Ho conosciuto il francese per un capriccio del caso. Un’amica comune ed io ci eravamo fermate in un bar, un sabato mattina, dove lui stava facendo colazione. Si alzò in piedi per un momento e ci invitò a fargli compagnia. Di carnagione olivastra, il Francese era un quarantenne dall’aspetto più giovane della sua età. Alto più di un metro e novanta, il suo corpo longilineo era scolpito da anni di calcio e tennis. Mi piaceva il modo in cui si passava le dita tra i capelli corvini e il modo disinvolto in cui sedeva, con le gambe incrociate. Mi affascinavano le sue lunghe ciglia, le sua dita lunghissime e ben curate, i suoi jeans di marca. Lo trovavo bellissimo. Volevo toccarlo. Ero ossessionata dal foglio di parole crociate piegato in quattro appoggiato sulle sue gambe, mentre teneva la penna e la tazza di caffè con la stessa mano. Erano quelle difficili, ma quasi tutte le caselle erano state riempite.
La cosa mi sembrava molto sexy. Ci siamo scambiati dei convenevoli mentre sorseggiavamo un cappuccino. La nostra conversazione virò velocemente sui nostri viaggi recenti e sulla politica internazionale. Sentivo la sua energia mentre parlavamo. Pochi minuti dopo, lui mi chiese un appuntamento. Scrisse il mio numero di telefono sul margine delle parole crociate. Quattro giorni dopo eravamo a cena insieme.
Il francese era il mio tipo. Ascoltava musica classica, jazz e la National Public Radio. Il Francese amava le parole e ne studiava ossessivamente l’origine nel dizionario etimologico. Scrivere era il mio lavoro, eppure, quando giocavamo a Scarabeo, mi batteva di 75 punti. Il Francese diceva di amarmi per la mia intelligenza, la mia consapevolezza sociale e culturale. Mi innamorai di lui istantaneamente. Ero ammaliata dal modo in cui parlava, con accento baritonale, usando un inglese impeccabile e formale. E poi c’era il modo in cui pronunciava il mio nome: za-MII-lah. Ma, più che altro, ero conquistata dal suo appetito insaziabile. Ho lavorato per molti anni come editor, a stretto contatto con critici gastronomici, osservando una gran varietà di approcci al cibo. Il Francese era un gran mangione. Una sera mi chiese se poteva finire la mia pasta ormai fredda, gommosa e immersa in una salsa grigiastra e ricoperta da scaglie di prezzemolo di scarsa qualità. Accidenti, è proprio affamato, pensai.
«Tu lasci sempre qualcosa nel piatto», mi disse a proposito dei miei avanzi. Quando sono sazia, io smetto di mangiare. Il Francese non era mai sazio. Era sempre in grado di finire la sua porzione tanto quanto i resti della mia. E mangiava anche cose che io non avrei avuto il coraggio di toccare. Cereali freddi. Avanzi di pollo di dubbia freschezza. Gelato scaduto da mesi. Col tempo, imparai a memoria gli alimenti freschi che gli piacevano di più. Caffè. Miele. Cioccolato.
Cucinare è il solo modo che conosco per conquistare un uomo. In passato, ero riuscita a trovarmi un fidanzato con un pollo arrosto, o una pasta fatta in casa. Ho avuto raramente delle storie. Sono stata definita «complicata» — e non in senso positivo. Il cibo è il mio modo di andare oltre l’amicizia. Di solito, comincio con una ricetta per rompere il ghiaccio, qualcosa di semplice come una pot de crème o una torta salata.
La prima volta che il Francese mi ha invitata a casa sua, gli ho chiesto se potevo portare un dolce. Ho preparato dei tortini di cioccolato con il cuore fuso, seguendo la ricetta imparata da Jean-Georges Vongerichten alcuni anni prima e utilizzando il miglior cioccolato francese e baccelli di vaniglia di Tahiti. Mentre chiacchieravamo del più e del meno giocando a Scarabeo, il Francese li divorava con le mani. «Ouf, ma quanto sono buoni!», disse con gli occhi chiusi e scuotendo la testa. Lui continuò ad invitarmi, e io a preparargli dei dolci.
Sceglievo il miele della migliore qualità per la panna cotta, che sformavo in una pozza di caramello e guarnivo con foglie di timo. Gli ho fatto anche delle tarte au citron, utilizzando la ricetta che mi aveva insegnato mia nonna quando avevo 6 anni, ben prima che fossi in grado di usare il forno. «Tutto quello che prepari per me è speciale, dato che mangio sempre le stesse cose», diceva il Francese ogni volta che mi offrivo di cucinare per lui. Lui aveva solo un barattolo di proteine in polvere sul bancone della cucina e una macchina per fare il caffè. A volte anche della frutta. Ma accendeva raramente i fornelli. Io cucinavo per lui piatti sempre nuovi e diversi, come dichiarato atto d’amore. Adoravo guardarlo mentre gustava ogni piatto che gli avevo preparato, stuzzicata dal modo in cui arrotolava le pappardelle sulla punta della forchetta. Arrossii quando lo vidi raccogliere il sugo sul fondo del piatto con il quignon — l’estremità tondeggiante della baguette. Per il Francese, nessuno dei cibi che cucinavo mancava di sale o di aglio. A lui non importava se un piatto era insipido o la pasta troppo al dente dal momento che, come mi disse scrollando le spalle, «Dopo aver finito di mangiare, farò l’amore con te».
«Tu sei l’unica donna, oltre mia madre, che abbia mai cucinato per me». Il Francese me lo diceva soprattutto quando qualcosa gli era piaciuto particolarmente. Quando gli chiesi qual era il piatto più memorabile di sua madre, lui si animò d’improvviso: «Lapin à la moutarde!», il coniglio alla senape. Non lo conoscevo. Quando lui raccontava di come sua madre cucinava il coniglio, socchiudeva gli occhi, si baciava la punta delle dita e parlava con un pesante accento del sud della Francia. Era chiaro che questo piatto aveva qualcosa di speciale. E che io volevo imparare a prepararlo. Avevo visitato numerose regioni francesi, inclusa quella da cui proveniva lui, ma non ricordavo di aver mai mangiato coniglio alla senape. Alcuni giornali di cucina statunitensi lo avevano citato, ma non avevo mai trovato ricette. I giornali francesi lo definivano un «piatto della nonna» ma non andavano oltre. C’era anche una certa confusione su come servirlo. Ma quanto sarebbe stato difficile da preparare?
Il Lapin à la moutarde è un piatto semplice, in realtà. Scalogno. Prezzemolo. Vino. Mi mancava solo il coniglio. Dopo un po’ di ricerca e 30 minuti di auto trovai un piccolo negozio che vendeva 4 piccoli conigli interi. Ma, quando il macellaio ne sollevò uno per mostrarmelo, mi sentii a disagio. Ho cucinato per tutta la vita, ma non avevo idea di come si sceglie un coniglio.
A quali caratteristiche dovevo fare attenzione? Che odore doveva avere? Ho cominciato a fare mille ipotesi su questa ricetta, non sapendo cosa stavo facendo. La salsa avrebbe dovuto essere beige o marrone? Devo utilizzare vino bianco o rosso per deglassare la padella? Lo accompagno con insalata? Ma che gusto deve avere? Nessuno tra i miei amici chef conosceva la ricetta abbastanza da darmi delle risposte. Il Francese non sapeva cucinare. Per qualche insondabile motivo, l’idea di cucinare per qualcuno a cui tenevo cominciare a rendermi ansiosa. Alla fine, chiesi al Francese cosa desiderasse mangiare. Lui mi accarezzò una guancia e mi disse amorevolmente: «Sono certo che qualunque cosa tu prepari sarà eccellente, solo perché l’hai cucinato tu». Quella sera, abbandonai l’idea del coniglio e cucinai anatra glassata.