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La Maremma nascosta

Alla scoperta dell’entroterra maremmano, dove un drappello di vignaioli produce vini articolati, dinamici e freschi

maremma food and wine italia

Nel mondo del vino non ci facciamo mancare parole d’ordine, passaparola rimasticati, pregiudizi morire: «I Bordeaux sono rossi noiosi e tutti uguali, vuoi mettere la varietà dei Borgogna?»; «Ormai bevo solo rossi da nebbiolo e da sangiovese»; «I Trento sono più buoni dei Franciacorta perché sono meno dolci e più sapidi», et similia. Sui vini toscani, poi, la stratificazione dei cliché raggiunge il vertice: «La Toscana è terra di rossi», «I Supertuscan sono ormai un fenomeno del passato ma c’è ancora chi li compra», «A Montalcino hanno piantato viti anche nel soggiorno di casa, le vigne buone sono poche e molti vini vengono da posizioni dove una volta si coltivavano le patate». Stereotipo tosco consolidato è di sicuro: «In Maremma si fanno rossi alcolici, pesanti, stucchevoli». Ne siamo davvero certi? Non c’è dubbio che il clima, le giaciture, le condizioni generali della viticoltura della Maremma “bassa” – la lunghissima striscia di territorio costiero che si svolge dalla porzione più settentrionale, in provincia di Livorno, fino a travalicare i confini del Lazio a sud – non favorisca la nascita di vini longilinei, facili da bere. Complice l’enologia turbomodernista degli anni 80/90, qui sono stati prodotti alcuni dei mallopponi più indigesti della storia vinicola: veri e propri macigni, che nei casi più estremi si potevano usare all’occorrenza come lubrificanti per auto e moto. Ma è altrettanto indubitabile che esista una Maremma meno nota, più interna, che sa dare al contrario vini articolati, dinamici, addirittura freschi. Vini insomma che si possono anche bere, volendo. Sottolineo che sto distinguendo il piano meramente geografico da quello del gusto e dello stile dei vini. Un topografo non si sognerebbe di proporre un’omogeneità morfologica della Maremma interna: la Maremma Alta propriamente detta, che coincide in buona parte con le colline metallifere grossetane, non ha infatti molti tratti di continuità con l’area del tufo, più a sud e a est; se non nell’elementare somiglianza del paesaggio di alta collina. Eppure basta che ci si sposti di qualche chilometro nell’entroterra, abbandonando il panorama mediterraneo della costa, per trovarsi in un contesto più mosso (anche se non più fresco dal punto di vista termico: nelle vallate interne, non aiutate dalla naturale ventilazione marina, in estate le temperature possono risultare soffocanti rispetto all’area litorale). Qui un drappello di vignaioli propone vini dallo slancio aromatico e dalla cinetica gustativa spesso sorprendenti. I tratti che accomunano le loro bottiglie, al netto delle suddette differenze, sono evidenti: colori dei rossi in media meno saturi rispetto alle controparti costiere; profumi in media più ariosi; sapori in media più ritmati e dinamici.

I classici

MASSA VECCHIA

È un nome ormai riassorbito nella classicità, e – restando agli amanti dei vini cosiddetti naturali – addirittura nella leggenda. Qui tutto è ispirato a un rigore claustrale, lontano anni luce dal chiacchiericcio mediatico. Dalle scelte colturali, votate alla più intransigente agronomia ed enologia antichimica di sintesi, alla deliberata politica di allontanarsi dai radar di qualsiasi testata giornalistica. Il creatore Fabrizio Niccolaini, che ha avviato l’attività negli anni 80, è una figura semidivina. Più ascetico di Sant’Onofrio Anacoreta (IV secolo d. C.), si è distinto per la capacità quasi rabdomantica di “trovare” vini puri, di particolare intensità espressiva. Certo, non sempre e non in tutte le tipologie. Dato che il lavoro a Massa Vecchia è rispettoso dell’andamento stagionale, e non piega la natura ad alcun compromesso manipolatorio, non sono mancati vini un po’ più opachi negli esiti. Significativa la scelta di non vincolarsi allo stereotipo “vinoverista” dell’uso di vitigni autoctoni. A Massa Vecchia non si è infatti mai temuta l’impopolarità di varietà considerate anonime quali il cabernet e il merlot; vitigni cui si è affiancata comunque una maggioranza di uve più tradizionali: vermentino, alicante, aleatico, sangiovese. La vinificazione, monacale, prevede l’assenza di preparati di sintesi. Dettaglio non marginale, non si aggiunge nemmeno un grammo di solforosa, ciò che ha posto Massa Vecchia all’avanguardia delle sperimentazioni su vini prodotti con questa filosofia micro-interventista. Niccolaini ha ceduto nel 2009 la guida (absit iniuria verbis) dell’azienda, ritirandosi in alta collina a fare l’allevatore. Dopo questa parentesi decennale, dai primi mesi del 2019 è tornato ad occuparsi delle vigne e della cantina.

AMPELEIA

A poca distanza da Massa Vecchia, su rilievi collinari severi, che non hanno nulla della morbidezza sonnacchiosa delle piccole alture costiere, si trovano le vigne di Ampeleia. L’azienda è stata fondata nel 2002 da Elisabetta Foradori, celebre vignaiola trentina, e da una coppia di imprenditori. L’idea fondativa è stata di realizzare vini autentici, lontani dalle bottiglie fabbricate in serie dall’enologia della fine del secolo scorso: niente sostanze di sintesi, e dal 2008 conduzione integrale in biodinamica. Motore centrale della produzione il giovane Marco Tait. Marco segue con cura le viti e vinifica in modo inspirato: pur conservando una cifra stilistica chiara (in sintesi: frutto tonico, mai molle; spettro aromatico vibrante, privo di toni surmaturi; gusto ritmato, di grande progressione), i vini non sono mai del tutto prevedibili. Interpretano anzi plasticamente i vari andamenti stagionali, e possono quindi differire in modo sensibile da una vendemmia all’altra. Senza alcun legame diretto, ma in evidente continuità con Massa Vecchia, anche qui ci si sente liberi di accostare agli ormai sacri vitigni della tradizione uve meno à la page quali il cabernet franc e il merlot. Le parcelle vitate non si trovano in un unico corpo, ma sono distribuite in tre differenti terroir. Ampeleia di sopra è il nucleo aziendale più vasto. Tra i 450 e i 600 metri, è piantato soprattutto a cabernet franc. Le diverse esposizioni e composizioni dei suoli, il clima che incontra la brezza del mare, fanno di questi luoghi «un ambiente unico, fortemente caratterizzato dalla presenza del castagno». Ampeleia di mezzo «è terra di sangiovese. Suddivise in piccole parcelle tra i 250 e i 350 metri, le vigne sono immerse nei boschi di sughere misti alla macchia mediterranea». Ampeleia di sotto, infine, «è la parte più vicina al mare e al carattere mediterraneo di questi luoghi. I vigneti sono piantati con i vitigni della tradizione mediterranea, grenache in prevalenza». Le referenze aziendali sono numerose: si va da un attraente rosso “di base”, Unlitro, all’ambizioso Ampeleia, un Cabernet Franc quasi in purezza (con un saldo di sangiovese), passando per un bianco macerativo (trebbiano, poca malvasia, poca ansonica) e per un Alicante delizioso nelle sue delicate sfumature aromatiche.

SASSOTONDO

Un’azienda e un territorio che certamente non si trovano in diretta continuità con le colline metallifere, poste più nord di almeno un’ottantina di chilometri. L’area coincide in via approssimata con l’antico bacino vulcanico del lago di Bolsena. I vigneti di Sassotondo sono a cavallo dei comuni di Sorano e Pitigliano. I terreni sono eminentemente tufacei. Qui il tufo è infatti pressoché ubiquo: gli speroni di roccia su cui sorgono i paesini sono di tufo; i suoli sono di tufo; le costruzioni sono in tufo; forse anche gli spazzolini da denti e i cuscini sono di tufo. E di tufo, com’è ovvio, sono i sassi tondi presenti nelle vigne: da cui il nome dell’azienda. Si tratta di un nucleo produttivo tra i più storici della zona. Edoardo Ventimiglia e Carla Benini sono qui da quasi trent’anni. Ricordo bene la prima visita presso l’azienda, in un’altra èra della storia del vino italiano. Negli anni 90, soprattutto in Toscana, imperavano i tagli di uve. E ogni taglio che si rispettasse doveva contenere almeno un’uva internazionale: cabernet e merlot in testa. A Sassotondo si puntò invece da subito su una singola vigna e su una singola varietà. Il loro vino tuttora più conosciuto, il San Lorenzo, proviene infatti da una delle parcelle più vecchie di ciliegiolo dell’intera penisola (oggi ha oltre sessant’anni di età). Altro primato, se non assoluto di certo locale, la scelta di lavorare la terra e di fare il vino in regime biologico (1997), e poi biodinamico. Oggi Sassotondo comprende una dozzina di ettari vitati, che ospitano una varietà di uve originali per la zona: ciliegiolo, sangiovese e trebbiano, ovviamente; ma anche teroldego e greco. Altrettanto composito il listino. Si va da un tradizionale Bianco di Pitigliano a un paio di orange wine, fino a bottiglie ottenute da blend di uve. Ma il cuore della gamma è costituito dalle diverse declinazioni di ciliegiolo. Il Ciliegiolo “di annata” esalta i caratteri più gourmand della varietà e si esprime quindi sulla freschezza del frutto e sull’agilità di beva. Il Poggio Pinzo, vinificato in anfora – o meglio, come mi corregge Edoardo: «In terracotta. L’anfora, il kvevri, sono la variante interrata» – aggiunge un supplemento di energia in termini di presa al palato, ritmo gustativo e complessità. Il San Lorenzo, infine, è il capofila: da uve del già citato vigneto omonimo, è vinificato senza lieviti selezionati e matura in botti di rovere di Slavonia da dieci ettolitri. Ha di solito significativa profondità di colore, ricchezza di profumi iridescente e notevole progressione al palato.

ANTONIO CAMILLO

Qui ci troviamo a Manciano, nella Maremma grossetana. Le vigne, su altitudini collinari, sono quasi a metà strada tra Sovana e i caldi terreni costieri che guardano la laguna di Orbetello. I raffinati vini di Camillo sono oggi universalmente apprezzati, i bevitori esperti se li contendono e i compratori esteri fanno a gara per accaparrarsene qualche bottiglia. Una decina d’anni fa, tuttavia, la produzione era più confidenziale. Mi tocca quindi suonare la grancassa dell’orgoglio personale citando una ormai remota edizione di una guida dei vini (che all’epoca curavo insieme a Ernesto Gentili), nella quale proponemmo per la prima volta ai lettori la smagliante qualità del Vallerana Alta, annata 2009. Con tutto il dovuto rispetto per l’apprezzabile livello raggiunto da altri produttori locali, prima di allora non era proprio finito nel nostro taccuino un rosso tanto nitido, dinamico e aggraziato. Antonio ha scelto di coltivare soltanto vitigni autoctoni, puntando in particolare sul ciliegiolo. Le lavorazioni in vigna sono pure e caste: nessun diserbante, niente chimica in generale, se si eccettua il classico binomio rame e zolfo. Stesso spartito in cantina, dove si accompagna “in sottrazione” ogni fase della nascita del vino. I vasi vinari sono in acciaio e cemento (e botti da 15 ettolitri per il vino di vertice); le dosi della (ormai) famigerata solforosa minime. La gamma comprende un Vermentino “costiero”, il Marittimo, le cui uve nascono a poca distanza da Capalbio; uno snello Morellino, il Cotozzino, che – per mantenere la rima – è fresco e beverino; e la pietra angolare della firma: il Vallerana Alta. Questo complesso rosso viene da una parcella singola di circa un ettaro, il cui nucleo storico si approssima ai settant’anni di età. I suoi punti di forza sono un’iridescente ricchezza delle note di frutto, una trama tannica fine e succosa, un notevole bilanciamento delle parti e un finale lungo, melodioso.

A questo link l’intervista ad Antonio Camillo.

L’azienda emergente

QUERCIA GROSSA

Azienda giovane, avviata nel 2012, Quercia Grossa si trova quasi attaccata ad Ampeleia. Sono in sostanziale continuità, quindi, anche le caratteristiche pedo-climatiche: significativa altitudine delle vigne; terreni galestrosi con affioramenti calcarei detti “colombini” (a causa della colorazione, un biancastro/azzurrognolo simile al piumaggio dei colombacci); vigne condotte senza sostanze di sintesi; vinificazioni essenziali, lieviti autoctoni, basse dosi di solforosa. Un lieve scostamento dalla tecnica di Marco Tait, del quale il giovane titolare Pierpaolo Bertolini è amico e forse seguace, si rintraccia nell’uso delle barriques di rovere francese per l’affinamento del rosso Battifolle: un taglio di sangiovese, merlot e cabernet un po’ prevedibile, ma di buona fattura. Fanno parte della gamma aziendale anche il Faluschino, un bianco calibrato nella macerazione, e il rosso Acquanera. Quest’ultimo, in sensibile distanza concettuale dal Battifolle, è invece un rosso vinificato in cemento e successivamente tenuto in anfora. In origine taglio di ciliegiolo, canaiolo e malvasia nera, con la vendemmia 2017 passa a una composizione del tutto diversa: 50% cabernet sauvignon, 50% merlot.

A questo link, una selezione di etichette maremmane.