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Buenos Aires

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Il ritorno di El Prefe

La rinascita di una delle taverne più iconiche di Buenos Aires, El Preferido.

In passato in ogni quartiere di Buenos Aires c’era un posto amato dalla gente del luogo dove potersi fermare per una bibita e qualcosa da mangiare, e rimanere poi per qualche mano di poker da pochi spiccioli. Lo scrittore Luis Borges ha immortalato uno di questi ritrovi nella poesia Fundación mítica de Buenos Aires, che rievoca la sua infanzia trascorsa nel quartiere popolare, pieno di verde e case basse, chiamato Palermo:

Un emporio rosa
Come il retro di una carta da gioco risplendeva; Sul retro si parlava di mani di poker vincenti.
Il bar all’angolo esplodeva di vita…

Il palazzo color garofano della giovinezza di Borges era El Preferido de Palermo, uno spaccio che aveva al suo interno anche una taverna conosciuta come bodegón. Per una clientela con radici nell’immigrazione spagnola e italiana, i bodegones erano il riferimento più affidabile per la cucina casereccia locale, la cocina porteña. Chiedete alle persone di una certa età di raccontarvi del cibo di un bodegón, e ve lo descriveranno sicuramente come «abundante, bueno, y barato» – abbondante, buono ed economico. In anni recenti, le tendenze culinarie hanno portato al declino e spesso alla scomparsa di molti bodegones. El Preferido aveva tenuto duro fino al 2018, poi i proprietari hanno dovuto chiudere. Anziché essere rimpiazzato da un sushi bar o una catena di hamburger – il destino di molti bodegones – però, il palazzo fu acquistato da Pablo Rivero, il proprietario di Don Julio, una steakhouse dall’incredibile successo a un isolato di distanza. Rivero aveva sempre considerato El Preferido parte integrante dell’essenza stessa di Palermo. El Prefe, come è conosciuto in zona, era il simbolo archetipico del quartiere.

Quando i proprietari avevano chiuso l’attività, l’idea di Palermo senza il suo amato bodegón era per Rivero inammissibile, come il Bronx senza lo Yankee Stadium. «L’idea di perdere El Preferido – dice – era come se qualcuno mi dovesse staccare un braccio. Quando lo abbiamo comprato nel bel mezzo di una crisi finanziaria era parsa un po’ una follia, ma non riuscivo a pensare che non esistesse più. Dovevamo impegnarci per evitarlo». Appena preso possesso dell’edificio rosa, Rivero si è messo in moto per far risorgere El Preferido. A lui si è unito il socio Guido Tassi, executive chef del Don Julio, che già in precedenza aveva ottenuto un notevole successo con i piatti del suo gastro-bistro Restó, il ristorante all’interno del quartier generale della Sociedad Central de Arquitectos.

Con la guida di Tassi e Rivero, e con lo chef Martin Lukesch, la nuova versione di El Preferido unisce le tecniche della cucina moderna con ricette semplici e autentiche e un’ambiziosa produzione di salumi di propria produzione; i sapori sono più pronunciati, le consistenze più evidenti. È una formula che sforna piatti da bodegón riproposti in modo creativo per clienti che cercano i sapori di una volta, all’altezza delle ricette della nonna. Una sfida (vinta) non da poco, con la nostalgia che se la batte con un attaccamento emotivo non indifferente. La prima cosa che si nota avvicinandosi al El Preferido è la lunga fila di persone che sperano in un tavolo. Per ingannare l’attesa, gli viene offerto un Gin Tonic. Poi balzano agli occhi le grandi finestre quadrate su entrambi i lati della strada. Le proporzioni e le lettere dipinte in stile rétro ricordano la copertina del disco di Linda Ronstadt, Canciones de Mi Padre.

L’ingresso è una ochava, termine che descrive l’angolo spesso snobbato di un palazzo situato nel mezzo di un incrocio. Tipico dello stile antiquato di molte città latine, crea un’invitante entrata. Tavoli in formica bianca si snodano lungo le pareti della sala e offrono uno sfondo ideale per gli innumerevoli post Instagram da parte di clienti entusiasti. Il bar mette a disposizione un’intima cucina a vista, con la stazione di cottura a legna e una vetrina a temperatura controllata dove Tassi stagiona salame, chorizo e salsicce di vario tipo. C’è perfino il prosciutto di pony, omaggio alle longeve tradizioni equestri dell’Argentina. Il menu include una croccante Milanese di controfiletto ricoperta da una fetta generosa di mozzarella fusa e pomodori di stagione. Il chupín, che come il “cioppino” di pesce italo-americano ha le sue origini in Liguria, è a base di ippoglosso in casseruola con pomodori e fagiolini. Per fare la scarpetta, ci sono panini insaporiti con i grassi di scarto dalla macelleria di Don Julio, dietro l’angolo.

Tutte le verdure servite da El Preferido e Don Julio vengono dall’orto biologico di proprietà a un’ora dalla città, nel fertile terreno di La Plata. Rivero e Tassi descrivono i loro ortaggi “dal seme alla tavola”, autoctoni e scelti privilegiando il sapore piuttosto che la conservazione a lungo termine o la facilità di trasporto. Come dessert, Tassi magnifica i gusti di gelato artigianale di El Prefe, tra i quali la sua specialità: zabaione al Marsala.

La cantina deve molto agli anni che Rivero ha passato mettendo assieme la più vasta collezione di vini argentini del Paese – oltre 60mila bottiglie, anche se da El Prefe propone una carta meno vasta – e meno cara – che al Don Julio. Secondo Sebastian Ríos, stimato critico enologo de La Nacion, «El Preferido offre una scorciatoia verso il presente e il futuro del vino argentino». E aggiunge che «i temi centrali della carta sono bevibilità e convenienza. Non ritengo ci siano altri ristoranti a Buenos Aires con un’offerta altrettanto valida per vini al calice (un altro tema è che la carta dà la preferenza a piccoli produttori con distribuzione limitata; per assaggiarli dovrete per forza visitare Buenos Aires.

Per me il momento perfetto per un pasto a El Prefe è il tardo pranzo, quando il locale si è svuotato un po’ e posso soffermarmi a leggere un quotidiano nella luminosa sala. Ogni tanto arriva qualche profumo intenso di carne e di verdura dall’affumicatore. La mia risoluzione di bere solo un calice di vino a pranzo giustamente lascia il posto a un secondo, per risollevare l’animo. Se il tempo lo permette, un tavolino all’esterno va ugualmente bene. Quando è ora di andarsene a fare una siesta, m’incammino lungo la sonnacchiosa e assolata strada quasi accennando una danza, ma è una cosa naturale per chi, come me, è cresciuto a ritmo di tango.

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Foto di William Hereford

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