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caldo de pollo

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The Comfort Food Chronicles – Magica abuela

Il calore consolatorio della zuppa di pollo mi fece capire che sarebbe andato tutto bene

Abuela diventava un’altra donna quando ero ammalato. Sembrava sempre la signora che mi salutava nel parcheggio del casinò quando andavo a giocare alle slot machine, ma di animo più gentile. Mi faceva stendere sul divano, tenendo le mie gambe sul suo grembo, e cantava sottovoce mentre guardava le sue telenovele preferite. Oppure metteva sulla mia fronte un panno freddo e faceva bollire del tè. E, sempre, mi preparava del caldo de pollo — cosce di pollo con l’osso che spunta, brodo ricco di grasso, verdure tagliate a pezzi e una gran varietà di erbe aromatiche in superficie. Tortillas di mais decoravano i bordi della ciotola, ideali per prendere i pezzi di pollo. Il calore scacciava la malattia dalle mie dita. Lei non lo chiamava caldo de pollo. Chiamava raramente le cose con il loro nome spagnolo in mia presenza. Però non la chiamava nemmeno chicken soup. Non veniva chiamata in nessun modo. Faceva la sua comparsa quando mi ammalavo, innominata e benvenuta, insieme a Sprite e Vaporub, gli elisir del mondo messicano. Questi giorni di convalescenza intimamente mi mancavano, una volta rimessomi in salute, quando Abuela ritornava a darmi del viziato, a battibeccare con mia madre per questioni di soldi. È difficile ricordare come ci si sente da malati quando si sta bene, ma io avevo bene in mente il calore consolatorio di quella zuppa che scendeva nel mio stomaco, che mi diceva che sarebbe andato tutto bene.

Per i messicani è normale provare l’esperienza di quello che io definisco un ricordo senza memoria. La nostra infanzia è costellata di rituali di cui non comprendiamo la natura e le ragioni. Un’amica chicana mi ha raccontato che, quando lei era malata, la sua abuela (nonna, ndt) scaldava delle tortillas e le sistemava sulla sua pancia cantando: «Sana, sana, colita de rana». Il mio abuelo mi ha raccontato che sua madre metteva un uovo sotto al suo letto quando lui era malato. Noi sappiamo che c’è qualcosa di ancestrale in queste pratiche; sono profonde ed elaborate come tutte le cose antiche. Ma gli antenati non hanno un volto e questi rituali sono eseguiti come liturgie, raramente accompagnate da altra spiegazione che non fosse: «Mia madre faceva così quando ero malato».

A quelli di noi che si sono naturalizzati statunitensi, la stessa storia latinoamericana può apparire come una congerie di quei sogni da febbricitanti che si ricordano solo a tratti, di trame, reliquie e tradizioni con radici così contorte e antiche da impedire qualunque lettura razionale. Io credo che dipenda dal fatto che la nostra cultura si presti al fantastico, al realismo magico che ha trovato terreno fertile nelle nostra gente. Abitiamo un mondo di mezzo. Questo concetto chiamato nepantla, indagato da accademici come l’erudita chicana Gloria Anzaldúa, è presente e influenza anche la nostra cucina, dove le tradizioni indigene continuano a vivere in oggetti di uso quotidiano come il comal, una griglia per le tortilla, chiamata comali dagli Aztechi, e il molcajete, un mortaio con pestello di origine precolombiana.

Oltre agli oggetti vi sono anche i miti e le leggende, che possono anche aver perso i loro nomi originari o essere stati incorporati dalla cultura occidentale ma che continuano a dominare la nostra memoria: sono le vecchie divinità delle cucine dalla nostra infanzia. Vivono nel nostro linguaggio, nelle nostre tradizioni e nel nostro modo di vivere. Il fatto che non esista distinzione tra cibo e medicina ne è un chiaro esempio, ed è qualcosa che i nostri antenati conoscevano benissimo. E proprio qui, dove si incontrano le tradizioni culinarie e la medicina popolare, troviamo il magico potere guaritore delle nostre abuelas. A quante più persone ho chiesto, più storie ho ascoltato a proposito dei rituali e del cibo di «quando ero malato»: zuppe, canzoni, tortilla sistemate in questa o quella maniera.

Un amico mi ha indirizzato verso Felicia Cocotzin Ruiz, una curandera o curatrice tradizionale, che è diventata la madrina del movimento per decolonizzare la cucina. Uno degli obiettivi, tra gli altri, è di farla finita con la storia che i cibi e le tradizioni indigene appartengano solo al passato e di sottolineare le qualità della cucina dei nostri antenati. Così facendo, possiamo capire meglio loro e noi stessi.

«Tu potresti anche non scoprire mai cosa mettesse nella zuppa, la tua abuela», mi ha detto al telefono, dopo aver indovinato che lei cantava mentre preparava la zuppa. «L’ingrediente più importante è l’energia». Mi ha anche raccontato che alcuni ingredienti vanno girati in senso antiorario, ad esempio, mentre altri in senso orario, a seconda del flusso di energia presente nella cucina cosmica. «Sassolini», così ha definito queste pratiche. «Piccole cose a cui la nostra gente è riuscita ad aggrapparsi».

Per Cocotzin Ruiz, come per me e molti altri di origine messicana, è il desiderio di guarigione ad averla avvicinata alle sue tradizioni. Lei ha cominciato a muovere i primi passi per diventare curandera quando, nel 1991, suo fratello ha contratto l’HIV. Lo ha curato, gli ha massaggiato i piedi per aiutarlo a rilassarsi. Prima che morisse, lui le ha consigliato di andare a scuola di massaggi, cosa che lei ha prontamente fatto. Cominciò così a studiare curanderismo, includendo il suo amore per il cibo in questa pratica. Non potevo non pensare alla mia abuela, al fatto che mia madre alla sua morte costruì per lei un’ofrenda, un altare tradizionale provvisto di fiori, candele e cibo per il giorno dei morti. Era un atto di purificazione, un modo per noi, come famiglia, di affrontare una perdita. Mi ha fatto riflettere su come l’amaro sapore del dolore, della morte e della malattia inneschino dei richiami ancestrali dentro di noi.

Gli ingredienti del caldo de pollo sono semplici: pezzi di carne, di verdure e ritagli di altri ingredienti. È l’ideale per una famiglia la cui cucina è sempre attiva, con un bambino malato in braccio e un orto ricco di ortaggi sempre a disposizione. Abuela ne aveva uno proprio così. Quando avevamo mal di pancia, ci faceva masticare foglie di menta. Utilizzava pezzi di aloe vera per curare la pelle scottata dal sole, e peperoncino per il raffreddore — rimedi naturali, somministrati attraverso semi, canzoni e zuppe. Una volta ho provato anche a prepararmela da solo, per curare un brutto raffreddore. Ho messo nella pentola tutti gli ingredienti corretti, e anche il gusto era più o meno lo stesso, ma non ha avuto lo stesso profondo effetto. Penso che l’ingrediente fondamentale sia la presenza di qualcun altro, qualcuno che canti mentre mescola la zuppa, qualcuno che ti metta il piatto davanti, che voglia vederti guarire.

Forse il caldo de pollo di abuela non ha mai davvero fatto scendere la mia febbre. Forse c’è una qualche spiegazione scientifica. Probabilmente è così. Ma a me non importa. Queste pratiche sono più una sorta di tecnologia dello spirito che altro, elementi di cura rituale. Ci dicono: «Qualcuno si cura di te. Qualcuno ti ama. Guarirai presto». Noi li cerchiamo, quasi per un istinto animale, quando ci ammaliamo. E mentre aspettiamo che scenda la febbre, il nostro corpo ci ricorda chi siamo.

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Foto di Victor Protasio

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