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Rito

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Rito, alta cucina di casa

A Stiffe, non lontano dal capoluogo abruzzese, una coppia di cuochi con esperienze cosmopolite e una visione legata alla terra propone una cucina solida e interessante. A cominciare dal pane.

L’ampio portone di legno che disegna un arco sulla facciata in pietra di un antico mulino rimesso a nuovo affacciato su un piccolo slargo alle porte del borgo abruzzese di Stiffe segna l’ingresso a un’esperienza gastronomica inattesa. E, in qualche modo, a un salto spazio-temporale tra le montagne del Sirente-Velino che circondano la piana (siamo a poca distanza dal centro de L’Aquila e dalle affascinanti grotte carsiche che rappresentano una delle attrazioni turistiche più visitate della regione), e il Nord Europa: un tavolo di legno per otto commensali, bracieri accesi e candele a riscaldare l’ambiente e l’atmosfera, oggetti che raccontano del passato artigiano di queste zone, rami e foglie usati come décor e vasi in cui fermentano verdure. E, nell’altra grande sala, un forno a legna e una cucina con poca tecnologia ultramoderna ma con tutto il necessario a portare in tavola piatti che parlano sì del territorio abruzzese più verace, ma con sguardo assolutamente contemporaneo e aperto a orizzonti più ampi. Questo è Rito.

La formula è quella dell’home restaurant, il concept conviviale in parte già visto altrove; ma qui a fare la differenza ci sono la testa e le mani di Claire Staroccia e Dan Gibeon: romana nata a Londra da madre inglese e padre abruzzese lei, 100% britannico lui, si sono incontrati a Brighton nelle cucine di Silo, il primo ristorante totalmente “zero waste” – tutto ciò che entra deve essere riutilizzato in qualche modo – aperto da Douglas McMaster nella cittadina costiera inglese e dal 2019 trasferito a Londra, di cui Dan è stato a lungo head chef. Come tappa successiva avevano scelto gli Stati Uniti, dove lui aveva iniziato a lavorare al Blue Hill di Dan Barber mentre Claire, in attesa di iniziare anche lei un’esperienza lavorativa a stelle e strisce, era da Marigold, ristorante e micro-bakery di stampo nordico nel quartiere Ostiense di Roma (dove aveva già lavorato in alcuni ristoranti tra cui Il Pagliaccio).

Come in molti altri casi, il Covid ha sparigliato le carte: «Per fortuna io mi trovavo a Stiffe dove mio padre, originario di queste parti, aveva comprato e ristrutturato un vecchio mulino con l’idea di farne un centro visitatori con tanto di laboratorio di cucina e camere per la notte per i tanti turisti che arrivavano qui per le grotte», racconta lei. Prima il terremoto del 2009 e poi, appunto, la pandemia hanno reso irrealizzabile il progetto. Così l’ambiente è stato trasformato dalla coppia, oltre che in casa propria, prima in un forno e poi in un ristorante dove le loro origini e le esperienze precedenti hanno trovato una nuova forma, plasmata anche da quest’angolo d’Abruzzo fatto di acque e montagne, borghi e rocce: «Quando Dan è riuscito a raggiungermi abbiamo iniziato a fare il pane da vendere in zona, con l’idea di trascorrere qui qualche mese in attesa di poter ripartire. Poi però abbiamo deciso di fermarci, almeno per il momento».

E se il pane resta una parte importante dell’esperienza – inclusa la buonissima pagnotta a base di farina di grano Solina coltivato a San Demetrio Ne’ Vestini da Claudio Mancinelli e del mix multicereali del Mulino Marino, che ci si porta a casa come souvenir – i piatti del menu in continua evoluzione, incentrati su materie prime e prodotti di allevatori, coltivatori e artigiani locali e su un approccio zero waste e nose to tail, sono insieme creativi e concreti, realizzati in modo impeccabile ma lontani dai ghingheri del fine dining. E anche se spesso gli ingredienti tornano in diversi piatti, coerentemente con l’idea portante, il risultato non è mai ripetitivo. Tre volte a settimana – per pranzo, con un menu di nove portate a 50 euro, o per cena con una proposta più articolata a 70 euro, più una pizza night in calendario ogni mese – Claire e Dan officiano dunque il loro irrituale rito gastronomico per pochi fortunati: prima bisognava organizzarsi e riempire il tavolo al completo, ma adesso le prenotazioni sono libere e il ritrovarsi accanto a commensali sconosciuti rende l’esperienza ancor più stimolante. Per il resto, girano spesso in Italia (e anche oltre) per pop up, cene a quatto mani o food market.

In una sera di fine dicembre, cominciamo con un Negroni ben miscelato e con sfera di ghiaccio comme il faut, che accompagna i primi, intensi assaggi in arrivo dalla cucina: gli spicchi di mela semi-essiccata farciti con burro di semi di girasole, gli involtini di cavolo verza con la crema piccante di fagioli e la nota sapida e acidula della polvere di capperi, sambuco e pomodoro (dai residui filtrati per ottenere l’acqua), gli ultimi pomodori dell’orto alla brace conditi con una decisa salsa ranch. E poi ancora la buonissima tostada croccante fatta con l’esubero del lievito madre, generosamente spalmata con la ventricina della Fattoria Valle Magica – dove, nella vicina Carapelle Calvisio, un irlandese e una californiana allevano maiali della razza autoctona Nero d’Abruzzo – con cipolle e carote in aceto, e gli squisiti bigné integrali ripieni di crema cacio e pepe.

Scegliamo una bella bottiglia dalla carta curata da Dan – piena di proposte interessanti, tra nomi noti del mondo “naturale” italiano e non solo, e piccole chicche da scoprire, soprattutto dal territorio regionale – per i piatti che seguono, a cominciare dallo strepitoso KFC. Niente pollo, la sigla sta per Korean Fried Cabbage ed è ormai un signature di Rito: uno “spicchio” di verza marinato in salamoia e poi nello yogurt, fritto e insaporito con una delicata ma presente salsa a base di aceto profumata da zenzero e peperoncino che rimanda all’Oriente. Indovinate note acide anche nell’intingolo di burro e aceto di mele che accompagna le “mele, burro e alici”, mentre nella bruschetta con paté di fegato e cuore d’anatra con funghi pioppini è il gusto squisitamente rustico del pane a fare da protagonista.

Deliziosamente glocal la chitarrina integrale con brodo di funghi, fondo d’anatra – che tornerà come secondo, cotta alla perfezione e accompagnata da radicchio arrosto e arancia candita a comporre un boccone di grande nitidezza – e tartufo nero, da mangiare a mo’ di ramen bevendo il prezioso liquido che rimane dalla piccola ciotola. La stracciata di San Pio delle Camere cosparsa con aglio, miele bruciato e olio extravergine di De Fermo a Loreto Aprutino, è al servizio della scarpetta con il profumato pane tagliato in fette sostanziose.

Ma c’è ancora un’ultima sequenza di assaggi a chiudere la serata, andando felicemente fuori dagli schemi “dolci”: la susina grigliata con zabaione allo zafferano e pecorino lascia spiazzati ma non delusi, il “panino” di pane/biscotto croccante che racchiude un gelato al latte tra due sottili strati di tartufo grattugiato potrebbe diventare un comfort food da dipendenza, mentre il pane al cioccolato caramellato con il miele e accompagnato da una crema di mela cotogna appaga tanto gli amanti del dolce quanto chi non ama le note stucchevoli. E si va via pensando già alla prossima visita.

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Foto di Julian Manuel Ferri

instagram.com/ritopane

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