Le note di malto, che danno una nuance tostata e quasi affumicata, s’intrecciano con inaspettati profumi di lampone e banana matura, mentre l’acidità è decisamente morbida, piacevole anche per chi non ama quello che è forse il più estremo dei cinque gusti primari, lasciando spazio anche a una leggera nota sapida. Non stiamo parlando di un distillato, né tantomeno di un kombucha, ma di aceto.
Anzi di Kuriso, il nuovo prodotto – da poco presentato con un “tour” americano che ha visto, tra le altre, la tappa al Fancy Food Show e la più ampia master class sull’acidità all’Eleven Madison Park, preceduto da una fitta serie di assaggi e confronti “top secret” con chef e ristoranti italiani, e da qualche giorno ufficialmente in vendita sul sito aziendale – di Acetaia San Giacomo, l’acetaia artigianale guidata da Andrea Bezzecchi in un casale della campagna emiliana tra Novellara e Reggio Emilia.
L’uso in cucina, anche secondo gli chef
«Lo si può usare quotidianamente come alternativa agli aceti classici, per insaporire insalate o verdure ma con un’acidità più bassa», spiega Bezzecchi. Senza tralasciare però usi più particolari e interessanti: «All’evento di presentazione a New York, nello showroom di Canova Cucine, ho proposto un classico cappelletto di carne ma servito freddo e con due gocce di aceto di riso, richiamando l’abitudine asiatica dei gyoza. E può stare benissimo anche su un risotto, perché riso chiama riso».

Ma niente limiti alla fantasia, come dimostrano gli chef che già lo hanno adottato in cucina: Stefano Rossi, alla guida di Zefiro (ristorante fine dining del Lido Palace sul lago di Garda) lo usa per creare maionesi più eleganti e complesse, sostituendo l’aceto classico, ma anche per il condimento per il suo sushi di lago e per preparare il burro acido con cui condisce risotti e paste. Franco Malinverno al Caffè La Crepa ne aggiunge attualmente qualche goccia sul Marubino estivo con verdure dell’orto, versione stagionale della tipica pasta fresca ripiena del Cremonese che propone anche nelle versioni all year long “ai tre brodi” o “burro e salvia”. Mentre da Trattoria Da Lucio, a Rimini, Jacopo Ticchi lo mette a crudo sul suo Tonno alalunga, lardo di Mora Romagnola e rucola, assieme al sommacco.
Il divulgatore dell’acido
Da anni impegnato nella divulgazione della “cultura dell’acido” – anche con progetti insoliti e collettivi, da Gli Amici Acidi ad Acetyca, che indaga le acidità nella gastronomia – oltre che nella sperimentazione incessante sulle “acidificazioni naturali”, o meglio da fermentazione artigianale e spontanea, Andrea Bezzecchi ha fatto della sua passione un percorso incessante di approfondimento, con tanto di dottorato di ricerca in Scienze agroalimentari, tecnologia e biotecnologie (con una tesi sulla fermentazione acetica) all’Università di Modena e Reggio Emilia.
Nasce così ora, dalla sua curiosità e voglia appunto di sperimentare, Kuriso: si tratta del primo aceto di riso nero italiano, ottenuto da fermentazione artigianale di almeno due anni, e per realizzarlo ha trovato la fondamentale collaborazione de Gli Aironi, l’azienda piemontese oggi guidata da Michele Perinotti – coltivatore di riso, ma anche tecnologo alimentare con una pari attenzione all’innovazione – che nella provincia di Vercelli coltiva appunto anche riso nero integrale, in questo caso trasformato in uno sciroppo profumato e denso tramite l’enzima amilasi.
Frutto di doppia fermentazione artigianale e spontanea – che usa cioè il metodo più lento e tradizionale di acetificazione, vale a dire quella statica superficiale senza impiego di macchinari che ne velocizzino il processo, e senza l’utilizzo di culture starter ma solo tramite i batteri presenti nell’ambiente dell’acetaia e delle botti che qui riposano, rendendo di fatto ogni lotto irripetibile –, Kuriso è sicuramente un prodotto unico (oltre che estremamente interessante, per gli chef in primis), per l’Italia e non solo.
Dal Giappone all’Emilia-Romagna, come nasce l’idea
L’idea nasce infatti dal Giappone, dove l’aceto di riso nero – Kurozu o Kurosu, da kuro, che significa “nero”, e su, che significa “aceto”, da cui l’italianizzazione del nome che è un marchio registrato – è un ingrediente molto comune: è lì, nei suoi tanti viaggi di conoscenza e promozione dei suoi aceti, che Bezzecchi lo ha conosciuto, approfondendo una scoperta fatta qualche anno prima in Cina: «Circa dieci anni fa, con UniMoRe, ho partecipato a un congresso scientifico sugli acetobatteri presso la regione cinese di Taiyuan, famosa per i pregiati aceti scuri da cereali, che mi ha aperto un mondo estremamente interessante», racconta.
Un tema che ha approfondito appunto nella sua tesi di dottorato, con un capitolo dedicato alla produzione di aceti innovativi sulla base di materie prime non convenzionali o “di scarto” – tra cui il siero del Parmigiano Reggiano, formaggio di cui è degustatore professionista, e appunto il riso nero integrale italiano – e tramite il metodo lento e complesso dell’acetificazione spontanea in botte. Con l’idea, appunto, di differenziarsi dalle tradizioni orientali per il non utilizzo di starter – quali funghi come koji o Qu, che però liberano amminoacidi come il glutammato, che portano alla creazione del gusto umami dando un altro carattere al prodotto – e per l’uso di piccole barrique scolme, aperte e già usate per il vino, che arricchiscono l’aceto con note tanniche e danno complessità.
L’importanza del tempo
Dalla teoria alla pratica, subito dopo la discussione della tesi nel 2020 Andrea Bezzecchi si è messo a lavorare sulla produzione di questo nuovo aceto che, dopo la fermentazione spontanea in barile lunga almeno due anni, è stato affinato per un ulteriore anno in botti di legno (castagno e rovere) già utilizzate da Acetaia San Giacomo per fare altri aceti che nascono nella bottaia, accanto al pregiato Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia Dop (del cui Consorzio di Tutela Bezzecchi è attualmente vicepresidente).
Se la produzione di aceto di riso, mutuata appunto dalla tradizione orientale, non è ormai una novità in Italia dove è apprezzato per il sapore leggero e il gusto delicato, a rendere unico Kuriso è non solo l’unione tra la tradizione artigiana emiliana e la materia prima piemontese, ma soprattutto l’utilizzo – in particolare per la seconda fermentazione – del metodo lento. E come sempre, il tempo si rivela un ingrediente prezioso.