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lessico enologico

Speciale Vino: 50 etichette da provare

Una selezione a cura di Fabio Rizzari: cinquanta etichette che ci fa piacere condividere, con l’augurio che in molti possano fare qualche scoperta interessante.

Una selezione di vini preceduta da un qualsiasi numero (i 100 migliori vini italiani, la top ten dei rossi toscani, e simili) genera nel bevitore comune e nell’enomaniaco due reazioni opposte. Due riflessi pavloviani, verrebbe da dire, come se bevitore comune ed enomaniaco appartenessero a due specie animali diverse: il primo è di solito incuriosito, quando non proprio direttamente catturato all’amo del giochino “vini/numero”. Il secondo, che ha giustamente un’alta considerazione della sua competenza e del suo palato, ha invece una reazione tra il sarcastico e l’annoiato. Eppure è perfettamente possibile che una selezione di vini sia soltanto quello che è, ovvero una semplice selezione di vini. Nel nostro caso, una semplice selezione di vini che ci piacciono molto. Cinquanta etichette che quindi ci fa piacere condividere, con l’augurio che in molti possano fare qualche scoperta interessante e che possano gustarsi qualche buon bicchiere alla nostra salute.

Se non sono ancora sufficienti, per circoscrivere il tema, le soprascritte indicazioni su ciò che 50 vini da provare è, ecco qualche veloce tratteggio su ciò che non è: non è una lista di premi o di riconoscimenti. Non è un gruppo omogeneo in cui, da manuale Cencelli, si distribuiscono pesi e contrappesi (“abbiamo messo otto piemontesi quindi ci vogliono sette/otto toscani”; “bisogna citare almeno un vino delle regioni piccole”; “attenzione che ci sono molti più rossi che bianchi”, e simili). Non è un manifesto critico (“viva i vini naturali e abbasso quelli convenzionali”; “viva i vini normali e abbasso quelli naturali”). Non è un elenco di vini sconosciuti in assoluto: quasi tutte sono bottiglie ben note agli enofili; tuttavia non poche possono costituire una stimolante novità per i bevitori meno smaliziati.

Perciò, riassumendo: 50 vini da scoprire è una sintesi, in forma di racconto in agili profili monografici, dei vini che ci hanno convinto – e talvolta anche meglio: colpito, emozionato, sorpreso – nel corso del 2020. La maggior parte delle schede registrano la robusta conferma di una qualità assodata nel corso degli anni; altre un livello in crescita, nelle ultime vendemmie, di etichette dalla storia più giovane.
Nota bene: l’impostazione teorica e pratica appena descritta ci ha suggerito di non vincolare i lettori alla ricerca di una singola annata. Tutti i vini segnalati sanno infatti esprimere una qualità significativa, al di là del carattere – e delle eventuali difficoltà – della singola vendemmia.

VALLÉE D’AOSTE CORNALIN
LES GRANGES
Da un angolo molto appartato della Valle d’Aosta (per raggiungere il nucleo aziendale bisogna organizzare una spedizione guidata da esperti carovanieri), un vino di sorprendente piacevolezza. Tutto meno che appiattito nel solito schema frutto/tannini morbidi/rovere dolce, deriva dall’uva omonima, una varietà rara tipica della regione che dà rossi speziati, succosi, pericolosamente facili da bere. Il leggero timbro affumicato ne suggerisce per analogia l’accostamento con carni alla brace.

BARBARESCO PAJÈ VECCHIE VITI
ROAGNA
Azienda a conduzione familiare di lunga tradizione, per decenni è stata lontana dai riflettori mediatici, per
poi esplodere all’incirca una quindicina d’anni fa grazie ad alcune recensioni di critici illuminati. Attualmente le sue cuvée, curate con precisione artigianale, spuntano prezzi davvero significativi. I vini, ignoti o ricercati come oggi, hanno sempre seguito un modello iper classico: lavorazioni tradizionali in vigna, lunghissime macerazioni, niente legno piccolo o nuovo. Il Pajè Vecchie Viti è un Barbaresco roagnesco esemplare, delicato nel colore e nei tannini ma tenace e profondo al gusto, lunghissimo.

BAROLO PERNO
ELIO SANDRI
Non c’è dubbio che le Langhe siano uno dei due o tre territori italici più celebri e più scandagliati dai bevitori anche stranieri. È quindi difficile pescare nomi davvero lontani dai radar: Elio Sandri è uno di quei pochi; di sicuro per sua scelta meditata. Mi spiace strapparlo per una volta alla bolla di discrezione in cui si muove, ma è per il bene dei bevitori più saggi. Il suo Barolo Perno, valido cru di Monforte, è declinato con una grazia e una delicatezza di tocco magni che, capaci di contro- bilanciare alla perfezione un tenore alcolico qua e là (2015) non proprio timido.

DOLCETTO D’ALBA
GIUSEPPE CORTESE
Famoso, a giusto titolo, per il suo stilizzato Barbaresco Rabajà, una delle vigne più leggendarie per la denomina- zione, Giuseppe Cortese firma anche un buonissimo Dolcetto. Qui si tocca con mano – o meglio, con lingua – quanto sia ingiusto che una tipologia così ariosa, così felicemente compagna della tavola, soffra uno strutturale calo di interesse da parte degli enofili. Il Dolcetto di Cortese ha un frutto molto puro, una freschezza succosa che rilancia la beva, un finale netto, longilineo, privo di toni amari.

BARBERA D’ASTI ASINOI
CARUSSIN
Per molti produttori che cavalcano disinvoltamente – quando non furbescamente – la moda del vino naturale l’autenticità è solo un’immagine pubblicitaria. Nell’attività agricola di Bruna Ferro e del marito Luigi Garberoglio l’autenticità è invece un valore vero: lo si coglie facilmente visitando il nucleo aziendale, a San Marzano Oliveto, nell’astigiano. Qui la conduzione delle vigne è in biodinamica, la tecnica enologica semplice ma accurata (niente vinificazioni selvagge, insomma), i risultati di grande espressività. La Barbera Asinoi è un rosso schietto, franco, succoso, pieno di vitalità.

LESSONA
LA PREVOSTURA
Rimasto in ombra per decenni, oscurato dall’accecante luminosità della fama langarola, il distretto viticolo del Nord Piemonte sta ritrovando negli ultimi tempi l’alta stima che merita presso i conoscitori. Qui le numerose matrici geologi- che costituiscono un mosaico di complessità non lontana da quella della Borgogna o dell’Alsazia. Tra le diverse Doc dell’area spicca la bellezza dei rossi di Lessona, finissimi all’olfatto e al gusto, nei casi migliori un vero ricamo: come il Lessona La Prevostura, che unisce a un ampio spettro aromatico una trama tannica particolarmente delicata.

FARA BARTON
BONIPERTI
Fara è una delle più piccole e meno note tra le denomina- zioni del Nord Piemonte. “Una vera chicca da amatori”, secondo la definizione enfatica dei dépliant turistici. Per tagliare l’argomento con l’accetta usando uno schema rozzo ma fondato, i rossi di queste parti hanno meno struttura rispetto ai monumenti delle Langhe (Barolo, Barbaresco), ma in compenso offrono una silhouette in media più longilinea, più affusolata, e un sapore più delicato. Una descrizione che si adatta bene al Fara di Gilberto Boniperti, sottile, puro, di grande eleganza.

VALLI OSSOLANE NEBBIOLO SUPERIORE PRÜNENT
CANTINE GARRONE
Ancora una volta questa selezione suggerisce un vino nord-piemontese. Una fissazione degna di miglior causa? No, la semplice constatazione che qui nasce una varietà sorprendente di tipologie originali. Il Prünent altro non è che il nome locale del nebbiolo in questa piccola enclave della Val d’Ossola. Qui il nobile vitigno, lungi dall’avere toni vegetali o un corpo troppo gracile, trova invece un’espressione felice in termini di ampiezza aromatica e ritmo gustativo. Il giovanissimo Matteo Garrone lo interpreta con particolare ispirazione. E i prezzi, en passant, sono molto invitanti.

BIANCO TESTALONGA
NINO PERRINO
Antonio Perrino è una gura riassorbita nella mitologia, qui in terra ligure; e non soltanto. Fa vino da sessant’anni, in maniera che definire semplice e tradizionale è ovvio ma verissimo. Firma un rosso di complessità aromatica non di rado impressionante e un bianco più austero e minerale. Quest’ultimo, da uve vermentino lasciate macerare per qualche giorno, ha il colore carico dei cosiddetti orange wines, ma per fortuna è tutto meno che appiattito su quel modello modaiolo e ripetitivo, Al contrario è succoso, agile, piacevolmente salino.

ROSSESE DI DOLCEACQUA CURLI
MACCARIO DRINGENBERG
La citazione a Veronelli è inevitabile: il fondatore della moderna critica enologica italiana riteneva il ligure Rossese uno dei vini più buoni d’Italia. E quello della vigna Curli lo stimava niente di meno che “la Romanée Conti italiana”. Il paragone, lusinghiero, regge solo in termini evocativi di una qualità somma: nei fatti, mentre il rosso della Romanée Conti è un vino quasi senza peso, il Curli è scuro e potente (almeno in relazione agli altri Rossese). Dal 2012 ne ha ripreso in mano le sorti Giovanna Maccario, che ne firma versioni impeccabili per precisione aromatica e pienezza di frutto.

VERMENTINO COLLI DI LUNI
OTTAVIANO LAMBRUSCHI
Colli di Luni è una denomina- zione di con ne: parte ricade in Liguria, in provincia di La Spezia, parte nella Toscana settentrionale. Come molte aree liminali, sono maggiori gli elementi di condivisione rispetto a quelli di separazione. Cerniera principale il vermentino, vitigno plastico che sa dare sia vinelli leggeri che bianchi più ambiziosi in termini di spessore e complessità aromatica. Il Vermentino “d’annata” Lambruschi è un vero classico. Profumato, ampio, reattivo nel sapore, è particolarmente versatile negli abbinamenti a tavola.

ROSSO DI VALTELLINA
BARBACÀN
Per il distretto produttivo valtellinese si può usare tutto l’armamentario retorico attribuito alle vigne di montagna, o comunque su pendii terrazzati (Val d’Aosta, Carema, certe aree liguri, certe aree campane, eccetera): “viticoltura eroica”, “vigneti strappati alla roccia”, “si può lavorare la terra solo a mano, con costi altissimi”. È tutto vero. Qui la famiglia Sega firma rossi di grande naturalezza espressiva, dritti e puri. Nei sei ettari di vigneti l’uva chiavennasca affianca varietà rare quali rossòla, brugnola, negrera. Il buonissimo Rosso è strutturato ma sciolto, scorrevole, tutto meno che frenato dai tannini.

FRANCIACORTA BRUT SATÈN
MOSNEL
Lo sforzo legittimo dei produttori franciacortini per imporre il marchio “Franciacorta” quale sinonimo stesso di vino spumante ha dato i suoi frutti. Non avrà la pervasiva ricorrenza del nome Prosecco, oggi richiesto fin dentro il fitto della foresta amazzonica, però “mi porti
un Franciacorta” è una frase più che diffusa nei ristoranti italiani. Tra i numerosi nuclei aziendali vanta una storia pluridecennale Il Mosnel. Qui nascono cuvée ricche di carattere, sempre misurate nello stile. Il Satèn coniuga finezza nella grana della carbonica a una bella spinta gustativa.

VINO SANTO TRENTINO
GIOVANNI POLI SANTA MASSENZA
Nicchia nella nicchia degli enofili, i cultori dei vini dolci sono veri segugi nello scovare bottiglie rare. In Germania si contendono Eiswein o finissimi Trockenbeerenauslese della Mosella; in Francia Sauternes, Barsac o Vouvray Doux, eccetera. E da noi? Da noi una tipologia poco battuta è quella del Vino Santo trentino, un bianco che non ha nulla da invidiare ai soprascritti campioni. La versione della famiglia Poli è ottenuta da uve nosiola di solito pressate nel periodo della settimana santa (da cui il nome). Ha grande densità interna e una marcata dolcezza, doti che non vanno a scapito di una dinamica e una freschezza del sorso notevoli.

TRENTINO PINOT NERO MASO ÉLESI
AGRARIA RIVA DEL GARDA
Il culto del Pinot Nero è senza alcun dubbio il fenomeno più rilevante nel mondo del vino da una ventina d’anni a questa parte. Non c’è bevitore, per quanto alle prime armi, che non abbia intercettato quanto sia à la page. Come conseguenza si coltiva pinot nero ovunque in Italia, con sforzi spesso velleitari e risultati ancor più spesso deludenti. Fa bella eccezione la cuvée Maso Élesi della cooperativa AgriRiva. Da una singola vigna sulle alture di Padaro, a nord del lago di Garda, ha una certa lentezza nell’aprirsi all’olfatto, ma poi sviluppa uno spettro aromatico molto piacevole e offre un gusto tonico, nitido, fresco.

VIGNETI DELLE DOLOMITI PINOT BIANCO ART
WEINGUT ABRAHAM
L’Alto Adige è famoso, a giusto titolo, per la millimetrica precisione esecutiva che fa nascere l’ampia maggioranza dei suoi vini. Il rovescio della medaglia è una certa prevedibilità degli esiti: Sauvignon, Traminer, Kerner, Lagrein tutti molto simili tra loro. Da qualche anno una nuova generazione di giovani vignaioli cerca – con successo – di proporre bottiglie più ricche di carattere. Tra loro Martin e Marlies Abraham hanno dato prova di eccellenti capacità. Il Pinot Bianco Art è ricamato nei profumi, pieno e insieme agile al palato: quello che un tempo si definiva “un vino di classe”.

ALTO ADIGE SAUVIGNON
GLASSIER
Come gli enomaniaci sanno bene, il Sauvignon può essere un bianco banale e ammiccante (diciamo nel 70% dei casi) o un bianco che riscatta la sua didascalica esuberanza aromatica offrendo in contrappunto profumi e sapori più complessi. Quest’ultimo è senz’altro il caso del Sauvignon Glassier, piccola azienda altoatesina che ha vigne a sud di Bolzano, tra Egna e Termeno. La parcella dove cresce il sauvignon, “geboch”, ha suoli porfidici che danno energia e sapidità al sorso. Ne risulta un vino ingannevolmente muto dopo la stappatura, che si apre in pochi minuti e si dimostra di rara intensità.

BARDOLINO
POGGIO DELLE GRAZIE
Il Bardolino segna la rivincita dei rossi slanciati sulla tirannia, durata più di un quarto di secolo, del modello “colore scuro/ frutto dolciastro/tannini appiccicosi”. Oggi il bevitore ha in media capito che l’equazione “struttura=qualità” non è sempre fondata; anzi. Il Bardolino, rimasto in ombra per decenni, ritrova quindi il suo pieno ruolo a tavola, dove – nei casi migliori – ha la versatilità di un rosato e la trama tannica di un rosso. La versione dell’azienda Poggio alle Grazie è centrata su un frutto delicato e puro, che in certe vendemmie non ha niente da invidiare a un buon Bourgogne Village.

VALPOLICELLA CLASSICO
NOVAIA
A voler tagliare con l’accetta un soggetto molto più complesso, la produzione della Valpolicella è divisa in due parti diseguali. Da un lato gli Amarone e i Recioto, vini rossi di struttura poderosa, ricchi in estratti, zuccheri, alcol. Dall’altro lato rossi non monumentali, cioè Valpolicella più slanciati e scattanti. Quest’ultima categoria ha sofferto a lungo uno svilimento a causa di prodotti di qualità molto anodina. Oggi un numero crescente di vignaioli recupera il senso più nobile dei rossi di quest’area, restituendo ai palati più attenti vini facili da bere ma non vuoti né banali. Come il Valpolicella Novaia: fresco, aggraziato, succoso.

CONEGLIANO VALDOBBIA DENE PROSECCO SUPERIORE BRUT
VETTORI
A poca distanza da Conegliano, le vigne dell’azienda Vettori (una trentina di vendemmie alle spalle) fanno nascere dei Prosecco che hanno un punto di forza assolutamente non trascurabile, anzi decisivo: non mostrano di solito alcun carattere artificioso nei profumi né al gusto, ma al contrario si propongono con particolare naturalezza di tratti. Ne è ottimo esempio il Valdobbiadene Superiore Brut, nitido nelle note floreali e agrumate all’olfatto, percorso da una spuma carbonica delicata, sottile, molto ben bilanciato al palato tra la dolcezza del frutto e la freschezza dell’acidità.

SACRISASSI ROSSO
LE DUE TERRE
Una curiosa passione che ha una piccola percentuale di enofili è quella per i vini che odorano di pepe. Esiste infatti una ricorrenza analogica puntuale che rimanda al pepe in diversi vitigni: il groppello, la pelaverga, il ciliegiolo, il sirah. Non è un dato soggettivo perché il rimando è dovuto alla presenza di una precisa molecola, il rotundone. Bene, anche (anzi, soprattutto) lo schioppettino contiene rotundone. Se vi piacciono i rossi speziati, il Sacrisassi – schioppettino e refosco – fa al caso vostro: scattante, pieno di succo, delizioso all’olfatto, ha maturità di frutto e insieme molta freschezza.

MALVASIA
SKERLJ
Negli ultimi anni è esplosa una delle tante mode che affliggono il mondo del vino, quella dei bianchi ottenuti da macerazioni sulle bucce. Il nucleo di produttori originario recuperava tecniche arcaiche ed era animato da un genuino desiderio di ritrovare radici storiche. Poi all’autentico si è affiancato il furbesco di chi cavalca la voga del momento. Così oggi un bel numero di orange wines è solo esibizione di un colore arancio/ambra e
di gusti ripetitivi all’insegna dell’astringenza tannica. La Malvasia di Skerlj ha invece a pena un tocco di macerazione, quanto basta per dare complessità a un bianco fresco, slanciato, molto naturale.

CARSO TERRANO
CASTELVECCHIO
Volendo essere schematici, esistono due macrocategorie di rossi: quelli morbidi, di tendenza dolce, e quelli sapidi, più nervosi che rilassati. Se amate rossi avvolgenti quali l’Amaro- ne, passate oltre, perché il Terrano appartiene risolutamente al secondo genere. È un rosso che nasce in un’area estrema, su pendii rocciosi scoscesi, spesso sferzati da una bora micidiale. Il Terrano di una volta aveva un’acidità addirittura “elettrica” ed era una specie di cavallo imbizzarrito. Oggi, con una leggera doma in cantina, l’uva di base fa nascere rossi snelli, freschi, pieni di frutto croccante. La versione di Castelvecchio è esemplare.

METODO CLASSICO IL MATTAGLIO BLANC DE BLANCS
CANTINA DELLA VOLT
Il livello di perfezione formale raggiunto nella presa di spuma permette alle diverse cuvée di Christian Bellei di misurarsi senza alcun complesso di inferiorità con il vertice del mercato italiano e per no gallico. Nonostante il successo di pubblico e di critica onori in particolare il lavoro svolto partendo dall’uva-simbolo del territorio, il lambrusco, qui caldeggiamo di provare con mano, o meglio con lingua, l’esito brillante del Metodo Classico ottenuto da uve chardonnay: che sprigiona un’intensità olfattiva, un’energia motrice al palato, una progressione molto rare da rintracciare altrove.

ROMAGNA SANGIOVESE
MARTA VALPIANI
Per riflesso mentale alla parola sangiovese l’appassionato di vini tende ad associare la Toscana. Eppure il sangiovese, oltre a essere una varietà quasi ubiqua in tutto il territorio nazionale, trova una regione di elezione anche in Romagna. Qui è stato svilito a lungo da rese per ettaro alte e da vinificazioni sciatte. Da qualche tempo produttori scrupolosi ne stanno portando in luce le considerevoli potenzialità.
È il caso di Elisa Mazzavillani, giovane vignaiola che ha scelto di fare rossi giocati sulla delicatezza dell’estrazione, sulle mezze tinte aromatiche, più che sulla potenza. Il suo Romagna Sangiovese si propone così, succoso e pericolosamente facile da bere.

CHIANTI CLASSICO
LAMOLE DI LAMOLE
Un tempo nemmeno troppo remoto era un segreto custodito con riservatezza degna di carbonari: per finezza di profumi ed eleganza dei sapori il Chianti Classico proveniente dai vigneti sommitali di Lamole è tra i rossi più buoni da bere del globo terracqueo. Vigneti sommitali perché in zona si toccano i punti più estremi in altitudine della coltivazione del sangiovese: circa 650 metri sul livello del mare. Le parcelle aziendali sono appena meno alte, sui 500 metri. Il Chianti che se ricava rispecchia con fedeltà il carattere del posto: delicatezza nel frutto, sapidità infiltrante, bella grana tannica.

TÏN SANGIOVESE
MONTESECONDO
La smania di novità modaiole si traduce in fiammate di interesse per i più disparati specchietti per le allodole: affinamenti subacquei, botti a forma di conchiglia, pietre nel mosto coerenti con il segno zodiacale. Una tecnica arcaica, tuttavia, non è stata rispolverata per attrarre i gonzi; o almeno, non dai vignaioli che per primi l’hanno studiata e ripresa: la vinificazione in anfora. Spesso e volentieri l’anfora dona infatti al vino una qualità supplementare. Il Sangiovese Tïn di Silvio Messana ha tutti pregi di un ottimo Chianti – freschezza, sapidità, frutto nitido – cui si aggiunge una qualità aromatica priva di sbavature sul piano della pulizia.

BRUNELLO DI MONTALCINO
LE CHIUSE
“Nelle questioni di grande importanza è lo stile, e non la sincerità, quello che conta”, scriveva Oscar Wilde. Se avesse assaggiato il Brunello di Montalcino Le Chiuse, il celebrato scrittore irlandese avrebbe dovuto ricredersi. Questo rosso sa infatti sposare armoniosamente uno stile elegante, calibratissimo nell’estrazione tannica, con una netta fedeltà ai migliori caratteri della tradizione: pienezza di costituzione, generose fondamenta tanniche, finale di grande grip e allungo. En passant, due suggerimenti in uno: il Rosso di Montalcino della casa è altrettanto riuscito.

ROSSO DI MONTALCINO
PODERE SANTE MARIE
Montalcino è celebre in tutto il mondo per il suo Brunello, ma il Rosso, che è considerato a torto il fratello minore, ha invece molte ragioni per essere tenuto in uguale considerazione. L’uva è la stessa, ma il disciplinare più snello ne consente l’uscita sul mercato in anticipo. I Rosso hanno quindi in media un frutto più tonico e un assetto aromatico più fresco. Così infatti si propone il Rosso di Marino Colleoni, da una piccola vigna nei pressi della chiesa della Madonna del Soccorso. Ampio, aperto, limpido, ha tannini fini ma tenaci e una notevole progressione al palato.

SACROMONTE
CASTELLO DI POTENTINO
Fuori dei recinti delle denominazioni più illustri è sempre più facile rintracciare bottiglie di significativa qualità in terra toscana. Le vigne del Castello di Potentino si trovano alle pendici nord-occidentali del Monte Amiata. Di proprietà di inglesi amanti della Toscana, come da cliché molto classico, Potentino firma rossi che privilegiano la finezza rispetto alla potenza bruta. Il Sacromonte, da uve sangiovese, è da anni giustamente famoso per la ricchezza dei profumi che offre, in contrappunto a un gusto più austero, essenziale, ma mai privo di grazia e piacevolezza.

BOLGHERI ROSSO
LE MACCHIOLE
Qualche lustro fa la zona vinicola del bolgherese ha conosciuto una crescita tumultuosa, e nuclei aziendali di ogni dimensione sono sorti come funghi lungo un esteso tratto di questa parte della Maremma settentrionale. Pochi nomi, tuttavia, hanno iniziato ad operare qui prima del boom dei Cabernet locali. Tra questi va annoverato di sicuro Le Macchiole, l’azienda di Cinzia Merli che da molte vendemmie propone selezioni di certosina cura. Il Bolgheri “d’annata” ha la stessa qualità delle cuvée più famose della casa, in un registro più sciolto, più agile, più beverino.

GLI EREMI
LA DISTESA
Corrado Dottori è una gura di particolare rilevanza nel panorama produttivo marchigiano. Non soltanto per le sue indubbie doti di vignaiolo, quanto anche per il ruolo di coscienza critica. Il suo libro “Non è il vino dell’enologo” (2012) ha gettato non un sasso, ma un discreto masso nello stagno. Gli Eremi nasce, come gli altri vini, da una conduzione agronomica che rigetta l’uso delle sostanze di sintesi e da una vinificazione spartana ed essenziale (ma non abborracciata). Da uve verdicchio, ha pienezza aromatica, grande intensità gustativa, significativa persistenza finale.

PECORINO ONIROCEP
PANTALEONE
Per gli esploratori del gusto marchigiani – e italiani tout court – l’Onirocep Pantaleone non costituisce certo una novità. Da molti anni è citato dagli enomaniaci più intransigenti ed è presente in molte carte dei vini di locali illustri. I motivi sono semplici: una qualità in media scintillante, un prezzo ancora molto ragionevole, una buona reperibilità su tutto il territorio nazionale. Ottenuto da uve pecorino (Onirocep scritto al contrario), è un bianco che non “vede” legno ma solo acciaio, e basa il suo profilo su una rinfrescante corrente agrumata che attraversa con misura i profumi e il gusto.

IL BIANCO
ANNESANTI
Negli anni 90 e 2000 tecnici spregiudicati hanno cambiato il volto della viti- coltura umbra, piantando ovunque varietà a bacca rossa e di conseguenza spiantando centinaia di ettari di vigneti a bacca bianca. Perciò nell’immaginario di molti vino umbro equivale oggi a vino rosso. Un vero peccato, perché qui si possono fare bianchi di notevole livello. È il caso del Bianco del giovane Francesco Annesanti. Nella sua gamma peschiamo il bianco in teoria più semplice e nei fatti più economi- co: un vino sorprendente per ampiezza, intensità e slancio, percorso da una vena salina che propizia molti abbinamenti a tavola.

INDIGENO TREBBIANO
CHIESA DEL CARMINE
Si tratta di un progetto che ha pochi anni di vita, ma con notevoli ambizioni di scalata delle gerarchie qualitative non soltanto regionali. La figura cardine è senz’altro Giovanni Dubini, nome molto apprezzato per la pluridecennale attività di produttore (sua la nota azienda Palazzone), scelto dai proprietari come consulente. Giovanni ha mano sicura nel disegnare bianchi sapidi ed eleganti, e guarda caso l’Indigeno (nelle prime vendemmie “Trebbiano Spoletino”) si propone fresco, ritmato, in bella alternanza tra note saline e fruttate.

CESANESE DI OLEVANO ROMANO SILENE
DAMIANO CIOLLI
Il comprensorio ciociaro del Cesanese – nelle sue declinazioni del Piglio, di Affile, di Olevano Romano – è sicuramente l’areale di produzione migliore del Lazio per i rossi. Un tempo poco considerato, oggi è uno dei nomi più pronunciati dall’appassionato esperto. Damiano Ciolli è tra i pionieri della rinascita di questo vino rustico e saporito. Le prime edizioni dei suoi vini, pur molto buone, erano appesantite da un calore alcolico quasi da distillato. Oggi invece il Silene trova un equilibrio, una misura nell’estrazione, una facilità di beva a tutta prova.

FIENO DI PONZA
ANTICHE CANTINE MIGLIACCIO
Il Fieno di Ponza è un vino sorprendente. In primo luogo perché nasce in una delle vigne più remote d’Italia, a Punta Fieno, nell’estrema punta meridionale dell’isola. Poi perché ospita varietà ischitane quali la biancolella e la forastera, importate da un antenato degli attuali proprietari nel 1700. Poi, ancora, perché le uve devono essere trasportate per la vinificazione a dorso di mulo a Dragonara, dato che nessun locale di cantina può per ovvi motivi di tutela paesaggistica essere costruito presso la vigna. Infine perché il bianco che ne risulta ha sì tratti aromatici “marini” (iodio, ostrica), ma anche peculiari note agrumate e floreali.

MONTEPULCIANO D’ABRUZZO MAZZAMURELLO
TORRE DEI BEATI
Qui a Loreto Aprutino opera la firma più carica di allori della regione, quella della famiglia Valentini. Di storia più recente, ma di fama già consolidata, la confinante azienda Torre dei Beati ne ripercorre le tracce nella ricerca di una qualità genuina. Adriana Galasso e Fausto Albanesi, i titolari, hanno tuttavia saputo ritagliarsi uno stile autonomo, che disegna rossi dal timbro fruttato più tonico. Il Mazzamurello ha tratti aromatici che lo imparentano a un rosso del Rodano (inchiostro, pepe), ma rimane ancorato al profilo del Montepulciano tradizionale, corposo, verace, dai tannini saporiti.

TAUMA VINO ROSATO
PETTINELLA
Non fa parte della Doc Cera- suolo d’Abruzzo, ma il Tauma si è ritagliato da poche vendemmie un ruolo di primattore nel contesto – ricco di ottima concorrenza – dei rosati regionali. Non va dimenticato che in terra abruzzese il vino considerato storicamente migliore non era rosso né bianco, ma appunto rosato. Lo produce alle pendici della Maiella, con scrupolo maniacale, Giuliano Pettinella; il che fa anche rima. Fermentazione in barrique “esauste”, affinamento sulle fecce nobili, nessuna filtrazione finale: ne viene un vino di rara delicatezza all’olfatto e al gusto, soffuso, ricamato, ma anche salino e tenace in chiusura.

GRECO DI TUFO
BAMBINUTO
Un giorno del 2088 (e si spera anche molto prima, ovviamente), l’intera comunità del vino darà per assodata una verità che oggi è comunque di evidenza solare per il bevitore smaliziato: l’Irpinia è tra i tre o quattro più grandi territori del mondo per i vini bianchi. La fama del Greco di Tufo e del Fiano di Avellino, dopo un paio di decenni di appannamento dovuto a un abbassamento dello standard di molte bottiglie, ha ritrovato le sue patenti di nobiltà. Il Greco di Marilena Bambinuto è talvolta rustico in alcuni tratti aromatici, ma al palato sprigiona un’energia e una progressione da far invidia a un Meursault Premier Cru.

TAURASI
PERILLO
Il Taurasi è da tempo rubricato tra i vini più completi prodotti in Italia: nei casi migliori ha particolare complessità aromatica, struttura non
bruta ma finemente disegnata, eccellente longevità. Un profilo che ben si adatta al Taurasi di Michele Perillo, cui una lieve variabilità di esiti da bottiglia a bottiglia non sottrae forza espressiva, qualità dei tannini e sicura progressione al palato. Tipico, in particolare, il sentore affumicato di cenere vulcanica che ne marca (con discrezione) il lungo finale.

FIANO DI AVELLINO
ROCCA DEL PRINCIPE
Fiano di Avellino e Greco di Tufo formano una coppia indissolubile, ma a differenza del mito dei Dioscuri (Castore e Polluce, uno morto e l’altro immortale), entrambi questi celebri bianchi irpini godono di ottima salute. La sottozona di Lapìo è considerata una delle migliori di tutta la denominazione. Qui la famiglia Zarrella coltiva una mezza dozzina di ettari, da cui ricava un Fiano energico e reattivo, ottimo da giovane e capace di un ampio arco evolutivo in cantina. L’età matura (cinque anni e oltre) gli conferisce ulteriori doti in termini di ampiezza aromatica e profondità gustativa.

AGLIANICO DEL VULTURE SERRA DEL PRETE
MUSTO CARMELITANO
Al modello dell’Aglianico di monumentale imponenza strutturale – tutto polpa, fittezza tannica, calore alcolico – ho sempre preferito espressioni più sfumate, più giocate sui chiaroscuri aromatici. Va comunque riconosciuto all’azienda Musto Carmelitano (è un doppio cognome, non un nome e cognome: “mio nonno Musto” non c’entra) di saper far “muovere” il robusto corpo dei rossi con una certa agilità. Il Serra del Prete è pieno e ricco, ma è anche – in media – sostenuto da una corrente di freschezza che innerva e sostiene il sorso.

NEGROAMARO CAPOPOSTO
ALBERTO LONGO
Pochi vini del sud sono associati all’idea di calore alcolico e di densità sciropposa quanto i rossi pugliesi: vini caldi e mediterranei per definizione. Senonché, a un occhio o meglio un palato non afflitto da pregiudizi, la realtà si presenta molto più sfrangiata. E se è vero che i Primitivo di Manduria sono dei campioni della tipologia, altrove le ragioni del rosso scattante, vivo, di beva scorrevole si fanno valere. È il caso del Capoposto di Alberto Longo, un Negroamaro che propone un corpo sì concentrato e fitto nei tannini, ma in un disegno svelto, profumato, pieno di ritmo gustativo.

CIRÒ ROSSO CLASSICO SUPERIORE
‘AVITA
Avvicinando una bottiglia dell’azienda ‘A Vita – marchio creato da Francesco De Franco circa tre lustri fa, ristrutturando le vigne di famiglia e recuperandone di nuove – scordatevi il pro lo caldo e un po’ slabbrato, precocemente ossidato, di molti Cirò d’antan. Qui la generosità dell’alcol, pur presente, è ricondotta entro un disegno che privilegia la dinamica del gusto. Sapido, ricco di sfumature aromatiche, un po’ austero in giovane età, il Cirò ‘A Vita traduce con estrema fedeltà il carattere deciso e insieme sfumato del migliore gaglioppo.

FARO
BONAVITA
Con una lentezza degna di un rimborso dell’Agenzia delle Entrate, il consumatore si sta rendendo conto che la Sicilia non fa vini tutti uguali, uniti nel cliché del rosso pesante o del bianco grasso e alcolico. Ma che al contrario vanta una tale complessità di stili e tradizioni da poter essere definita un continente, più che un’isola. Da poco è uscita dall’ombra una tipologia che ha carattere quasi nordico, la Doc Faro. I vitigni di base sono nerello mascalese e nerello cappuccio. La versione di Giovanni Scarfone si distingue per la grazia nell’estrazione tannica, la delicatezza tattile del gusto, il finale sapido e tenace.

SPUMANTE BRUT ROSÉ METODO CLASSICO VINUDILICE
I VIGNERI
Suonerà sorprendente, ma si possono ottenere vini spumanti di qualità senza compromessi anche in remote terre meridionali. Metodo Classico non significa infatti necessariamente uve acide coltivate su terre fredde e climi nordici dai cieli lattiginosi. A esclusione della fascia che va dalla Guinea Equatoriale al Kenya, infatti, si possono trovare vini “mossi” di qualità anche molto a sud. Qui ci troviamo sulle pendici dell’Etna, dove Salvo Foti realizza uno spumante da diverse uve locali (alicante, minnella, eccetera). Nessun tratto pesante né all’olfatto né al palato: prevalgono invece la freschezza, la luminosità, la “pulsazione ritmica” del gusto.

ETNA BIANCO GAMMA
FEDERICO CURTAZ
Vignaiolo e vinificatore, più che “enotecnico”, Federico Curtaz è un personaggio eclettico. Valdostano di nascita, è noto e apprezzato per le sue incursioni produttive in diverse terre italiche, dalla Toscana alla Sicilia. In quest’ultima regione firma da diverse vendemmie – da una vigna in notevole altitudine, ben 900 metri sul livello del mare – un bianco di energia e articolazione gustativa di solito impressionanti: cristallino nei profumi, ampio e insieme vibrante al gusto, rende piena giustizia al terroir unico del vulcano.

PASSITO DI PANTELLERIA
FERRANDES
Pantelleria è un’isola unica. Si trova all’estremità meridionale dei confini nazionali, immersa nel Mediterraneo, ma ha peculiarità climatiche bizzarre: può essere avvolta dalla nebbia a luglio (!) ed è battuta da venti tesi che fanno invidia al mare del Nord. Qui le viti devono per forza
di cose essere ad alberello, diversamente sarebbero affettate come una cipolla dal maestrale. Il sontuoso Passito di Pantelleria Ferrandes ha dolcezza misurata e una corrente di freschezza che lo controbilancia perfettamente, rendendolo un modello del vino “dolce/non dolce” di veronelliana memoria.

U.V.A.
PANEVINO
Non si può certo affermare che Gianfranco Manca sia una persona di facile approccio. Riservato fin quasi all’estremo della clausura monacale, inafferrabile e irrintracciabile per chiunque, ha però le qualità necessarie richieste a chi fa vino d’autore. Le sue cuvée cambiano nome a ogni nuova annata. Quindi questa citazione a U.V.A. (United Vineyards of Angiona) va considerata
un suggerimento generico a seguire il produttore, più che la singola etichetta. Da uve locali, ha intensità di macchia mediterranea all’olfatto e un sapore vibrante, sapido, lungo.

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