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Mammarossa

La riscossa della carne di pecora sulle tavole del casual e fine dining

Nella ristorazione contemporanea parlare di sostenibilità degli ovini è un percorso ancora lungo. Ecco come gli chef hanno nobilitato e ingentilito ogni parte di questo animale “a fine carriera” grazie alla frollatura: dalla battuta al coltello alla trasformazione in lardo, senza dimenticare le suggestioni della brace.

Chi è stato da Josto in Sardegna, ristorante vocato alla cucina regionale contemporanea nel centro di Cagliari, non potrà non essere rimasto colpito dall’incipit della carta: “Nessun piccione è stato maltrattato per la realizzazione di questo menu”. Pierluigi Fais, titolare e chef, è convinto che nel fine dining ci possa essere anche altro e lo dimostra sollevando un lenzuolo bianco sul banco durante l’ultimo Congresso di Identità Golose. Mentre dalla platea gli smartphone mettono a fuoco, lui comincia a disossare una pecora intera frollata per circa tre settimane, un intervento che ai veterani di questo palco ricorderà la lezione di Diego Rossi che nel 2019 realizzò ben otto ricette con l’ovino. «Per tanti la pecora è stata dimenticata, soprattutto perché è legata al mondo agropastorale, quindi sapori selvaggi e poco eleganti; una volta il suo consumo era immediato e non c’era il tempo di contrastare il rigor mortis e intenerire le carni con il processo di invecchiamento dopo la macellazione. Poi, ci sono anche ragioni commerciali che fanno emergere la mancanza di una filiera organizzata nell’Associazione Allevatori Regione Sardegna». Più che un talk di cucina sembra una lectio di anatomia quella divulgata dal cuoco sardo che applica alla pecora lo stesso trattamento riservato al bovino, un passaggio fondamentale frutto di anni di studio e di ricerca che gli hanno permesso di capire come trattare i singoli tagli. Se dalla spalla e dal costato ricava le parti per la sua pecora bollita 2.0 – piatto tradizionale isolano ingentilito con una cottura arrosto e profumato con le stesse erbe aromatiche che la pecora ha mangiato nel corso della sua vita –, è dal carré, dalla coscia o dalla spalla che ottiene il suo crudo. In questo caso, si tratta di una battuta al coltello il cui morso tenace viene alleviato dalla grassezza delle mandorle tostate che si allunga poi con il retrogusto tannico dato dalla riduzione di karkadè. «In prospettiva è una carne realmente sostenibile – spiega il ristoratore cagliaritano –. Sia nel prezzo, perché se al pastore costa 30 euro a me ne costa meno del doppio e con 9 chili riesco a servire anche 50 porzioni (praticamente quasi un euro a razione!); sia a livello etico, perché sono animali “a fine carriera” che hanno già dato il loro latte. Con le ossa a volte preparo un cocktail di benvenuto con vermouth di vernaccia, acqua tonica e gin. Il prossimo obiettivo è lavorare le interiora per chiudere il cerchio in tema di sostenibilità».

A Roma, nel cuore di Trastevere, Antonio Ziantoni non ha fatto fatica a convincere i propri commensali a mangiare la tartare di pecora «perché è un animale pulitissimo che si ciba di sola erba». Menzionata tra le voci degli antipasti di Zia Restaurant, questa ricetta esce con una insalata di fragoline di bosco in conserva, della pimpinella e una salsa bernese che trova il contrasto freddo-caldo a contatto con il jus di pecora, un fondo classico che restituisce in bocca quel codificato sapore tostato. «È un omaggio alle mie origini, io sono di Vicovaro, un paese nell’Alto Lazio che è praticamente Abruzzo. Qui si usa mangiarla cotta, un po’ essiccata, mentre io l’ho portata cruda nel mio gourmet. È stata un po’ una sfida personale per nobilitarla, restituendole il giusto tempo di frollatura».
Dallo stellato all’iconica Salumeria con cucina in via dei Giubbonari, la pecora si fa spazio tra le deliziose selezioni di salumi iberici, le alici del Cantabrico e naturalmente i primi della tradizione romana, entrando per la prima volta nel menu di Roscioli in punta di coltello, ancora una volta servita cruda. «Vado pazzo per gli arrosticini abruzzesi – confida lo chef Fabrizio Di Stefano – e mi sono chiesto che altro potessi realizzare. Da qui è partito lo studio del prodotto e la ricerca degli elementi che avrei potuto abbinare per rendere la carne più soave». L’intuizione ha preso forma con una tartare primaverile che è un omaggio alla pastorizia, addolcita e condita con camomilla e polline, quindi puntinata con una robiola ai tre latti (pecora, vacca, capra) e a completare una distesa di erbe di campo e acetosella. Sempre nella capitale Mamma Orso (bistrot di recente apertura a piazza Bologna) sciorina piatti come una genovese di pecora, un ragù “da pascolo” che diventa protagonista di una portata opulenta in termini di cremosità e prepotente in quel connubio dolce-erbaceo tra cipolla e proteina animale.

Negli ultimi anni, nella zona del veronese, le carni piuttosto magre e asciutte della pecora sono state riportate in auge grazie a un lavoro sinergico di allevatori, macellai e produttori. Così, Il Desco – una stella Michelin nel pieno centro della città scaligera – ha scelto proprio la razza Brogna della Lessinia – presidio slow food – per il ripieno dei suoi tortelli. Candita e spolpata completamente, la carne cuoce similmente a uno stufato, mantenuto umido e succoso dai mestoli di brodo vegetale, e riequilibrato nelle note balsamiche grazie a un infuso di menta ed eucalipto. A meno di un’ora di auto si arriva invece a Brescia dove Antonio Pappalardo alla Cascina dei Sapori di Rezzato propone la pecora con robiola e puntarella nella sua pizza al padellino ricca di umami. In questo caso, la scelta ricade su un taglio magro, come noce o magatello, marinato per 24 ore nel brodo dashi. «La pecora gigante bergamasca era in via di estinzione, sopravvissuta grazie all’immigrazione, specialmente araba. Ha un’ossatura grande, motivo per il quale è chiamata gigante. Possiamo tranquillamente dire che la carne che ne deriva è una delle più sostenibili, in quanto si nutrono di sole erbe naturali e, transumando libere per le valli, puliscono e arricchiscono il terreno, motivo per il quale vengono definiti animali sani. Una carne estremamente delicata, magari e dolce».

Non è una pizzeria, o meglio non solo, Bauhaus a Roma – progetto enogastronomico della stessa proprietà di Biffi che il prossimo 7 giugno compirà il suo primo anno di vita e ispirato alla corrente artistica tedesca – che nella sua parte gourmand ha deciso di cimentarsi anche con una lasagna di pecora che viene panata e fritta. I passaggi sono da manuale della brava sfoglina: pasta all’uovo fatta in casa per poi stratificare quattro piani di sfoglia intervallati da un ripieno sugoso, cotto a lungo e profumato con timo, alloro e maggiorana prima di essere passato nel panko e immerso nell’olio bollente.

In Sabina, alle porte di Rieti,  lo chef Marco Bartolomei al ristorante Papilla gioca con la circolarità ovina nella sua amuse-bouche in cui presenta un carpaccio di pecora, marinato a secco con erbe spontanee raccolte nei pascoli, una gelée di tè del pastore a base di un’erba officinale chiamata stregonia che viene adagiata su un pecorino locale. Il tutto per richiamare il virtuoso ciclo alimentare della pecora e il forte legame della Sabina con la pastorizia. Tra i piatti anche una cheesecake di pecora resa tartare, poi frutta secca e miele con semi di quinoa e clorofilla, mentuccia per profumare.

In Calabria, dove il tempo viene scandito dalle conserve di frutta e verdura o dall’attesa, Antonio Biafora ha realizzato un prodotto unico partendo dal pascolo del signor Mario. «In carta avevamo la pecora ma nel suo scarto c’era parecchio grasso e così abbiamo deciso di farne un lardo, compattato e massaggiato con sale grosso, un po’ di aromi e spezie raccolti in Sila. Il tempo ha fatto il resto: quando si parte da una materia prima straordinaria il lavoro del cuoco è dare maggiore complessità». Biafora ha ricreato un habitat ideale appendendo questo grasso in una cantina a circa 1300 metri dal livello del mare, con la fortuna di essere in prossimità di un fiume che ha contribuito a mantenere l’umidità controllata. «Questo lardo di pecora sa tanto di fieno, ha una propria personalità ed è risultato talmente buono che abbiamo voluto valorizzarlo in una parte importante del nostro menu da Hyle. Da meridionali la scelta è ovviamente ricaduta sulla pasta secca, scolata a metà cottura e mantecata nella salsa di lardo». Questo spaghetto al lardo di pecora, pistacchio tostato e bergamotto è un piatto identitario che racconta una Calabria attuale, caratterizzata dalle note energizzanti dell’agrume autoctono in due consistenze, come gel e in foglie disidratate, e che si dichiara patria di frutta secca ricordando un po’ la grigliata della domenica.

Dall’Altopiano della Sila all’Appennino abruzzese, ci si ritrova in una delle altre regioni più resilienti d’Italia, fatta di chi resta e racconta, di chi tramanda e costruisce il futuro partendo dalla tradizione, tutt’altro che granitica. Proprio in quell’Abruzzo “forte e gentile” coniato nell’Ottocento da Primo Levi, Osteria Mammarossa si apre invece alle contaminazioni come nella pecora cotta nella tajine. «La zona dove abito, Avezzano, è ad altissima vocazione agricola – spiega Franco Franciosi, proprietario e chef del ristorante -. Negli anni ’80 c’è stata una crisi della manodopera del comparto agricolo e quel vuoto è stato colmato dalla comunità magrebina che ancora oggi ci aiuta nella coltivazione del nostro orto. Le pause pranzo sono state un fertile terreno di confronto e con la nostra pecora cucinata gli abbiamo ricordato casa». Se la triangolazione marocchina prevede montone-tegame di terracotta-spezie, la sensibilità di Franco ha proiettato quella suggestione nel contesto pastorale marsicano, rinunciando così al suo paiolo di rame per la versione ruspante alla callara (stufata) ma cuocendola sulla brace, con erbe di montagna e un mix di spezie portate dal Nord Africa. Nell’ultimo menu ha eliminato la tajine per arrostire direttamente la carne tre minuti per lato, lasciando il centro crudo. «Abbiamo lavorato la pecora completamente a mano disidratandola per tre volte in sessioni di 15 minuti con sale e zucchero, poi marinata per una notte con fave di cacao, bacche di ginepro, alloro, maggiorana, pepe di Sarawak, elicriso, santoreggia, timo, riconsegnando alla pecora quello che mangiava, mentre zenzero, cumino e curcuma hanno restituito quel gusto speziato e mediterraneo». La cucina diventa qui linguaggio stagionale, fisico ma anche epocale raccontando la contemporaneità di un territorio che si svela senza confini. «La pecora la usiamo da quando abbiamo aperto (ad agosto saranno dieci anni, n.d.r.) e oltre a essere l’elemento più rappresentativo del sistema abruzzese millenario ci sono interi paesi che reggono ancora la propria economia su pecore e agnelli su cui abbiamo il controllo. Noi ci andiamo a scegliere i capi al pascolo, mentre dei manzi proprio non ne vogliamo sentire parlare. L’unica eccezione la stiamo facendo con il maiale: un contadino di 93 anni ce ne sta allevando tre ma poi si dividono con altre famiglie, come si faceva un tempo». Stagionale e variabile, la cucina di Mammarossa osa anche con piatti come una tartare di cuore di pecora (già uscita in un precedente menu con la rapa), prossimamente servita a mo’ di finger come benvenuto: «Non nascondo che sia un’esperienza importante».

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Foto di copertina: Marco Di Gennaro

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