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Chi ha inventato l’all you can eat? C’entra il crollo della borsa del 1929

Origini americane, influenza asiatica e rischi igienici: come si è evoluta una formula nata per contrastare la fame durante la Grande Depressione

La formula dell’all you can eat ha origini ben più lontane dei ristoranti di sushi contemporanei. Nata durante la Grande Depressione negli Stati Uniti come risposta alla fame e alla povertà, è oggi una strategia commerciale globale. Lo sviluppo del format, la sua espansione e le implicazioni igienico-sanitarie delineano una parabola alimentare che ha trasformato un’esigenza sociale in un consumo senza limiti.

Agli albori degli all you can eat

L’espressione all you can eat è oggi comunemente associata alle abbuffate di cucina asiatica, piatti a costo fisso e consumi veloci. Tuttavia, la genesi di questo format non è legata all’Estremo Oriente né alla cultura gastronomica giapponese, bensì agli Stati Uniti del XX secolo. La sua storia inizia in un contesto di emergenza economica, quando il crollo della Borsa di Wall Street nel 1929 generò una crisi alimentare di massa. Con milioni di persone ridotte in povertà, la ristorazione dovette reinventarsi. Il modello di business che offriva grandi quantità di cibo a prezzi contenuti rappresentò una risposta immediata a un bisogno primario: sfamarsi.

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Nel decennio successivo, alcuni imprenditori statunitensi iniziarono a proporre pasti a prezzo fisso ispirandosi alla formula del buffet europeo. Non si trattava tanto di garantire la qualità quanto di assicurare l’abbondanza. Uno dei primi a codificare il format fu Herbert Cobb McDonald, pubblicitario a Las Vegas, che nella seconda metà degli anni Quaranta lanciò il primo ristorante con il nome ufficiale di “all you can eat”. L’obiettivo era chiaro: offrire varietà alimentare per calmare, come dichiarava lui stesso, “il coyote ululante delle viscere”.

Nata quindi come risposta a una necessità sociale, la formula si è successivamente trasformata in un potente strumento commerciale. L’associazione con la cucina asiatica – in particolare con il sushi – è un fenomeno recente, in parte legato all’espansione globale di ristoranti a conduzione cinese o fusion, e alla popolarità dei piatti giapponesi presso il pubblico giovane. Nel corso degli ultimi vent’anni, l’all you can eat ha trovato terreno fertile anche in Europa, Italia compresa. Il format è stato adottato non solo nella ristorazione asiatica ma anche in pizzerie, bracerie e locali che propongono cucina regionale in versione illimitata.

La convenienza del modello per gli imprenditori è evidente: costi contenuti, gestione standardizzata, volumi elevati. Tuttavia, gli effetti collaterali di questa strategia non sono trascurabili. L’equilibrio tra prezzo, quantità e sicurezza alimentare risulta spesso compromesso. In Italia, le indagini dei NAS rivelano con cadenza periodica casi di cattiva conservazione, prodotti scaduti, igiene carente. Il basso prezzo dei menù all you can eat implica, in molti casi, una selezione di materie prime economiche e una filiera poco trasparente.

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Il contratto implicito tra cliente e ristoratore prevede l’obbligo di consumare tutto ciò che si ordina. È infatti legittima la richiesta di penale per chi lascia avanzi nel piatto, purché comunicata in modo chiaro nel regolamento del locale. La dinamica che ne deriva è paradossale: una promozione della sovralimentazione, seguita spesso da spreco e disagio postprandiale, in nome del consumo illimitato.

L’all you can eat oggi rappresenta un simbolo dell’ambivalenza dei modelli alimentari contemporanei. Nato come forma di sopravvivenza durante una crisi, si è convertito in un’esperienza gastronomica percepita come accessibile, spesso svincolata da qualità e consapevolezza nutrizionale. All’interno del format convivono pratiche che vanno dal pasto veloce economico alla performance alimentare, alimentando fenomeni di food excess che trovano riscontro anche nei trend social.

L’evoluzione dell’all you can eat riflette dunque dinamiche economiche, culturali e comportamentali. Da risposta a un bisogno primario a leva commerciale, da strumento di inclusione a causa di potenziali rischi per la salute, il format continua a interrogare il presente. La sua tenuta nel tempo dipenderà anche dalla capacità di adattarsi a una maggiore sensibilità verso sostenibilità, qualità delle materie prime e benessere alimentare.

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Foto da Shutterstock

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