Latitudine vertiginosa, nome da raduno heavy metal e cammelli che pascolano in spiaggia. Lo strano-ma-vero di Hammerfest, cittadina del Finnmark (la regione più a nord nel nord norvegese), squaderna queste e altre curiosità che ne consolidano l’epos norreno. Da anni, tutto l’anno, rain – anzi, snow – or shine. Optiamo per la stagione più mild che wild, in grado di elargire suggestioni inedite e autentiche, meno mainstream (dunque meno affollate). Col foodscape locale in mente e due date speciali sul calendario: il primo giorno di agosto e l’equinozio d’autunno. A fine luglio il sole torna a scendere sotto all’orizzonte, anche se solo per pochi minuti, dopo quasi tre mesi senza albe o tramonti: quattro gradi oltre il circolo polare funziona così. La seconda data segna la fine dell’estate, da salutare al Lindstrømsfestival (25-27 settembre). Giunto alla settima edizione, è dedicato a gesta e lasciti culinari di Adolf Henrik Lindstrøm.
Ja, Chef!
Gioviale e geniale cuoco di bordo sui marosi del nord e oltre, ha cucinato per le ciurme delle più importanti imprese marinare tra Ottocento e Novecento. Quattro su tutte, tra le tante: con Nansen e poi con Svendrup sul Fram, insieme ad Amundsen verso il passaggio a Nordovest e al Polo Nord.

A proposito di Lindstrøm, in un diario del 1911 Amundsen annotava che «ha contribuito alle spedizioni polari più di chiunque». Sono ormai quasi dieci anni che la statua del local hero di Hammerfest se ne sta sul brygge (docks) da cui ci si imbarca per l’arcipelago davanti e intorno alla città. Puntiamo a salpare pure noi, prima però un giro per riscaldare sinapsi e sgranchire neuroni, preparando papille e pupille all’Hammerfest experience.
Il mondo ad Hammerfest
Tappa #1: il Kafe Nordvest su Strandgata. Microcosmo di macro-talenti gastronomici all’insegna dell’inclusione sociale e della sperimentazione, è un melting pot (letteralmente) di culture lontane che si ritrovano: una sorta di soul kitchen in terra vichinga, con gustose proposte di matrice indiana, asiatica e mediorientale. L’allegra brigata fa da contraltare, proprio lì accanto, all’istituzione cittadina più prestigiosa e longeva – altrettanto internazionale –, paludata ma non ingessata: l’Isbjørnklubb. Più noto come “Royal Polar Bear Society”, si dice sia il secondo club con più soci al mondo e promuove la conoscenza degli ecosistemi artici. Prendete spunti e appunti tra cimeli, documenti, memorabilia varie. E iniziate a immaginare chef Lindstrøm all’opera. Intento a pelare barbabietole, tagliare fette di manzo per la sua celebre bistecca (con capperi e cipolle), frollare bue muschiato o renna, dosare qualche spezia in arrivo da chissà dove, estrarre con cura aringhe marinate da un barattolo di vetro. O (più di rado) maneggiare uova di gabbiano.
Assaggi e passaggi
Alle spalle del klubb partono sentieri che salgono con un’agevole camminata alla sommità del Tyven: andateci per vedere la baia dall’alto (condizioni meteo permettendo) prima di altri assaggi. Dove? Da Trefjøla per il merluzzo (fish & chips di baccalà e polpette di stoccafisso), da Ollu per elaborati drink e tasty bites con materie prime superlocali, all’ex mattatoio Slakteri per una birra e qualche snack prima di un’animata performance live, da Sweet Fantasy per gli smodati Bubble Waffle.
Il Festival
Anche questa volta a ospitare il Lindstrømsfestival ci pensa l’Arktisk Kultursenter – hub in una struttura oversize ma a suo modo accogliente – tra incontri e masterclass, tasting, convivialità molto varia (e poco eventuale). Chi scrive, l’anno scorso ha osato l’inconfessabile sequenza renna-balena-carpaccio di foca, pancake con panna acida, camemoro. E miele di brughiera su brunost (formaggio morbido con caglio di vacca e di capra portato a caramellizzazione). Conta ovviamente di ripetersi, con minime variazioni. Magari sperando in un lutefisk da manuale: stoccafisso in ammollo in soluzione di acqua e soda caustica (poi rinforzato con patate e pancetta), si prepara solo a Natale ma non si sa mai.

Torniamo agli appuntamenti del festival, qualche anticipazione sugli ospiti di quest’anno: Jannicke Oyen (ricercatrice di tematiche food per l’Istituto di Ricerca Marina), Anders Bache (storico), Kevin Kenny (Shackleton Musem). Non tutto si svolge dentro al Kultursenter, c’è tempo per picnic organizzati fuori città e per qualche concerto improvvisato – folk, un po’ di jazz e repertori locali – su un peschereccio ormeggiato al molo.
Island hopping artico
Pronti dunque a prendere il largo, destinazione Sørøya e Seiland, entrambe nella top ten delle isole più grandi del regno. Estesa quattro volte l’Elba, Sørøya è un condensato dell’oleografia norvegese: falesie a picco, colline e valli e piccoli fiordi, cromie cangianti, silenzi e vento che urla. Ci vive un migliaio di persone, sparpagliate tra villaggi collegati tra loro quasi solo via mare. E poi due visioni esotiche: il turchese delle acque in fondo a una spiaggia cui si arriva saltellando giù da un’improbabile grande duna. A ribadire stordimento e sorprese (con una cartolina-bis da Golfo Persico), i cammelli di Oddveig e Øystein. Li hanno portati qui tempo fa e si sono curiosamente integrati, ora fanno parte della famiglia e di alcune delle esperienze che la coppia propone: escursioni sulla battigia, immersioni gastronomiche, tour di più giorni.

Anche Seiland, parco nazionale, vanta una varietà di contesti che soverchia pure i viaggiatori che ne hanno viste tante. Quest’isola è densa di storie su storie, dagli aneddoti dei pescatori – ieri quasi solo aringhe e skrei (merluzzo artico), oggi molti allevano salmoni – alle memorie della Seconda guerra mondiale in cui inglesi e nazisti si sono confrontati da queste parti, con la Russia sullo sfondo. Prendetevi tutto il tempo che potete per navigare lungo le insenature, avvistare foche o calare palamiti, intravedere ex rifugi e conoscere un po’ di cultura marinara sami. Da compendiare con una sosta al Myrnes Gård, storica farm. Gestita dall’eclettico Bjørn Arne – ex ufficiale dell’esercito, poi insegnante e infermiere che da vent’anni si dedica all’allevamento di pecore e agnelli – è un presidio imprescindibile di conoscenza e tradizioni. Gastronomiche, antropologiche, umane.
Gran finale. Land ahoy!
Rientrati in città incamminatevi verso la cattedrale, da queste parti ce ne sono diverse con quella forma aguzza che fa abbondante (ma saggio) uso dei triangoli. Omaggio alle tende sami? Mimesi e ricordo di quando qui il merluzzo era la risorsa per antonomasia e di rastrelliere per essiccarne migliaia di esemplari ce n’erano parecchie: ora conviene avvistarle alle non lontane Vesterålen o alle Lofoten. Quesiti come questo ne pongono altri, di rimando in rimando. E invitano a volerne sapere di più: dedicate almeno un’ora al Gjenreisningsmuseet, notevole museo della ricostruzione post-bellica, dall’ultimo piano la vista è quella che per decenni i guardiani del faro hanno goduto. E chiudete al Fuglenesodden friluftsmuseum, curato centro espositivo outdoor vicino all’aeroporto. Da lì la città pare prossima ma lontana, gli orizzonti schiacciano la prospettiva e vien voglia di ripartire. Per esempio su una delle navi di Hurtigruten: nel viaggio verso nord attracca qui, uno degli ultimi porti prima di terminare la corsa a Kirkenes dopo aver quasi sfiorato Capo Nord. Ennesima avventura, meno eroica ma iconica. Ed epica, q.b.