Per molti il primo incontro con Stefano Benni è avvenuto attraverso i suoi libri. Per me, invece, tutto cominciò davanti alla televisione, con La Compagnia dei Celestini su Rai 2: uno shock per un bambino cresciuto con l’epica patinata di Holly&Benji, improvvisamente catapultato in un calcio poetico, sgangherato e pieno di umanità. Poi mia madre mi spiegò che quella storia era nata in un libro. Da allora iniziai a leggerlo, e con lui ho imparato a guardare il pallone – e la vita – con occhi diversi.
Con la sua satira inconfondibile, Benni ci ha insegnato che purezza e valori autentici sono sempre fragili, costantemente minacciati da corruzione e interessi commerciali. La storia dei Celestini – orfani che giocano a “pallastrada” – è una metafora potente della società moderna: un gioco fatto di fantasia e amicizia che si scontra con l’ipocrisia e la rigidità del mondo adulto. Non è un caso che l’autore scelga proprio il calcio, spesso specchio dei vizi e delle virtù umane. In questo senso la “pallastrada” diventa l’antidoto alla professionalizzazione esasperata e alla commercializzazione dello sport: un ritorno alle radici più genuine del gioco. Rileggendo l’opera, da appassionato ho scoperto anche tutti i suoi richiami al cibo. Il racconto è davvero una macedonia di ingredienti diversi: un mix di umorismo e riflessione che si assapora come una pietanza. Si ride, si riflette, e si intuisce che la verità sul mondo può essere persino più assurda della finzione – proprio come una “fetta di mela secca” capace di contenere un’intera storia.
La Compagnia dei Celestini ci ricorda che, per difendere la nostra piccola “briciola di giustizia”, dobbiamo imparare a guardare la realtà con occhi nuovi. Proprio come quei ragazzi che, con la loro “pallastrada”, sono riusciti a far tremare il sistema. Oggi che Stefano Benni ci ha lasciati, ci sediamo alla sua tavola immaginaria con quella dolceamara consapevolezza che accompagna ogni pranzo di ricordi. Tra un sorso di caffè e l’altro ritroviamo il modo in cui la sua scrittura sapeva trasformare il mangiare in racconto, la colazione in rito, una semplice brioche in mito.
Cibo come linguaggio e satira
Se cercate Benni nel registro del gusto, lo troverete dappertutto: non tanto per ricette o descrizioni gastronomiche da manuale, quanto per una grammatica del sapore che usa il cibo come lente per leggere la società. Nei suoi libri il cibo è linguaggio: parola che ride, che deride, che consola, che accusa.

Pensate a come un piatto, nelle sue pagine, non resta mai neutro: una brioche diventa testimonianza di abitudini collettive, un bicchiere di vino si trasforma in complice di confidenze, un panino imbottito può contenere in sé l’intero peso delle disparità sociali. Il cibo non serve soltanto a saziare i personaggi, ma diventa uno specchio ironico dell’Italia stessa, capace di restituirci con esattezza poetica le sue contraddizioni.
La satira di Benni nasce proprio dalla sua capacità di deformare e amplificare i gesti quotidiani legati al cibo. Una colazione al bar diventa tragedia farsesca, un pranzo d’osteria si allarga fino a sembrare un’epopea popolare, un banchetto si trasforma in manifesto politico. In questo ribaltamento ci riconosciamo tutti: le nostre abitudini si specchiano nei suoi racconti, ma appaiono come nuove, filtrate da una lente deformante e insieme liberatoria.
La critica letteraria lo ha sottolineato più volte: Benni costruisce un vero e proprio dizionario enogastronomico della provincia e delle sue metamorfosi. Attraverso la caricatura di un caffè bruciato, l’invenzione di un piatto inesistente o l’esagerazione di una bibita improbabile, egli ci mostra le storture di un Paese che corre verso il consumo di massa ma non rinuncia ai suoi riti antichi. Così, la sua scrittura fa del cibo un alfabeto comune: un lessico che tutti comprendiamo perché è fatto di sapori, di abitudini, di memorie che ci appartengono.
Nella sua lingua gastronomica reinventata batte il cuore della satira: ridere del nostro modo di mangiare significa ridere di noi stessi, senza mai perdere la tenerezza di chi riconosce nella convivialità un atto sacro. Per questo, leggere Benni non è solo fare letteratura: è sedersi a un tavolo dove ogni metafora è commestibile e ogni battuta, come un buon vino, allunga il tempo e scioglie la malinconia.
La sua forza è stata anche questa: dimostrare che si può scrivere bene senza ostentare complessità. In un’Italia – soprattutto negli anni Novanta – in cui era di moda non farsi capire per sembrare più intelligenti, Benni se ne infischiava. Ha seguito la sua strada, semplice e visionaria, e dentro i suoi libri ha riversato tutte le passioni che lo hanno reso unico
I volti del cibo di Benni
Pensate anche al bar come a un piccolo teatro: il bancone, la bacheca delle paste, la radio che gracchia. In Bar Sport il bancone è cronaca e farsa insieme; il cibo che appare è spesso ornamentale, segnale di una convivialità sospesa fra nostalgia e beffa. Non a caso Benni scrive: “Al bar Sport non si mangia quasi mai”. Una frase che invita a leggere la vetrina delle paste come repertorio di memorie, un archivio comico e malinconico.

E poi c’è la Luisona: non un dolce qualsiasi, ma la decana delle paste esposte, figura mitologica che concentra tutta l’ironia di Benni. Immobile in vetrina, diventa un totem del tempo sospeso, metafora di ciò che resiste anche quando il consumo diventa artificio. Nei suoi sequel e nelle variazioni – come la Palugona – Benni racconta la trasformazione della colazione e del bar, ricordandoci che la modernità può cambiare sapori e riti, ma non l’ironia che li accompagna.
In Pane e tempesta il cibo è resistenza, gesto antico di sopravvivenza e comunità. “E anche se il vento ci soffia contro, abbiamo sempre mangiato pane e tempesta, e passeremo anche questa”, scrive Benni, trasformando la fame in affetto, lo stomaco in pelle narrativa che accoglie il mondo. Qui il cibo è promessa di condivisione: non solo nutrimento, ma alleanza.
Allo stesso tempo Benni sa guardare la disparità dietro il piatto. In Margherita Dolcevita la bocca diventa cartografia di classi e attitudini: “Quelli che mangiano il cioccolato senza pane” rappresentano mondi diversi, divisi persino da una tavoletta. L’autore mette in scena, con affetto e ironia, la differenza fra chi può permettersi il lusso e chi deve organizzare il desiderio.
Un invito a tavola
Oggi che la sua voce si è spenta, resta il tintinnio delle posate che battono in letteratura, come se le frasi fossero bicchieri da riempire e i capitoli pane da spezzare. Stefano Benni ci lascia una tavola imbandita di parole fragranti, brioche leggendarie e banchetti di fantasia.
Non c’è malinconia in questa eredità, ma un sorriso che sa di vino rosso e di storie raccontate al lume di candela. Il suo cibo non si consumava mai davvero: era memoria, ironia, resistenza, compagnia. La certezza che sedersi insieme, anche solo sulle pagine, significa sentirsi parte di una comunità.
Ora tocca a voi, lettori e viandanti del gusto, raccogliere quel testimone: assaggiare la Luisona, bere il suo umorismo come un liquore denso, condividere le sue invenzioni come si condivide un piatto con un amico. Così il suo mondo continuerà a vivere, e ogni volta che entrerete in un bar di provincia o osserverete una vetrina di dolci, vi sembrerà di sentire una voce che sorride: “Mangiate pure, c’è posto per tutti”.