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The Comfort Food Chronicles – Quando il cibo diventa amore

Come un piatto di tagliatelle può diventare il tuo ristoro, il tuo compagno, il tuo migliore amico.

Mia madre è una gran cuoca. Cucinare le viene naturale e ne è anche un po’ ossessionata. Lei stessa confessa un disturbo dell’alimentazione — per poi aggiungere che è equivalente all’alcolismo di sua figlia (cioè io). Con buona pace della privacy. Era ancora una bambina quando cominciò a trovare conforto nel cibo. Sua madre era una donna poco affettuosa, suo padre un alcolizzato, e lei era spesso abbandonata a sé stessa. Nel 1949, a cinque anni, vestita di un vecchio abito sporco e sgualcito, senza scarpe, fu messa su una bicicletta. Sua madre le disse solo: «La scuola è da quella parte». A sentire lei, non ha celebrato un compleanno fino a quando non è stata abbastanza grande da organizzarsi una festa da sola.

Ogni tanto andava a casa di suo nonno, dove viveva ancora lo zio Frank che le lavava la faccia e le mani, le dava dei vestiti puliti e la portava in cucina. Lei si sedeva su una panchina vicino alla finestra e lui si metteva dall’altra parte del tavolo, nel mezzo un mucchio di farina. Passavano i pomeriggi a impastare; mia madre aiutava a stendere l’impasto. Lo chiudeva pizzicandolo con le dita prima di sistemarlo su una teglia cosparsa di burro, che Frank sistemava sopra il forno; lei non si muoveva per due ore, finché non arrivava l’ora di infornarla, leggendo fumetti nell’attesa, senza perdere d’occhio l’impasto: una volta lievitato prendendo la forma tondeggiante di una nuvola, era pronto per essere cotto. Frank le dava dei guanti spessi per inserire la teglia in forno. Il crepitio della legna era l’accompagnamento perfetto al rumore della pioggia fuori dalla finestra. Quando apriva il forno, il profumo di Champagne del lievito e del burro caramellato invadeva la stanza, così intenso che pareva di sentirlo sulla pelle e restava nei capelli per giorni.

«Possiamo tagliarla?» chiedeva lei ogni volta che una pagnotta usciva dal forno. «No», diceva Frank, «dobbiamo attendere». E, quando finalmente arrivava il momento, eseguiva l’operazione con metodo: cospargeva sul pane uno strato di burro, che copriva con abbondante zucchero. Poi lo irrorava con poca acqua bollente, lentamente, per sciogliere zucchero e burro e farli assorbire. Questo è ciò che mia madre ricorda nei suoi sogni ad occhi aperti, che rivive quando dorme e ogni volta che racconta questa storia. Seduta accanto a Frank poteva mangiarne quanto voleva mentre leggevano il giornale insieme, col sottofondo della legna che ardeva.

Nei primi anni ’50, il Club 57 era il posto dove andare a Gary, Indiana. Questo accadeva in un’epoca in cui fare il barman era ancora un vero lavoro, e Frank era il migliore di tutta la città. Tutti andavano là alle 3 del pomeriggio del venerdì, quando lui cominciava il suo turno. Anche mia madre ci andava.
Dopo scuola lei saliva le scale fino al secondo piano, proprio sopra un grande magazzino, dove piccoli tavoli affollavano la sala. In fondo c’era un palco, dove proprio a quell’ora una band stava montando gli strumenti. Frank le preparava un «cocktail» alla granatina decorato con una ciliegina e lei se ne stava seduta al bancone del bar. Poi, le metteva di fronte un piatto di brasato di manzo con pasta fresca, che lei prontamente divorava. Anche per Frank il cibo era amore.

Mia madre era solita indossare degli stretti mocassini dell’anno precedente, che la costringevano ad arricciare le dita dei piedi. Mentre si riempiva nuovamente il piatto, Frank le ripeteva che era una brava bambina e che le voleva molto bene. «Quel brasato con la pasta fresca, però», ricorda mia madre, «era la cosa migliore di tutte. Venivano tutti per quello, il locale si riempiva velocemente mentre i musicisti cominciavano a suonare».

Lei si addormentava spesso su un divano nel retro e si svegliava il giorno dopo a casa del nonno, con il profumo del brasato. Ancora mezza addormentata, si trascinava in cucina e si sedeva al tavolo dove lei e Frank facevano il pane insieme. Un giorno lui le disse: «Ho un regalo per te». Scartò quello che sembrava un pezzo di carne avvolto in carta da macellaio, tenuto insieme da una graziosa cordicella. Quando si girò, stava tenendo in mano un paio di scarpe nuove fiammanti.
Mia madre sussultò: «Sono per me?». «Sì», rispose lui, e gliele mise ai piedi. Lei agitò le dita non appena le ebbe calzate.
«Riesco a muovere le dita».
«Lo so», rispose lui, «ti ho vista zoppicare, non va bene». Lei lo abbracciò forte.
«E adesso», disse lui, «mettiamoci a cucinare. È il momento di preparare brasato e pasta fresca». Frank girò la carne nella padella finché non ne ebbe rosolato ogni lato uniformemente, abbrustolendone leggermente gli angoli. La carne era stata precedentemente cosparsa di farina, i cui resti giacevano sul fondo della pentola di ghisa, annerendosi col passare dei minuti. Lui aggiunse burro, cipolle tagliate a pezzi grossolani e spicchi d’aglio schiacciati, ancora provvisti di buccia. Poi aggiunse acqua fino a coprire del tutto la carne, mise il coperchio e inserì la pentola nel forno.

Frank faceva ogni cosa con cura — senza ricorrere a trucchetti e scorciatoie. Faceva tutto a mano, macinava la farina e montava il burro da solo. «Le cose stavano esattamente così», ricordava mia madre, «ecco perché tutto era sempre così dannatamente buono». Frank versò un mucchietto di farina al centro del tavolo. Ne scaturì una nuvola bianca che si sollevò verso il soffitto. Era bellissima, pensò mia madre, come una valanga in miniatura. Lui formò un cratere al centro del mucchio e le disse di versarci 12 uova. Frank faceva la crème fraîche in casa lasciando della panna con una spruzzata di aceto di sidro di mele in un barattolo posto sopra la ghiacciaia. Ne mise un paio di cucchiai al centro del cratere. «Adesso puoi impastare», disse, e le fece segno di mettersi al lavoro. Poi prese in mano il composto disomogeneo e granuloso che lei aveva appena lavorato e cominciò a impastarlo sul tavolo. Lo girò su se stesso più e più volte, finché non fu perfettamente uniforme. Lo punzecchiò con un dito, e questo ritornò lentamente in forma. «Perfetto», esclamò. Lo avvolse in un panno e lo mise a riposare sul bancone della cucina, in un angolo fresco e riparato dalla luce. Svariate ore e molte parole crociate più tardi, Frank cominciò a stendere l’impasto con un grande matterello. Man mano che li faceva, lanciava i fogli di pasta stesa a mia madre, che li riduceva a striscioline con cura e precisione. Quando Frank aprì la pentola di ghisa, mia madre provò la sensazione che le sue amiche di scuola dicevano di avere riguardo ai ragazzi di cui s’invaghivano: sentiva le farfalle nello stomaco e aveva il cuore in gola dall’emozione.

La carne era morbida e succulenta; i muscoli cominciavano a separarsi, tenuti insieme solamente da un reticolo di grasso bianco come il latte. Frank spiegò che bisognava sempre scegliere carne ricca di grasso intramuscolare e cuocerla finché non cominciasse a disfarsi – ma non oltre. Tolse la carne dalla pentola, nella quale versò altra acqua, delle foglie di alloro e una spruzzata di vino rosso. Con l’aiuto di due forchette, si mise a separare la carne a pezzetti. Mentre la pentola ricominciava a bollire, lui mostrò a mia madre come cucinare la pasta, direttamente nella padella. La farina della pasta dava maggiore consistenza ai succhi di cottura, all’acqua e al vino, formando una salsa. Quando la pasta cominciava a galleggiare in questo ribollente insieme di ingredienti, Frank aggiunse la carne a pezzi e mescolò. Poi prese un grande mestolo di legno e riempì un piatto che mise di fronte a lei.
Frank era il mondo intero.

Maggiori informazioni

(Riproduzione autorizzata da Burn the Place di Iliana Regan, Agate Midway, Luglio 2019)

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Foto di Victor Protasio

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