Non c’è dubbio che, per chi ama la natura e la tranquillità, Borgo Santa Cecilia sia un angolo – non poi così piccolo – di paradiso in terra: 320 ettari di Tenuta Faunistico Venatoria, tra boschi, campi e pascoli sulle colline che salgono su da Gubbio (o da Umbertide) verso la frazione di Montelovesco, dove l’antico borgo ottocentesco Piemontino è stato riportato a nuova vita dalla famiglia Onorato dopo lo spopolamento. Da qui, lungo la passeggiata che dal borghetto trasformato in struttura di ospitalità rurale di charme – parte della “community” Teritoria – conduce verso le parti più alte, la vista riesce ad abbracciare le cime dell’Amiata e i Sibillini; e poi, volendo si scende fino al Santuario di Santa Cecilia, che in alcune date ospita ancora la messa, e alle scenografiche “tazze”: due piscine naturali in cui si raccoglie l’acqua del fiume Mussino, affluente del Tevere che, secondo la credenza popolare, avrebbe proprietà taumaturgiche essendo state impresse nella terra dalla santa eremita che viveva in preghiera in una grotta nelle vicinanze.
Per chi è pigro, ci si arriva anche con il “safari verde” proposto dalla Tenuta, a bordo di un VM fuoristrada che conduce alla scoperta del territorio circostante, magari anche per avvistare uccelli migratori o per un’uscita in cerca di tartufi in compagnia dell’adorabile lagotto Juno. Una bella gita panoramica, ma anche un modo per comprendere meglio cosa ci sia dietro alla sensazione di benessere da cui ci si sente avvolgere arrivando al borgo per una breve pausa di relax e gastronomia, fermandosi possibilmente almeno per una notte per godere dello spettacolo del panorama con la luce del sole (e anche per affrontare senza preoccupazioni per il ritorno una bella cena accompagnata da interessanti etichette).
Perché se un conto è rifugiarsi a Borgo Santa Cecilia, in una zona remota e considerata svantaggiata per clima, terreni scoscesi e assenza di urbanizzazione, per una tregua ristoratrice da caos e routine cittadina, lasciandosi coccolare dai tanti comfort – dai trattamenti olistici alla piscina con idromassaggio e il solarium per i mesi estivi alle classi di yoga e alle belle camere –, un altro è decidere di vivere qui in pianta stabile e trasformare la tenuta in un’azienda modello, dove etica e sostenibilità diventano le colonne portanti di un’economia piccola ma virtuosa che vuole sostenere tutta l’area preservandola dall’abbandono o dal rischio di cementificazione.
È la scelta che hanno fatto Giuseppe Onorato e sua moglie Serena Sebastiani, decidendo di lasciare Roma e le loro occupazioni precedenti per venire a vivere qui tutto l’anno, in un luogo bellissimo ma di certo non comodo, mettendosi al lavoro in prima persona: lui segue da vicino l’azienda agricola, sui cui terreni si coltivano biologicamente cereali, foraggi e olive, e l’allevamento allo stato semi brado dei maiali (ma ci sono anche agnelli e galline) da cui ottiene dei salumi eccezionali, ricchi di sapore ma senza eccesso di sapidità, che stagiona a lungo nella cantina del borgo dove accoglie i visitatori tra aroma celestiali e muffe nobili per degustazioni e visite. E si occupa anche di gestire la caccia di selezione nella tenuta, lavorando a stretto contatto con i cacciatori autorizzati che tengono sotto stretto controllo il numero di cinghiali, caprioli, cervi, lepri e selvaggina da piuma da abbattere per mantenere l’equilibrio nel delicato habitat del bosco e assicurare carni buonissime, perpetuando l’aspetto più “sano” di quest’usanza arcaica e cruenta ma che a suo modo rientra nel ciclo della natura.
La sera però lo si ritrova anche tra i tavoli del ristorante, pronto a dare consigli sulle belle bottiglie per nulla scontate – mai ci era capitato di assaggiare fuori regione un’ottima Tintilia molisana, il Beat di Agricolavinica, seguita dal raro Rosso Due Colli, Gamay Igt Umbria Rosso dalla trama elegante e seducente – che sceglie personalmente per la carta dei vini. Lei è indaffarata in cucina, dove affianca Alessio Pierini nella creazione del menu e la preparazione dei piatti.
Non era facile trovare qualcuno che fosse in grado di incarnare lo spirito autentico, insieme selvaggio e raffinato, di questo luogo in piatti e ricette: ci riesce benissimo il giovane chef eugubino che, dopo gli studi ad Alma e alcune esperienze in Italia, ha scelto di tornare a casa e di sposare un progetto lontano dai clamori mediatici ma assai stimolante, a partire dalle materie prime che ha a disposizione, senza tradire il contesto agricolo ma nemmeno disattendere le aspettative di chi arriva fin qui per la cena (lasciando da parte gli appuntamenti autunnali de Il Borgo Selvaggio, con pranzi nel bosco in cui vengono coinvolti chef ospiti con un approccio affine alla cucina “wild”).
Sedersi ai tavoli della sala lineare ma confortevole, riscaldata dal fuoco del camino e dal disegno murale sulla parete in fondo, ispirato al bosco, prelude a un’esperienza piacevolissima che sorprende in prima battuta per quello che manca: niente vasi di fermentati in bella vista, niente roboanti dichiarazioni d’intenti, niente ansie da prestazione avanguardistica. Ma, invece, tanta sostanza e rispetto degli ingredienti, intelligenti rielaborazioni del territorio, capacità di racchiudere l’essenza delle stagioni in sapori confortevoli e immediati che non per questo rinunciano a stupire, pur senza “effetti speciali” (ve ne abbiamo parlato anche qui).
Come in quella nota piacevolmente amara che rinfresca ogni boccone dei Tortelli di cacciagione, tabacco, e stracchino di capra, data dalla minima ma significativa presenza del bergamotto, o nel felice incontro tra cacao, zucca e tartufo che accompagnano la deliziosa quaglia, o ancora nello strepitoso capriolo dalla cottura perfetta, accompagnato da ciliegie in aceto e lattuga. O nello zabaione ai funghi porcini che accompagna il gelato alla mandorla cruda e la soffice brioche con confettura di uva fragola, ricordo delle stagioni precedenti.
Mentre l’avvio del menu è affidato alla selezione dei buonissimi salumi di maiale e cinghiale Onorato – o al prosciutto 36 mesi “in purezza” – oppure a piatti come la Verza bruciata e pane fermentato. «Certo, anche noi usiamo le fermentazioni: ma come ripresa di usanze antiche dettate dalla necessità, in zone come questa dove in inverno non c’era molto da mangiare, più che come moda», sottolinea Pierini, a ricordare come spesso la contemporaneità affondi le sue radici nel passato.