemmia da arcani marchingegni quali teleferiche e monorotaie. Appassimento di almeno settanta giorni, fermentazione con bucce e vinaccioli, affinamento in legno e in affusolate bottigliette da 375 ml: ha identità marina questo nettare ambrato che cangia d’oro, con profumi di miele e frutta secca, sbuffi d’erba e macchia mediterranea, potente e avvolgente tra tannino e freschezza. Sono invece i pendii dei colli bergamaschi, nel comune di Scanzorosciate, a forgiare il mitico Moscato di Scanzo, tra le Docg più piccole in assoluto con circa 30 ettari certificati. Di nuovo passito, stavolta a bacca rossa, dall’omonimo vitigno autoctono che offre un vino rubino intenso, tendente al cerasuolo, con naso delicato nella sua caratteristica intensità, sorso pieno, dolce, dove riecheggia il sentore di mandorla. La storia non fa sconti, testimoniando come Guelfi di Scanzo e Ghibellini di Rosciate se le diedero di santa ragione per accreditarsi le botticelle di quello che ai tempi si chiamava moscadello rosso. Riqualificato anche grazie a Luigi Veronelli, lavorato in acciaio, i secoli di tradizione sposano oggi una narrazione moderna, non ultimo il calice esclusivo pensato «per esaltare a pieno il suo ricco bouquet», come argomenta il Consorzio di Tutela, nonché «per comunicare in modo corretto, univoco e dedicato, il Moscato di Scanzo al mercato». Chiudiamo il giro dei passiti settentrionali con il friulano Picolit, Docg che congiuntamente al Ramandolo non raggiunge le 500mila bottiglie annue. L’omonima varietà fu tratta in salvo dal Conte Fabio Asquini di Fagagna, che già nel 1700 mirava ai mercati esteri (il Picolit finì sulle tavole delle corti francesi, vaticane, dell’Imperatore d’Austria, dello Zar di Russia). Il nome deriva dalle dimensioni di acino e grappolo, foriero di un vino da meditazione ieratico, intenso di miele e frutta matura, dolce ma di sublime finezza; lo chiamano in abbinamento a ostriche e formaggi erborinati, al Presnitz triestino o alla Gubana friulana, di certo lo si gode in solitario, davanti a tramonti che cangeranno di nuova luce.

Piccolo ma sempre immenso sangiovese

È di matrice pratese una Docg ante litteram, quella del Carmignano sul versante orientale del Montalbano, classica campagna toscana in una Toscana più appartata ma comunque baciata dalla fortuna. Il Granduca Cosimo III vi dettò le norme di produzione in un bando del 1716, ascrivendola nel perimetro del Barco Reale, il muro che già da cent’anni segnava la bandita di caccia medicea: fu il primo caso mondiale a proiettarci verso una denominazione controllata e garantita. Accanto al sangioveto, qua si è sempre utilizzata «l’uva francesca», come tuttora la chiamano gli anziani, a partire dai cloni di cabernet franc che si vogliono importati da Caterina de’ Medici quando fu regina di Francia: precursori, quindi, anche in tema Supertuscan. La storia passa dalla Tenuta di Capezzana (una pergamena testimonia l’affitto di vigne già nell’804) e il loro Riserva Trefiano è da sempre un riferimento; impeccabili e di approccio internazionale i vini di Piaggia, vera espressione del territorio quelli prodotti da Rossella Bencini Tesi per Terre a Mano a Bacchereto, dove la biodinamica è scelta di vita: «La straordinarietà del Carmignano è nel suo carattere, nella ricchezza di sensazioni che esprime nei profumi, nel gusto; può essere un compagno ideale per leggere un libro in solitudine, seduti accanto al camino, così come è perfetto per una cena tra amici attorno a una bella tavola imbandita». Ritroviamo il sangiovese in quel di Torgiano, Doc umbra riservata ai soli confini comunali, 17 viticoltori per quattro produttori/imbottigliatori. Tra questi Lungarotti, famiglia che fa la storia del comprensorio: «Mio padre Giorgio è stato un pioniere», come ricorda Chiara Lungarotti, oggi alla guida dell’azienda, «già negli anni ‘50 capì che per compiere il salto di qualità l’Umbria doveva sperimentare con coraggio. È grazie a lui e ai suoi vini se nel 1968 Torgiano ottenne uno dei primissimi riconoscimenti a Doc in Italia, nonché il primo dell’Umbria», poi Docg nel 1990. Il Rubesco (nome di fantasia dal latino rubescere, arrossire), con colorino a saldo, ha un bel tono rubino e sentori speziati, è beverino e armonico, mentre nella Riserva Vigna Monticchio il sangiovese si esalta in purezza, elegante e di nerbo, con complessità di aromi e bella concentrazione: un paradigma della denominazione e dell’Umbria intera.

Alla ricerca di un tempo perduto

La più giovane Doc della provincia di Pesaro-Urbino mutua il nome dall’antica cittadina fondata agli inizi nel XIII secolo dagli Eugubini, coloro che introdussero la coltivazione della vite e dunque della Pergola, la stessa che ritroviamo nello stemma araldico del paese. A cavallo tra la Valle del Cesano e quella del Metauro, equidistante dal mare e dall’Appennino, un antico biotipo di aleatico vi si impone per un minimo del 70% a garantire aromaticità e complessità di aromi, «possibili grazie a un microclima che consente piena maturazione ma grado alcolico adeguato alla versione secca, per la quale siamo la denominazione più settentrionale d’Italia», parola di Luca Avenanti dell’azienda Agricola Terracruda (e qua il nome evoca le terre argillose della sua Fratte Rosa). «Noi lo vinifichiamo in purezza sia per il Pergola che per il Pergola Aleatico Superiore: colore scarico, tannino mansueto e aromi freschi che sorprendono nella longevità, virando verso importanti spaziature, con echi di cannella e frutti esotici».
Dalla babele laziale, tra i vini dei Castelli Romani in cerca di una riscossa più individuale che collettiva, peschiamo il Cannellino di Frascati, Docg soltanto dal 2011 eppure profilo d’altri tempi, esile e quasi in via d’estinzione: 70% minimo di malvasia bianca di Candia e/o malvasia del Lazio, dunque bellone, bombino, greco, trebbiano, per una produzione da territorio vasto ma ormai azzardata da un manipolo di aziende tra cui citiamo Tenuta di Pietra Porzia, Poggio Le Volpi, Casale Marchese. Da vendemmia tardiva, il Cannellino è giallo e fruttato, di buona struttura, morbido e di gran beva, dolce al punto giusto per accompagnare le tradizionali ciambelle al vino, ma in loco non si disdegna il contrasto col piccante pecorino romano. Facciamo ancora un balzo avanti per il recentissimo riconoscimento (2019) della Docg Tullum, medaglia per i produttori di Tollo, terra dalla secolare storia vitivinicola poggiata su una morbida collina dell’Appennino: è come ritagliare un isolotto di eccellenza nella campagna abruzzese puntinata dal montepulciano, dalla passerina, dal pecorino, queste le sole varietà previste dalla denominazione. E scendiamo in Campania per il fascino indicibile delle viti ad alberata nella Doc Asprinio, varietà a bacca bianca tipica dell’Agro Aversano: piante a piede franco, tronchi espressivi come volti antichi, tralci che si diramano imparentandosi con gli olmi, con i pioppi, a erigere pareti verdi in cui i grappoli sono gemme da cogliere, spesso oltre i dieci metri d’altezza. «Un lascito di inestimabile valore, da custodire, basti pensare che tra le nostre vigne la più giovane ha un secolo di vita». Eppure la valenza è anche produttiva, «è questo il sistema di allevamento ideale specie per la spumantizzazione», assicura Salvatore Martusciello, «visti l’elevata acidità e il basso grado alcolico che conferisce alle uve». Si provi in merito il suo Trentapioli (più o meno quelli dello scalillo utilizzato per la vendemmia), l’unico a rivendicare la Doc da vigneti ad alberata. Per dirla con Mario Soldati, «Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio (…), profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non lo si può immaginare se non lo si gusta… Che grande piccolo vino!».

Isole nelle isole

La storia della Malvasia di Bosa (siamo appena attraccati in Sardegna, nei pressi di Oristano) è legata a quella di Giovanni Battista Columbu, insegnante barbaricino che qui incontrò la donna della vita nonché Salvatore Deriu, detto Zegone (ovvero grande cieco), con cui avviò il percorso (dentro ci sta anche un progetto di alfabetizzazione per operai agricoli) che negli anni ha portato questo vino alla sua definizione, fino al disciplinare, la Doc, la ribalta suggellata dal regista Jonathan Nossiter nel suo Mondovino. Un vino antico, ossidativo, un nobile di matrice meticcia le cui rotte hanno incrociato quelle dei mercantili in viaggio nel Mediterraneo. Da uve malvasia di Sardegna in purezza, l’invecchiamento avviene in botti di castagno scolme, dunque a contatto con l’ossigeno, a protezione del quale si forma la provvidenziale pellicola dei lieviti flor. Una volta imbottigliata, la Malvasia di Bosa può conservarsi per decenni evolvendo i suoi toni d’ambra, le sue carezze di mandorla e nocciola tostata; pur mantenendosi «finissima, leggera, setosa, profumata, saporosa di rosa e ginepro. Soprattutto completamente secca», e adesso lasceremo in pace Mario Soldati, promesso. Chiudiamo in Sicilia, seppur vicini allo Stretto. Faro è la Doc messinese con fulcro sulle colline poste a ridosso del Capo Peloro, piccola quanto incentrata sulla qualità fin dal passato, e sono un vanto le esportazioni ottocentesche verso Bordeaux e Borgogna (due regioni non banali, in effetti). Negli anni 90 si avvia una sorta di riscossa, con le interessanti declinazioni che vitigni quali nerello cappuccio e mascalese acquisiscono lontano dall’Etna, magari supportati dal sempiterno nero d’Avola. E con la sorpresa del nocera, uva autoctona che si vorrebbe complementare, ma non troppo, e che ritroviamo nella limitrofa Doc Mamertino, nome che è tutto un programma: i Mamertini altro non erano che figli del dio Marte, coriacei soldati mercenari che piantarono nei pressi di Milazzo «una pregevole vite per la produzione di un pregevole vino», e stavolta abbiamo scomodato Giulio Cesare col suo De Bello Gallico. Tale denominazione affida le basi al nero d’Avola (detto calabrese) per i rossi, al grillo per i bianchi, eppure molte attenzioni sono rivolte per l’appunto al nocera, che il disciplinare vorrebbe in blend ma che taluni, facendo un passo fuori (rammentiamo Gaglio Vignaioli e Planeta con cantina La Baronia), vinificano in purezza: naso di pepe bianco e geranio, di prugne, di fichi, originalissimo e morbido al palato, un indubbio invito all’indagine e alla scoperta. Quella che parrebbe terminare per quanto concerne questo giro, ma veramente, già non saremmo pronti per una seconda puntata?

Maggiori informazioni

Foto di copertina: le uve a bacca rossa alla base del Moscato di Scanzo.

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